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mercoledì 3 febbraio 2016

ABORTO e poi.....



Molti autori, psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti, affermano che la gravidanza viene vista come una profonda “crisi maturativa” (H.Deutsch, G.Bribing, E.Erikson e D.Pines), infatti può essere considerata come “crisi” poiché può rappresentare “un pericolo” per un equilibrio di maturazione personale preesistente, comportando conseguentemente angoscia e disagio, un processo caratteristico di questo periodo: è la regressione, in altre parole la tendenza a rivivere esperienze passate, ovverosia l'evidenziarsi di un bisogno di sicurezza e di un aumentato desiderio d'affetto, di supporto che aiuti a gestire l'ansia, ad esempio vediamo la donna che ripercorre, cognitivamente ed emozionalmente, tutte le tappe significative del rapporto con propria madre; “maturativa” come un ulteriore avvicendarsi a stadi di maturazione più progrediti “più adulti”, che permette alla donna di acquisire lo status di madre, fornendole la possibilità di completare il proprio processo di sviluppo concretizzando un progetto di vita. Quindi all'interno della gravidanza vi sono processi maturativi e regressivi, e questo è poi alla base dell'accettazione o del rifiuto della stessa.
Durante la gestazione si verifica un'evoluzione dell'identità femminile, devono essere rimaneggiate le parti di Sé infantili, si deve effettuare un'articolata individuazione di sé stessa come donna e come madre ed un'ulteriore differenziazione dei propri confini personali e del proprio spazio interno nei confronti della propria madre, del partner e delle altre figure, ed accogliere il nascituro all'interno di un nuovo spazio “illusorio“ condiviso dal partner.
La gravidanza comporta, oltre alla preparazione biologica di un utero accogliente, anche l'elaborazione di un “grembo psichico” dove il bambino che nascerà possa essere atteso, cioè pensato ed amato ancor prima di venire alla luce, uno spazio interno deputato, esclusivamente, per il bambino e per la relazione con lui. Bribing individua durante la gestazione due “compiti adattivi” che si succedono nella donna: il primo, nei primi mesi di gravidanza, consiste nell'accettare l'embrione prima ed il feto poi quale parte integrante di sé. Tale completa fusione narcisistica perdura sino a quando la percezione dei movimenti fetali non impone alla donna la realtà di un bambino “altro da sé”, diviene necessario, allora, riorganizzare nuovamente i propri investimenti oggettuali; è questo il secondo “compito” che la donna deve affrontare.
Ciò che fa di una creatura un figlio è il desiderio materno, la capacità della donna di rendere presente e anticipare l'esistenza dell'altro dentro di sé. Gran parte della letteratura sull'argomento, di taglio socio-psicologico, psicoanalitico, demografico e fisiologico sembra sottendere una concezione della riproduzione e del desiderio di essa come espressione normale ed universale, naturale e positiva dell'esperienza esistenziale della donna.
Quanto sinora descritto, ci dà un'idea di che cosa rappresenti la gravidanza nella vita di una donna, è indubbio che interrompendo in modo traumatico, poiché non esiste un IVG “dolce”, si vengono a creare dei problemi, problemi che destabilizzano la persona a livello profondo.
La stragrande maggioranza degli autori sono concordi nell'affermare che l'Interruzione Volontaria di Gravidanza (I.V.G.) è un evento traumatico in quanto produce un notevole stress (tale da creare disturbi alla vita psichica) sopprime gli elementi di identificazione con il bambino, nega la gravidanza (negando così quella parte del Sé che si era identificata con il bambino/a) (H. Deutsch, 1957).
Attualmente tre quadri nosologici sono riconosciuti, a livello internazionale:
1. un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica: la psicosi post-aborto con forme depressive di varia entità, insorge immediatamente dopo l'aborto e perdura oltre i sei mesi;
2. un disturbo caratterizzato da un marcato stress post-aborto , che insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo “più lieve” finora osservato;
3. un insieme di disturbi che possono insorgere o subito dopo l'aborto o dopo alcuni anni: la “sindrome da trauma conseguente ad aborto (S.P.A.)” già descritta nel DSM III dell'American Psychiatic Association. Quest'ultima fu formalmente isolata da Vincent Rue nel 1981, egli la considera una variante specifica della Sindrome da stress post-traumatico.

Come si sente una donna dopo aver interrotto volontariamente una gravidanza? Riuscirà (e come) a superare questo momento? Ci saranno ripercussioni sul suo stato di salute mentale? Sono domande su cui gli studiosi di psicologia si interrogano da sempre, o meglio dal momento in cui l’aborto ha iniziato a essere praticato legalmente in molti paesi del mondo. E da sempre il dibattito si inserisce tra due estremi: quello che reputa che l’aborto volontario possa avere conseguenze anche gravi sulla psiche della donna e quello che pensa che non lo farà.

Nella storia le posizioni degli esperti hanno percorso, a partire dagli anni ‘60, vie estremamente laiche, dove l’aborto entro i tre mesi dal concepimento veniva considerato meno rischioso per la psiche rispetto che portare a termine la gravidanza, sia fortemente allarmiste, dove interrompere la gestazione avrebbe comportato addirittura la perdita di una parte di sé, con conseguenze anche molto gravi sugli equilibri mentali. Dobbiamo attendere più o meno la fine degli anni ’90 per assistere all’apertura di alcuni studiosi a posizioni anche intermedie, più profonde, intenzionate ad affrontare il tema in tutta la sua complessità. Ed è qui che sono sorte idee più equilibrate, come per esempio quella che considera la reazione all’aborto meno problematica da superare se la paziente costretta a interrompere la gravidanza non si è ancora mai identificata come “madre del bambino”. Ma anche in epoca moderna il dibattito non è mai stato pacifico e libero da controversie, come d’altronde non lo è lo stesso discorso sul riconoscimento dell’aborto come diritto. Anzi, oggi è più vivo che mai il timore che la stessa diffusione di idee infondate sulle conseguenze dell’aborto possa arrivare da un lato a mettere a repentaglio la stessa legge che lo permette; dall’altro, che gli effetti psicologici vengano invece sottovalutati portando a una carenza dei servizi assistenziali.



Uno dei temi su cui sicuramente va fatta particolare attenzione è la cosiddetta sindrome post-abortiva, sovrapponibile secondo il parere di alcuni medici a una grave forma di stress post-traumatico che si assocerebbe all’interruzione di gravidanza. Un male che porterebbe la paziente a ripiegarsi su se stessa e i propri sensi di colpa, a sentirsi un mostro, un’assassina, fino a forme anche molto gravi di isolamento e depressione. E questo, per i fautori, avverrebbe in maniera quasi inevitabile nella maggioranza dei casi: secondo alcune dichiarazioni, anche sopra il 62%. Ma esiste davvero? Di fatto, se pur si registrano casi di depressione in seguito all’interruzione di gravidanza (non va dimenticato che possono innescarsi meccanismi fisiologici e ormonali in tutto simili a quelli della depressione post-partum), non esistono studi indipendenti che ne certifichino l’incidenza. Non vi sarebbero perciò gli estremi per potersi riferire a una “sindrome”, né tantomeno per inserire questa forma di disagio tra gli “effetti collaterali” dell’aborto.

La dura verità, secondo molti studiosi, è che sarebbero addirittura i movimenti anti-abortisti ad aver coniato e diffuso l’idea del rischio della sindrome post-abortiva. Questo per dissuadere le donne a scegliere l’interruzione, così come i medici a praticarla, facendo leva sulla paura delle conseguenze e con l’obiettivo di innalzare il tasso (in Italia già altissimo) di obiettori di coscienza e negare infine il diritto all’aborto.

Se sul legame tra aborto e disturbi mentali vi è così tanta nebbia, è invece più intuitivo comprenderne i motivi. Innanzitutto, l’oggettivo condizionamento di molti studi dagli orientamenti etici, religiosi e ideologici degli stessi ricercatori. Non meno importante, la difficoltà nel costruire una statistica, dato il basso numero di casi presi in esame finora. Si tratta pur sempre di una pratica che si evolve parallelamente al contesto e per la quale i parametri di valutazione sono incessantemente in via di ridefinizione. Un ulteriore limite è poi la grossa difficoltà a stabilire quando un disturbo psicologico compare proprio a causa dell’interruzione di gravidanza o quando è invece frutto di altri eventi o contesti. Alcuni sintomi potrebbero comparire per esempio anche a molti mesi dall’aborto, diventando difficilmente riconducibili ad esso, così come alcuni disturbi potrebbero essere imputati erroneamente all’interruzione di gravidanza anche se suscitati da altri fattori.

“Piuttosto che parlare di effetti psicologici dell’interruzione volontaria di gravidanza” spiega Giovanni Fattorini, ginecologo della Società italiana studi di medicina della riproduzione “sarebbe forse più opportuno riferirsi a situazioni che presentano maggiori rischi, che dovrebbero perciò essere tenuti presenti, rispetto ad altre. In quest’ottica, - continua - potremmo pensare di identificare soggetti potenzialmente a rischio e le condizioni di rischio”. Tra i soggetti potenzialmente a rischio potrebbero essere inserite, per esempio, le pazienti molto giovani, così come quelle in età preclimaterica, ma anche le donne che hanno subito la morte di un figlio (o del feto durante una gravidanza), quelle che hanno vissuto un lutto recente e quelle che hanno già effettuato diverse altre interruzioni di gravidanza. Sulle condizioni invece, le più delicate si hanno quando la decisione di interrompere la gravidanza appare sin da subito molto sofferta, quando è dovuta a un rapporto conflittuale con il partner oppure a motivazioni legate alla situazione economica.

Andrebbe poi accantonato l’ideale che “scegliere la vita” liberi dal rischio di incorrere in disturbi. Anzi, può succedere che le donne costrette a portare a termine una gravidanza indesiderata si pentano della scelta, vengano emarginate, finiscano in povertà e siano vittime di un forte disagio psichico. In questo caso, oltre al condizionamento ideologico degli studi in atto, si rende necessario inserire nell’interpretazione degli studi anche le variabili sul contesto storico, sociale e culturale in cui la donna si trova.

Nella grande difficoltà a trovare risposte oggettive e condivise alla questione, quello che nell’immediato possiamo fare è cercare innanzitutto di garantire alle pazienti che ne necessitano, sia prima che dopo l’aborto, assistenza e aiuto a gestire e superare questo momento quando vissuto come doloroso. Ma a chi rivolgersi? “Ci sono i consultori familiari, istituiti per affrontare tutte le problematiche legate alla salute sessuale e riproduttiva delle famiglie, così come le conseguenze di queste scelte” spiega Fattorini. Ed è per questo che le équipe all’interno di queste strutture sono formate da ginecologi, ostetriche, ma anche psicologi. “Di certo - va avanti il medico - offrire un buon livello di counseling non è comunque semplice e la situazione non è di fatto omogenea”.

C’è da dire infatti che se da un lato i consultori offrono un sostegno gratuito e senza troppi rallentamenti burocratici, necessitano di un impegno costante che non sempre e non dappertutto viene garantito. Non solo dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto sotto quello culturale e sulla formazione e l’aggiornamento del personale. Un’urgenza estremamente attuale è quella legato al fenomeno dell’immigrazione, in seguito al quale molte donne, spesso extracomunitarie, si ritrovano a ricorrere all’aborto per ragioni soprattutto economiche. Si tratta di una situazione che fino a qualche anno fa era molto rara in Italia, ma che è divenuta oggi più diffusa e per questo bisognosa di consulenti che siano preparati nella gestione di questa fragile categoria e capaci di interfacciarsi con realtà culturali anche molto diverse da quella del nostro Paese.



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giovedì 1 ottobre 2015

CASTRAZIONE ED EVIRAZIONE



La castrazione è l'asportazione delle gonadi nell'essere umano o nell'animale. La procedura chirurgica di asportazione dei testicoli nel maschio viene detta orchiectomia.

L'orchiectomia viene attualmente eseguita esclusivamente per scopi terapeutici (asportazione di tumori) ma, sempre attraverso l'espressione di un consenso informato e con sentenza positiva del giudice (legge n. 164 del 1982), possono anche far parte del percorso di transizione degli individui con disturbi dell'identità di genere.

In sostituzione della procedura chirurgica, si può in alcuni casi ottenere un effetto equivalente alla castrazione utilizzando appositi farmaci che bloccano l'attività delle gonadi (castrazione chimica), o radiazioni.

L'asportazione delle gonadi comporta come prima conseguenza l'impossibilità di procreare, ma comporta anche una serie di cambiamenti fisici e psicologici, determinati dall'alterazione dell'equilibrio ormonale del soggetto sottoposto a castrazione (ipogonadismo con relative conseguenze).

Se un soggetto viene sottoposto a castrazione prima della pubertà, mantiene un aspetto infantile anche nell'età adulta in quanto non si verifica lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari. Non vi sarà ad esempio la muta vocale. L'apparato genitale conserva dimensioni ridotte, il soggetto non ha desiderio sessuale, la voce rimane acuta, la massa muscolare e la distribuzione di peli è scarsa, il tessuto adiposo si accumula maggiormente nelle sedi tipiche del sesso femminile (fianchi, cosce, mammelle), dando origine a un aspetto fisico definito eunucoide.

Se l'orchiectomia viene praticata dopo la pubertà, quindi dopo lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, le alterazioni fisiche saranno molto meno evidenti e l'attività sessuale può ancora verificarsi, anche se in presenza di una libido diminuita e di una incapacità a procreare.

Nei moderni stati di diritto la castrazione umana per scopi punitivi, coercitivi o eugenetici, è fermamente condannata. In passato, oltre che come forma di punizione corporale e di tortura, in alcune culture la castrazione umana veniva praticata al fine di originare eunuchi o castrati.

Nel sec. XVIII la castrazione era dovuta a motivi d'affari: con il diffondersi dei cori polifonici, si aveva un sempre maggiore bisogno di voci bianche. Dato che una bolla pontificia vietava l'inserimento delle donne, si preferiva castrare i fanciulli (di circa otto - dieci anni) per impedire la muta vocale e far sì, che in questo modo mantenessero la capacità di cantare con voce femminile. Asportando chirurgicamente i testicoli, la mancata produzione di testosterone faceva sì che la voce mantenesse quel timbro anche da adulti. Ogni anno circa 4.000 ragazzi europei venivano castrati, soprattutto in Italia. Il medico fiorentino Antonio Santarelli, specialista in castrazioni, era tra i chirurghi meglio pagati dell'epoca.

Il più celebre dei cantanti castrati è stato Carlo Broschi in arte Farinelli. Alessandro Moreschi invece fu l'ultimo evirato nella storia della musica: solista nel coro che si esibiva presso la Cappella Sistina in Vaticano, cantò anche al funerale del re Umberto I. Fu congedato per pensionamento nel 1913, dopo che nel 1902 ci fu l’estromissione formale dei castrati da parte della Chiesa.

La castrazione veniva praticata con una profonda incisione all'inguine, dalla quale erano estratti il cordone e i testicoli. I cordoni venivano strettamente legati prima del taglio e, talvolta, cauterizzati, per evitare mortali emorragie dalle arterie spermatiche. A operare venivano chiamati, soprattutto, i norcini (macellai specializzati nella lavorazione del maiale) e i barbieri. All'epoca non esisteva anestesia; al più si stordiva il ragazzo con del laudano (tintura di oppio - Paracelso). La mancanza di asepsi provocava infezioni, anche di tetano, che si credeva derivassero dalle sofferenze.

In passato sui maschi umani venivano praticati due tipi di castrazione: bianca (asportazione dei testicoli) e nera (rimozione delle gonadi e del pene per dare origine a eunuchi, parzialmente o completamente incapaci di attività sessuale, utilizzati come guardiani degli harem). Nel medioevo islamico gli eunuchi erano ricercati anche per assegnar loro funzioni amministrative e incarichi politici e militari, scongiurando in tal modo forme di nepotismo.



Nel mondo islamico la castrazione è stata praticata fino all'età contemporanea al fine di reclutare gli inservienti della Ka'ba di Mecca, d'origine africana. Le famiglie povere erano onorate di cedere i loro figli per questo incarico altamente onorifico, che comportava oltre tutto per gli interessati un trattamento di particolare riguardo anche sotto il profilo economico.
L'operazione di castrazione veniva attuata a tal fine in età prepuberale.

Un certo numero di culti religiosi ha incluso la castrazione tra le loro pratiche principali. Tra loro:

il culto di Cibele, i cui devoti si auto-castravano in emulazione estatica di Attis;
alcuni cristiani di epoca antica la consideravano strumento accettabile per contrastare i desideri peccaminosi della carne (Origene ne parla in un passo dubbio);
gli Skoptsy, setta russa di fine Settecento.

Sin dalla sua apparizione, la pratica della castrazione fisica è collegata ai riti sacrificali per la fecondità della terra. L’evirazione è un sacrificio che consente il perpetuarsi delle stagioni. La venerazione della Grande Madre, divinità femminile che simboleggia il ciclo della natura e la mediazione tra l’umano e il divino, ha assunto numerose forme e significati: la Dea Madre degli Ittiti, il culto di Cibele a Roma, Astarte a Cartagine, la dea babilonese Ishtar, Osiride nell’antico Egitto e si ritrova ancora oggi nelle processioni durante le feste padronali nell’Italia meridionale, dove viene portata in spalla la statua della Madonna.
Le prime testimonianze storiche sugli eunuchi provengono dalla Cina e risalgono al III millennio a. C., datazione di alcune sculture antropomorfe ritrovate nella provincia di Anhui. Molti sono gli storici che riportano le vicende di alcuni eunuchi famosi, tra questi Erodoto narra la storia di Erotimo, potente eunuco della corte del re persiano Serse, che si vendicò sul mercante Panonio che l’aveva fatto evirare, costringendolo a castrare i suoi quattro figli che poi mutilarono lui.Il divieto islamico di castrare gli schiavi veniva aggirato comprando schiavi erano stati castrati al di fuori del regno, che giungevano dall’impero bizantino, oppure dai monasteri copti in Egitto. Il commercio dei castrati, a cui partecipavano musulmani, ebrei e cristiani divenne molto redditizio e portò ad una grande diffusione di queste figure che presso le corti divennero consiglieri, generali, amministratori e reggenti.
Spesso la castrazione portava alla morte di coloro che per volontà o costretti da altri venivano privati delle parti genitali. Qualora non morissero durante o a seguito della mutilazione, i castrati presentavano alcune caratteristiche fisiche quali gigantismo, assenza del pomo d’Adamo, assenza di masse muscolari, mancata discesa della laringe e tendenza all’obesità in età adulta. Un’altra conseguenza era la mancanza di pelosità, era infatti diffuso nell’area mediorientale portare i baffi come segno distintivo rispetto agli eunuchi. I modi di castrazione differivano in base al luogo. In Cina ad esempio le tecniche di castrazione erano molto avanzate, e mentre nei monasteri copti in cui si eviravano gli schiavi neri durante l’età moderna la percentuale dei ragazzi che morivano era superiore al 60%, per la stessa operazione in Cina decedeva solo il 2% – 3% di coloro che la subivano. Le modalità della castrazione sono raccontate nel resoconto dell’ultimo castrato dell’imperatore cinese, Sun Yoating morto nel 1996, all’età di 94 anni. Egli scrive che per circa un anno un eunuco anziano insegnava al ragazzo di età compresa fra gli 8 e 12 anni i costumi e le usanze delle famiglie nobili, massaggiandogli ogni sera il pene. Quando arrivava il momento dell’operazione, il ragazzo veniva steso su un giaciglio e legato per essere castrato con un coltello scaldato al fuoco. Dopo l’evirazione veniva inserita una piuma d’oca nell’uretra e tamponata la ferita. 



L’operazione era riuscita se il bambino orinava nel giro di un paio di giorni, in caso contrario sarebbe morto. Invece il metodo utilizzato nei centri della penisola italiana nei secoli XVII e XVIII consisteva nella somministrazione di oppio al bambino che veniva immerso in seguito in un bagno caldissimo. Quando entrava in uno stato di torpore gli venivano recisi i condotti che portavano ai testicoli, che in breve tempo si raggrinzivano e scomparivano. Fu questa la sorte toccata al più famoso cantante castrato di tutti i tempi: Carlo Broschi, in arte Farinelli.
Ma l’evirazione non è una pratica estinta, legata ai passati splendori delle corti cinese e ottomana e alla grandezza del papato. Oggigiorno esistono varie forme di evirazione che mantengono un legame con il rituali sacri. E’ l’esempio degli Hijras indiani, uomini che compiono l’operazione chiamata nirvan (escissione dei genitali) , ai quali è attribuito il dono di conferire fertilità e che spesso si prostituiscono per le strade delle maggiori città indiane. La loro vita ai margini somiglia a quella dei giovani transessuali iraniani, costretti a subire l’operazione di asportazione dei genitali per via della pressione sociale. Essere omosessuale in Iran è un reato per cui si rischia la prigione, ma non cambiare sesso. Fu lo stesso Khomeini che promulgò una fatwa che permetteva di subire l’operazione di mutilazione genitale. Molti dei giovani omosessuali iraniani si operano per avere più diritti, ma spesso vengono allontanati dalle famiglie e vivono ai margini della società.



Il fenomeno della castrazione costituisce così una trama comune che comprende non solo i Paesi del bacino del Mediterraneo ma è diffusa anche nell’Oriente più lontano, in una continuità che non è solo temporale. L’eunuco viene dimenticato e marginalizzato dalla storiografia tradizionale e descritto come personaggio esotico e lontano nei romanzi del Settecento e dell’Ottocento, figura che ritorna in chiave ironica nella commedia napoletana. Ma se approfondito e sviscerato nei suoi contenuti si presenta come qualcosa di non compiuto e finito. Non è il trittico delle “Tentazioni di Sant’Antonio” dipinte da Bosch nel quale si allude alla castrazione, collegata alla sodomia e ai culti misterici. Potrebbe essere invece la tavolozza usata dal pittore per comporre il colore nelle sue sfumature infinite, in cui rimangono delle croste di pittura anche dopo che viene ripulita. Occuparsi degli eunuchi della corte ottomana o dei castrati italiani del XVIII secolo ci permette di sollevare un po’ di polvere dalle rovine della storia e risvegliare gli interrogativi del presente attraverso le vestigia del passato, che rimangono anch’esse in parte avvolte nell’enigma.
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