domenica 27 settembre 2015

IL DOPING



Il doping consiste in sintesi nell'assunzione (o abuso) di sostanze o medicinali proibiti con lo scopo di aumentare artificialmente il rendimento fisico e le prestazioni dell'atleta, soprattutto nelle competizioni. Il ricorso al doping avviene in vista o in occasione di una competizione agonistica ed è un'infrazione sia all'etica dello sport, sia a quella della scienza medica.

Sono due le possibili origini della parola “doping”. Una di queste è “dop”, bevanda alcolica usata come stimolante nelle danze cerimoniali del sud Africa. Un'altra è che il termine derivi dalla parola olandese “doops” (una salsa densa) che entrò nello slang americano per descrivere come i rapinatori drogassero le proprie vittime mescolando tabacco e semi del Datura stramonium, conosciuto come stramonio, che contiene una quantità di alcaloidi, causando sedazione, allucinazioni e smarrimento. Fino al 1889, la parola “dope” era usata relativamente alla preparazione di un prodotto viscoso e denso di oppio da fumare, e durante gli anni novanta si estese a qualsiasi droga narcotica-stupefacente. Nel 1890, “dope” veniva anche riferito alla preparazione di droghe designate a migliorare la prestazione delle corse dei cavalli.

I paesi dell'Europa dell'est (DDR in primis), hanno recitato il ruolo di precursori in questo campo, applicando il doping in maniera sistematica nel periodo che va dagli anni cinquanta agli anni ottanta soprattutto sugli atleti che partecipavano alle Olimpiadi. Poco si sapeva degli effetti collaterali dati dalle sostanze somministrate agli atleti, mentre evidenti erano i miglioramenti in termini di struttura fisica e risultati agonistici, specialmente per le atlete donne che venivano "trattate" con ormoni maschili. Ciò ha portato a gravi danni fisici e psicologici per molti atleti e c'è anche chi addirittura come la pesista Heidi Krieger è stata costretta, visti gli ormai enormi cambiamenti nel fisico, a diventare uomo.

Nonostante i controlli, l'uso di sostanze e terapie dopanti è diffuso non solo nello sport professionistico, ma anche in quello dilettantistico e perfino amatoriale. Attorno al fenomeno del doping c'è un giro d'affari che in Italia è stimato in circa 600 milioni di Euro.

Il C.I.O (Comitato Olimpico Internazionale) ha stilato un elenco di farmaci "proibiti",che viene tenuto costantemente aggiornato, i regolamenti sportivi vietano il doping, specificando strettamente le tipologie e le dosi dei farmaci consentiti, e mettono per iscritto l'obbligo per gli atleti di sottoporsi ai controlli antidoping, che si effettuano mediante l'analisi delle urine e in alcuni casi anche del sangue (controlli incrociati). Gli atleti che risultano positivi alle analisi (negli ultimi anni si preferisce l'espressione non negativi) vengono squalificati per un periodo più o meno lungo; nei casi di recidiva si può arrivare alla squalifica a vita. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha un istituto con un'apposita agenzia, la WADA, che si occupa della lotta al doping. Negli ultimi anni in Italia e altri paesi il doping è diventato un reato, sotto la fattispecie della frode sportiva.

È del 14 dicembre 2000 la legge n. 376 "Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping" che consente un'individuazione più precisa del fenomeno doping e permette di colpire più efficacemente una pratica che in precedenza era sanzionabile solo sul piano sportivo. È punibile sia l'atleta che fa uso di sostanze dopanti, sia il medico che le prescrive o somministra, sia chi fa commercio dei farmaci vietati.

Il 23 ottobre 2007 viene approvata l'introduzione del passaporto biologico, un documento che registra il profilo personale (valori del sangue e delle urine) di ciascun ciclista.

Il decreto del 12 marzo 2009 ha approvato una lista delle sostanze considerate dopanti, suddivisa in cinque sezioni.

È in corso un dibattito sul significato della parola doping e sulle conseguenze che esso comporta: non tutti infatti concordano con la negatività del doping nella pratica sportiva. Vi è infatti chi sostiene che sarebbe più logico liberalizzare il doping in quanto troppo diffuso nella maggior parte degli sport agonistici e quindi fattore discriminante tra chi ne fa uso e può quindi vincere le gare e chi non ne fa uso relegato troppo spesso al ruolo di comprimario. Vi è infine un appunto riguardante la relatività del doping. Quelle sostanze che oggi non sono considerate dopanti in un futuro non molto lontano potrebbero essere considerate tali. Ciò creerebbe, secondo alcuni, diversità di trattamento tra gli atleti, di oggi e di domani. Spesso le sostanze vengono somministrate dagli allenatori stessi agli atleti che, inconsapevoli del danno che il doping provoca, accettano.



Il doping non è un fenomeno recente, fin dall'antichità si è fatto ricorso a sostanze e pratiche per cercare di migliorare una prestazione sportiva; già nelle Olimpiadi del 668 AC viene riportato l'uso di sostanze eccitanti (quali funghi allucinogeni). Galeno (130-200 DC) descrive nei suoi scritti le sostanze che gli atleti romani assumevano per migliorare la loro prestazione. Se nelle civiltà antiche si faceva ricorso a funghi, piante e bevande stimolanti, con lo sviluppo della farmacologia e dell'industria farmaceutica si assiste nel XIX secolo ad una diffusione di sostanze quali alcool, stricnina, caffeina, oppio, nitroglicerina e trimetil (sostanza alla quale si deve la prima morte conosciuta per doping, quella del ciclista Linton nel 1886).
I regolamenti sportivi vietano il doping, regolamentando strettamente le tipologie e le dosi dei farmaci consentiti, e prescrivono l'obbligo per gli atleti di sottoporsi ai controlli antidoping, che si effettuano mediante l'analisi delle urine e in taluni casi anche del sangue. Gli atleti che risultano positivi alle analisi vengono squalificati per un periodo più o meno lungo; nei casi di recidiva si può arrivare alla squalifica a vita.
Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e le federazioni sportive nazionali collaborarono nel 1998 per fondare l'Agenzia Mondiale Anti-Doping, un organismo che congiunto al CIO finanzia e collabora con le nazioni impegnate a sviluppare dei programmi per il rilevamento e il controllo del doping atletico. L'Agenzia Mondiale Anti-Doping svolge i suoi compiti compilando e aggiornando costantemente un elenco delle sostanze e dei metodi che sono incompatibili con gli ideali dello sport e che dovrebbero essere vietati nella competizione atletica. E' anche responsabile dello sviluppo e della convalida di nuovi, e scientificamente validi, test di individuazione, nonché dell'attuazione di programmi internazionali efficaci, nelle competizioni ufficiali e non ufficiali, per lo screening degli atleti. In aggiunta a questo sforzo internazionale, un certo numero di paesi, inclusi gli Stati Uniti, hanno formato agenzie nazionali anti-doping, organizzate in modo simile alla WADA, con il compito di monitorare e controllare il doping sportivo a livello nazionale; le stesse agenzie istituiscono programmi di ricerca per sviluppare test ancora più efficaci per individuare le sostanze e le metodiche proibite. Nelle agenzie degli Stati Uniti, questo sforzo nazionale per l'anti-doping è coordinato dall'Agenzia Anti-Doping degli Stati Uniti. La WADA ha attuato il suo programma sul controllo delle droghe nello sport mediante l'emissione e il continuo aggiornamento del Codice Mondiale Anti-doping, che comprende un elenco delle sostanze e dei metodi vietati.
E' noto come il rendimento sportivo possa essere implementato dall'utilizzo di alcuni farmaci, ad esempio gli ormoni steroidei e i composti stimolanti il sistema nervoso centrale (amfetamine, cocaina, efedrina, metilefedrina), così come dall'alterazione dei parametri ematochimici normali. Gli ormoni steroidei provocano infatti una ipertrofia muscolare con riduzione delle masse adipose, aumento della forza e della capacità di recupero dallo sforzo, mentre le anfetamine e gli altri stimolanti del sistema nervoso centrale migliorano la prontezza di riflessi e la concentrazione. L'alterazione dei parametri ematochimici, in particolare l'aumento dell'ematocrito (la percentuale di elementi corpuscolati presente nel sangue: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) ha come risultato l'aumento dell'apporto di ossigeno ai tessuti, quindi una maggiore resistenza allo sforzo. Tuttavia accanto agli effetti positivi sono ben noti effetti negativi di ciascuna di queste situazioni, in particolare l'assunzione di ormoni steroidei risulta nella perdita delle proprietà meccaniche ed elastiche del connettivo (tendini) con facilità di rottura, nell' aumento della facilità alla formazione di trombi, dunque del rischio di infarto, di complicazioni cardiovascolari. Le anfetamine, invece, possono provocare ipertensione, aritmie cardiache, crisi convulsive, vomito, dolore addominale, emorragie cerebrali, psicosi, dipendenza e morte; mascherando la fatica fisica possono indurre a sforzi eccessivi con conseguenti danni ai tendini, muscoli ed articolazioni.



La cocaina agisce inibendo il reuptake della dopamina a livello delle sinapsi; come effetti collaterali può causare aritmie cardiache, infarto del miocardio, ipertensione o ipotensione, ansia, depressione, attacchi di panico, aggressività, irritabilità, psicosi tossiche, tremori, convulsioni, alterazione dei riflessi, mancata coordinazione motoria, paralisi muscolare, respirazione irregolare, dipendenza e morte.
Le modificazioni dell'ematocrito, in particolare l'aumento dello stesso, possono esitare nella formazione di trombi intravascolari, con necrosi tessutale massiva ed embolia. Per gli sport di durata negli anni Settanta era stata introdotta, nello sci di fondo e nel ciclismo, l'autoemotrasfusione. Obiettivo di tale metodica era proprio l'aumento della massa eritrocitaria, quindi del trasporto di ossigeno verso i muscoli. Questo razionale era alla base della prima forma di doping di tipo biotecnologico. Qualche anno più tardi,l'ormone stimolante la produzione di globuli rossi, l'eritropoietina (EPO), fu isolato dall'urina umana e successivamente ne venne determinata la composizione aminoacidica, quindi identificato il gene, clonato e transfettato in cellule ovariche di cavia. Nel 1985 l'eritropoietina umana ricombinante entrava in commercio. Si apriva una nuova era per la cura delle malattie del sangue da carenza di eritrociti. Allo stesso tempo, però, la somministrazione di EPO, che mima gli effetti di un intenso allenamento in quota, diventava in breve una pratica generalizzata nella corsa e nello sci di fondo, ma soprattutto nel ciclismo, disciplina che ha infine consegnato la sostanza al clamore della cronaca nei Tour de France corsi nel 1998 e nel '99.
Nella seconda metà degli anni '80, un'altra sostanza endocrina conquistava il gigantesco mercato dello sport: l'ormone della crescita (GH). La diffusione dell'uso del GH si è accompagnata ad un notevole incremento di farmaci e supplementi alimentari che stimolano la produzione ed il rilascio dello stesso, come certi aminoacidi, i beta-bloccanti, la clonidina (un farmaco antipsicotico di ultima generazione), la levodopa e la vasopressina. Il GH era considerato un valido sostituto e coadiuvante degli steroidi anabolizzanti, in quanto anch'esso stimola l'aumento della massa corporea e possiede azione anabolizzante; in aggiunta, il GH aumenta la mobilizzazione dei lipidi dai tessuti adiposi e ne accresce l'ossidazione come fonte di energia, risparmiando il glicogeno muscolare. Sebbene diversi studi abbiano smentito i presunti effetti ergogenici del GH sugli atleti, quest'ormone divenne ben presto un elemento essenziale nella preparazione di molti atleti di punta, soprattutto per il fatto che non esisteva un test in grado di rilevarne l'assunzione (dai giochi olimpici di Atene del 2004 è stato introdotto un test in grado di rilevarlo tramite l'analisi di un campione di sangue).
L'ormone della crescita veniva estratto dall'ipofisi dei cadaveri; per questo, fra i soggetti trattati vi furono casi di malattia di Creutzfeldt-Jakob (una delle forme umane di encefalopatia causata dai prioni) pertanto il GH umano venne ritirato dal mercato nel 1985. L'anno successivo le ricerche biotecnologiche portavano alla produzione del GH umano ricombinante, il cui uso nello sport non è esploso come gli steroidi a causa degli alti costi e della difficoltà di acquistarlo allo stato puro.
Più recentemente, un altro prodotto della ricerca biotecnologica con potenti effetti anabolizzanti ha iniziato la conquista del mercato del doping: l'IGF-1 (insulin-like Growth Factor). L'IGF-1 è un peptide analogo alla proinsulina usato nella terapia di alcune forme di nanismo e nella cura del diabete resistente all'insulina.
Una delle maggiori sfide per i laboratori antidoping è proprio quella di riconoscere gli effetti dell'utilizzo di questi peptidi ricombinanti con test antidoping specifici.
A complicare lo scenario si sono aggiunti i recenti progressi nel campo della terapia genica, ad esempio l'evidenza di un aumento della performance muscolare in modelli animali dopo modificazioni geniche.
Il timore che la manipolazione genetica e le tecniche di terapia genica vengano applicate per cercare di migliorare la performance sportiva, ha portato la WADA ad inserire il doping genetico nella lista dei metodi proibiti. Per doping genetico si intende "l'uso non terapeutico di cellule, geni, elementi genici o della modulazione dell'espressione genica, che possa aumentare la performance sportiva".







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LA SCHIZOFRENIA



La schizofrenia è una malattia psichiatrica caratterizzata da sintomi psicotici e, secondo le convenzioni scientifiche, dalla persistenza di sintomi di alterazione del pensiero, del comportamento e dell'affettività, da un decorso superiore ai sei mesi (tendenzialmente cronica o recidivante), con forte disadattamento della persona ovvero una gravità tale da limitare le normali attività di vita della persona.

Una nuova scoperta sulle possibili cause della schizofrenia apre la strada allo sviluppo di farmaci più efficaci nell’alleviare i sintomi di una malattia dal devastante impatto sulla persona, sui suoi familiari e sulla società. La notizia - che arriva dai ricercatori del Ceinge, il Centro di ricerca di ingegneria genetica di Napoli, già noto per le recenti scoperte sul virus di Ebola e sul tumore polmonare - appare come un importante opportunità verso il miglioramento della terapia farmacologica per la cura di una delle patologie psichiatriche di maggiore diffusione e gravità. Il disturbo psichiatrico, infatti, colpisce circa una persona ogni 100 in tutto il mondo e solo in Italia fa registrare circa cinquecentomila pazienti; inoltre l’Organizzazione mondiale della sanità la classifica al settimo posto tra le patologie debilitanti, senza contare che i costi diretti della schizofrenia nei paesi occidentali vanno dal 1,6% al 2,6% della spesa sanitaria totale.
 
La ricerca made in Naples, che ha coinvolto alcuni dei più illustri medici e biologi italiani, ha messo in rete il Centro di ricerca in Neuroscienze e Sistemi cognitivi di Rovereto, l’università di Bari e le facoltà di Medicina dell’università “Federico II” e della Seconda Università di Napoli. Il risultato è stato la scoperta un “complesso percorso molecolare” con probabile origine fin dalle fasi embrionali dello sviluppo del cervello, che potrebbe essere implicato nella manifestazione di alterazioni comportamentali riconducibili alla schizofrenia. Lo studio condotto dal team di ricerca guidato dal biologo romano Alessandro Usiello, docente di Biochimica clinica e direttore del laboratorio di Neurobiologia del Ceinge, e dal biologo napoletano Francesco Errico, ha evidenziato la possibile rilevanza di un aminoacido, il “D-aspartato”, nel modulare alcuni processi biochimici capaci di influenzare il “comportamento” dei neuroni coinvolti nella schizofrenia.
Uno studio la cui validità è ribadita dai finanziamenti che l’hanno reso possibile, giunti dalgli Stati Uniti d’America (Narsad), dai ministeri italiani della Salute e dell’Università e Ricerca, oltre alla sua recente pubblicazione sulla rivista scientifica “Translational Psychiatry”, del prestigioso gruppo editoriale di “Nature” (Nature Publishing Group). “La nostra ricerca - spiega Alessandro Usiello - ha mostrato un ruolo protettivo del D-aspartato nel modulare i circuiti cerebrali della schizofrenia, un ruolo incentrato sulla capacità di questo D-aminoacido di potenziare l’attività di una particolare classe di antenne molecolari, i recettori Nmda che risultano essere ipofunzionali nei pazienti affetti da schizofrenia già a partire dalle prime fasi dello sviluppo embrionale, contribuendo a determinare le alterazioni patofisiologiche responsabili dell’insorgenza dei sintomi psicotici”. Grazie agli studi funzionali di Alessandro Gozzi, dell’Istituto italiano di Tecnologia presso il Centro di Ricerca in Neuroscienze e sistemi cognitivi di Rovereto, è stato provato che alti livelli dell’Aminoacido fin dalle fasi giovanili sono in grado di attenuare le alterazioni cerebrali indotte da sostanze psicotrope come la fenciclidina, nota anche come “polvere d’angelo”.  
Si tratta di risultati considerati molto importanti, suffragati anche da un recentissimo studio di sequenziamento genomico e di risonanza magnetica funzionale condotto all’interno dell’Irccs nell’ospedale “Casa sollievo della sofferenza” di San Giovanni Rotondo, dal gruppo di ricerca di Alessandro Bertolino - docente di Psichiatria dell’ateneo barese, insignito nel 2013 (con Usiello) del premio americano “NARSAD Indipendent Investigator” - che ha identificato come una variante nel gene della D-aspartato ossidasi che predice un aumento dei livelli di D-aspartato nel cervello sia associata a un aumento in soggetti sani della materia grigia corticale e a un miglioramento della memoria a breve termine, due parametri funzionali fortemente compromessi nei pazienti schizofrenici.

 
Inoltre, la ricerca del Ceinge, avvalendosi delle competenze di Lorenzo Chiariotti, docente di patologia generale dell’Università Federico II di Napoli, e del noto biochimico Franco Salvatore, fondatore e presidente proprio del Ceinge, ha anche dimostrato l’esistenza di alterazioni nei livelli dell’Rna sotteso alla biosintesi dell’enzima che degrada il D-aspartato nel cervello post-mortem di soggetti affetti da schizofrenia (Brain Bank London). L’aumento dei livelli di questo enzima (la D-aspartato ossidasi) secondo gli scienziati rappresenta la possibile causa della riduzione dei livelli di D-aspartato nel cervello degli stessi pazienti schizofrenici. “Si tratta di una serie di nuove scoperte potenzialmente di grande importanza per la terapia farmacologica spiega Francesco Errico - perché a distanza di più di sessant’anni dall’introduzione in terapia del primo farmaco antipsicotico e nonostante nel tempo numerosi nuovi composti siano stati utilizzati nel trattamento di questa patologia, persiste ancora una sostanziale mancanza di farmaci innovativi in particolare per alcuni dei sintomi più gravi della schizofrenia come l’appiattimento affettivo, l’apatia e i deficit cognitivi e l’esigenza di nuovi approcci farmacologici è tanto più rilevante se si pensa che circa il 30% dei pazienti non risponde ai comuni trattamenti”.

La schizofrenia è una malattia cronica, invalidante, che colpisce il cervello. L'individuo affetto da schizofrenia può sentire voci che gli altri non sentono, è convinto che gli altri siano in grado di leggere i suoi pensieri o che addirittura complottino di fargli del male; questo può spaventare in maniera pesante il soggetto e può renderlo particolarmente agitato. L'individuo schizofrenico può fare discorsi senza senso, può stare seduto per ore senza muoversi né parlare e altro ancora. Generalmente molte tra le persone affette da schizofrenia fanno fatica a trovare un lavoro e a prendersi cura di loro stesse, tanto da dover dipendere dagli altri.
Schizofrenia deriva dal greco e significa mente separata, intendendo una separazione dalla realtà. Infatti la malattia interferisce con la capacità dell'individuo di riconoscere la realtà e di gestire le proprie emozioni. Non solo, questa malattia purtroppo influenza anche alcune delle funzioni più evolute dell'essere umano, come ad esempio la percezione, la memoria, l'attenzione, l'apprendimento e le emozioni.

La schizofrenia viene generalmente suddivisa in tre gruppi di sintomi, distinti in positivi, negativi e cognitivi.

I sintomi positivi sono tipicamente rappresentati da comportamento psicotico non evidente in individui sani. Generalmente, gli individui che presentano i sintomi positivi della schizofrenia perdono il contatto con la realtà. Sono sintomi che vanno e vengono e che in alcuni momenti si manifestano in maniera più severa di altri, a seconda che l'individuo in cui si manifestano stia ricevendo un trattamento terapeutico o meno.
Tra i sintomi positivi vi sono le allucinazioni, in cui le "voci" rappresentano il più comune sintomo positivo. Altri sintomi positivi sono:
manie derivanti da false credenze. Ad esempio, chi è colpito da schizofrenia può pensare che le persone siano in grado di controllare il suo pensiero e il suo comportamento attraverso le onde magnetiche. A volte, gli individui schizofrenici pensano di essere qualcun altro, come ad esempio un'importante personaggio storico. Altre volte sono colpiti da vere e proprie "manie di persecuzione";
disturbi del pensiero: sono modi di pensare non usuali. Questi sono caratterizzati dall'incapacità dell'individuo affetto da schizofrenia di organizzare in maniera logica e sensata i propri pensieri. Un'altra forma di disturbo del pensiero è ad esempio il blocco del pensiero stesso; questo si manifesta quando, ad esempio, una persona improvvisamente interrompe la parlata nel mezzo del pensiero;
disordini del movimento: possono manifestarsi come movimenti agitati del corpo che possono ripetersi molte volte. In casi estremi, l'individuo può diventare catatonico. Ad oggi, lo stato catatonico sopraggiunge raramente, soprattutto quando il trattamento non è disponibile.
I sintomi negativi sono associati al disturbo delle normali emozioni e del comportamento. Questi sintomi sono più difficili da riconoscere come parte della malattia e possono essere scambiati per depressione o altri sintomi patologici. Tra i sintomi negativi si ritrovano:
parlare monotono senza muovere la faccia;
mancanza di piacere nella vita di ogni giorno;
incapacità di intraprendere o sostenere attività pianificate;
parlare poco e solo se obbligati ad interagire.
Gli individui con sintomi negativi necessitano di aiuto per attività giornaliere come l'igiene personale.



Infine, l'ultima classe di sintomi è rappresentata dai sintomi cognitivi. Essi sono sintomi subdoli, difficili da riconoscere come tipici della schizofrenia, similmente a quanto visto per i sintomi negativi.
Tra i sintomi cognitivi si ritrovano:
ridotte funzioni esecutive (capacità di comprendere informazioni e usarle per prendere decisioni);
difficoltà a stare attenti e a concentrarsi;
problemi relativi alla memoria di lavoro (capacità di utilizzare le informazioni subito dopo il loro apprendimento)
I sintomi cognitivi spesso rendono difficile condurre una vita normale e possono causare grave stress emotivo.

Sebbene i sintomi positivi siano generalmente la caratteristica clinica più evidente della schizofrenia, attualmente gli studi rivolgono molta attenzione ai sintomi cognitivi, per diversi motivi. Tra questi vi è il fatto che i deficits cognitivi si manifestano con un'elevata presenza, sono relativamente stabili nel tempo e sono indipendenti dai sintomi psicotici. Anche per la ricerca i sintomi cognitivi sono molto importanti, proprio perché la loro caratteristica è quella di permanere per tutta la vita degli individui colpiti. Inoltre, anche i parenti degli individui colpiti da schizofrenia, mostrano simili, anche se lievi, deficits cognitivi.
E' stato dimostrato che i sintomi cognitivi rappresentano il miglior indicatore di risultati funzionali a lungo termine.

La schizofrenia è una delle patologie psichiatriche maggiormente diffuse. E' una malattia subdola, perché la maggior parte degli individui colpiti da schizofrenia non mostra i sintomi fino alla tarda adolescenza o alla gioventù. L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che le persone affette da questa malattia sono circa 24 milioni nel mondo. E' una patologia che colpisce indistintamente uomini e donne di tutti i ceti sociali, anche se è stato dimostrato che gli uomini presentano un rischio maggiore.
Per quanto riguarda l'Italia, è stato stimato che sono circa 245 mila le persone affette da schizofrenia.
Può risultare molto difficile diagnosticare la malattia negli adolescenti, questo perché i primi sintomi possono comprendere un cambiamento delle amicizie, problemi nel dormire, irritabilità, un comportamento tipico anche degli adolescenti sani. Una combinazione di fattori può far presagire che si tratti di schizofrenia in circa l'80% dei giovani che sono ad alto rischio di sviluppare tale patologia. Tra questi fattori vi sono l'isolamento sociale, l'aumento di pensieri strani, insoliti e sospettosi ed una storia familiare di psicosi alle spalle.

Attualmente, diverse sono le ipotesi relative allo sviluppo della malattia. Si parla infatti di una eziopatogenesi cosiddetta multifattoriale, dove diversi sono i fattori che contribuiscono a creare un terreno favorevole per lo sviluppo della schizofrenia. Tra questi fattori si ritrovano l'ereditarietà, eventi avvenuti durante il periodo della gestazione, stress ambientale (ad esempio l'esposizione ad agenti tossici o sostanze inquinanti), stress psicologico ed altro ancora. Secondo alcuni ricercatori, vi è un'alterazione dei processi di sviluppo neurologico che si completano durante il periodo dell'adolescenza.
Inoltre è stato anche osservato che parti difficili aumentano di due o tre volte il rischio di sviluppare la malattia. Si pensa che questo possa essere dovuto al fatto che il cervello subisce un danno durante il suo sviluppo. Ad esempio, l'ipossia perinatale sembra essere un fattore importante.
Un altro fattore che può aumentare il rischio di sviluppare la malattia, sembra essere dato dagli agenti infettivi. Se durante il primo trimestre di gestazione si contrae ad esempio il virus influenzale, il rischio di schizofrenia aumenta di circa sette volte. Anche se gli studi sembrano essere più concordi nel dire che potrebbe essere la risposta anticorpale, piuttosto che l'infezione, a causare i danni al cervello.
Non è da escludere, tra le cause possibili, il corredo genetico. Alcuni studi hanno evidenziato che la probabilità di sviluppare la malattia è dieci volte maggiore tra i parenti che tra la popolazione generale. Nonostante tutto, la schizofrenia non segue la classica regola mendeliana del singolo gene. Sembra infatti che vi siano più geni coinvolti, ognuno dei quali esercita un piccolo effetto che agisce insieme con i fattori epigenetici ed ambientali. Almeno sette sembrano essere i geni coinvolti nella schizofrenia.


La storia della schizofrenia è complessa e non si presta facilmente a una narrazione lineare. Descrizioni di sindromi simili alla schizofrenia raramente compaiono nei documenti storici antecedenti al XIX secolo, anche se racconti di comportamenti irrazionali, incomprensibili o non controllati sono comuni. I primi casi di schizofrenia riportati dalla letteratura medica risalgono al 1797, grazie alle opere di James Tilly Matthews e alle pubblicazioni effettuate da Philippe Pinel nel 1809.

Demenza precoce è stato il termine utilizzato nel 1891 da Arnold Pick per classificare un caso di un disturbo psicotico. Nel 1893 Emil Kraepelin introdusse una distinzione nella classificazione dei disturbi mentali tra demenza precoce e disturbi dell'umore (che comprendevano la depressione unipolare e quella bipolare). Kraepelin credeva che la demenza precoce fosse principalmente una malattia del cervello e in particolare una forma che si distingue dalle altre, come la malattia di Alzheimer, che si manifestano in genere in età più avanzate. C'è chi sostiene che l'uso del termine, nel 1852, di démence précoce da parte del medico francese Bénédict Morel costituisca la scoperta medica della schizofrenia. Tuttavia questa considerazione non tiene conto del fatto che vi sono pochi dati che collegano l'uso descrittivo del termine da parte di Morel e lo sviluppo autonomo del concetto della malattia denominata demenza precoce, che si è avuto alla fine del XIX secolo.

Il termine "schizofrenia" si traduce approssimativamente come "scissione della mente" e deriva dalle parole in lingua greca schizein  e phren. Il termine è stato coniato da Eugen Bleuler nel 1908 e aveva lo scopo di descrivere la separazione tra la personalità, il pensiero, la memoria e la percezione. Bleuler descrisse i principali sintomi come le 4 A: appiattimento dell'Affetto, Autismo, Associazione ridotta di idee e Ambivalenza. Bleuler si rese conto che la malattia non era una demenza, per via del fatto che alcuni dei suoi pazienti tendevano a migliorare e non a peggiorare, e quindi propose il termine schizofrenia. Il trattamento è stato rivoluzionato a metà degli anni cinquanta con lo sviluppo e l'introduzione della clorpromazina.

Nei primi anni settanta, i criteri diagnostici per la schizofrenia sono stati oggetto di una serie di controversie che alla fine hanno portato a criteri operativi ancora utilizzati nel 2010. Il termine schizofrenia viene comunemente frainteso, portando a pensare che le persone colpite possano soffrire di una "doppia personalità". Nonostante che alcune persone con diagnosi di schizofrenia possano sentire voci e queste possano essere identificate come personalità distinte, la schizofrenia non implica distinte personalità multiple. La confusione nasce, in parte a causa dell'interpretazione letterale del termine coniato da Bleuler. Il disturbo dissociativo dell'identità era spesso mal diagnosticato come schizofrenia in base ai criteri riportati nel DSM-II.

Negli Stati Uniti, il costo della schizofrenia, tra cui i costi diretti (trattamento ambulatoriale, ospedaliero, farmaci e cure a lungo termine) e non sanitari (applicazione della legge, ridotta produttività sul posto di lavoro e disoccupazione), è stato stimato in 62,7 miliardi dollari nel 2002. Il libro A Beautiful Mind, da cui è stato tratto l'omonimo film, racconta la vita di John Forbes Nash, vincitore del Premio Nobel per l'economia a cui è stata diagnosticata la schizofrenia.

Gli individui affetti da gravi malattie mentali tra cui la schizofrenia hanno un rischio significativamente maggiore di essere vittime di reati sia violenti, sia non violenti. D'altra parte, la schizofrenia è stata a volte associata a un più alto tasso di atti di violenza, anche se questo è in primo luogo dovuto agli alti tassi di consumo di droga da parte degli affetti. I tassi di omicidi legati alla psicosi sono simili a quelli correlati all'abuso di sostanze. Il ruolo della schizofrenia sulla violenza, indipendentemente dall'abuso di stupefacenti, è controverso, tuttavia alcuni aspetti della storia individuale o dei propri stati mentali possono esserne causa.

La copertura mediatica relativa alla schizofrenia tende a focalizzarsi su rari e insoliti episodi di violenza. Inoltre, in un grande campione rappresentativo analizzato in uno studio del 1999, il 12,8% degli statunitensi crede che gli individui con schizofrenia "molto probabilmente" possano compiere atti violenti contro gli altri e il 48,1% ha dichiarato che ciò era "piuttosto probabile". Oltre il 74% ha dichiarato che le persone affette da schizofrenia erano o "poco capaci" o "non in grado del tutto" di prendere decisioni riguardanti il loro trattamento e il 70,2% ha detto lo stesso delle decisioni riguardo alla gestione del denaro. Secondo una meta-analisi, la percezione comune riguardo agli individui affetti di psicosi come persone violente, è più che raddoppiata a partire dagli anni cinquanta.

L'esistenza della condizione schizofrenica attribuibile a una parte dell'umanità era in un certo senso nota da secoli nella cultura occidentale. La condizione del soggetto di disadattamento e di incapacità di comunicare con altri individui si associa al nome tradizionale di follia e le persone colpite da tale grave disadattamento potevano essere chiamate "maniaci", "folli" o "indemoniati" e così via.

L'affermarsi di un'osservazione sistematica è stata concomitante allo sviluppo della psichiatria, sono seguiti tentativi di "curare" i "folli" con metodi ispirati a principi scientifici. Ciò avvenne nel corso dell'Ottocento in luoghi che in effetti erano solo strutture di contenimento o segregazione come sanatori, manicomi e carceri. La "spiegazione" della schizofrenia rimaneva un mistero e secondo molti lo è tuttora: i modelli descrittivi delle varie scuole di psicologia e della psicoanalisi come pure le indagini della neurologia non descrivono in tutti gli aspetti il funzionamento della mente e non danno una risposta definitiva.



Vi sono autori che hanno anche teorizzato che la malattia mentale sia necessariamente da considerare un mistero e che una risposta semplicemente non c'è: la posizione è esemplificata da Karl Jaspers, che sostiene che la condizione psicotica non ha nessun contenuto e non si deve cercare una spiegazione razionale all'interno del vissuto del malato. L'idea diametralmente contraria, formulata da Ronald Laing, è che la psicosi - cioè fenomeno in cui il comportamento e la comunicazione del paziente ci appaiono totalmente illogici - sia in realtà un'esperienza umana perfettamente comprensibile al pari di tutte le altre, che può essere immaginata empaticamente da chi volesse porsi nel punto di vista adatto.

L'abuso di anfetamine è stato associato allo sviluppo della schizofrenia.
L'assunzione di un certo numero di farmaci è stato associato allo sviluppo della schizofrenia, compresi la cannabis, la cocaina e le anfetamine. Circa la metà di coloro che presentano una diagnosi di schizofrenia fa un uso eccessivo di droghe o alcol. Il ruolo della cannabis potrebbe essere causale, ma altri farmaci possono essere utilizzati dai pazienti schizofrenici come meccanismi di adattamento per affrontare la depressione, l'ansia, la noia, la solitudine.

La cannabis è associata a un aumento, dose-dipendente, del rischio di sviluppare un disturbo psicotico. L'utilizzo frequente è correlato a un rischio doppio di sviluppare psicosi e schizofrenia. Mentre la cannabis viene accettata come concausa di schizofrenia da molti, il suo ruolo rimane, tuttavia, controverso. Le anfetamine, la cocaina e, in misura minore, l'alcol possono portare allo sviluppo di una psicosi che si presenta in modo molto simile alla schizofrenia. Nonostante non si ritenga che possa essere causa della malattia, molte persone con schizofrenia fanno un uso di nicotina molto maggiore rispetto alla popolazione in generale.

Molti meccanismi psicologici sono stati ritenuti responsabili nello sviluppo della schizofrenia. Bias cognitivi sono stati identificati nei pazienti con diagnosi di schizofrenia o negli individui a rischio, soprattutto quando sono sotto stress o in situazioni di confusione. Alcune funzioni cognitive possono riflettere deficit neurocognitivi globali, come la perdita di memoria, mentre altri possono essere correlati a particolari problemi ed esperienze.

Nonostante non appaia sempre evidente, risultati di recenti studi indicano che molti individui con diagnosi di schizofrenia, sono emotivamente sensibili, in particolare a stimoli stressanti o negativi, e che tale sensibilità può causare maggior vulnerabilità ai sintomi o alla malattia. Alcuni dati suggeriscono che i temi dei deliri e delle esperienze psicotiche possono riflettere le cause emotive della malattia e che il modo con cui una persona interpreta tali esperienze può influenzare la sintomatologia. L'uso di "comportamenti di sicurezza" per evitare le minacce immaginarie, può contribuire alla cronicità delle illusioni. Un'ulteriore prova del ruolo dei meccanismi psicologici deriva dagli effetti della psicoterapia sui sintomi della schizofrenia.

La risonanza magnetica funzionale (fMRI) e altre tecnologie di imaging del cervello permettono lo studio delle differenze di attività cerebrale nelle persone con una diagnosi di schizofrenia. L'immagine mostra due cervelli a confronto, con aree che erano più attive, in arancione, nei pazienti sani rispetto ai pazienti schizofrenici, durante uno studio fMRI sulla memoria.
La schizofrenia è associata a sottili differenze nella struttura del cervello che si riscontrano nel 40-50% dei casi. Inoltre si rilevano modifiche nella chimica cerebrale durante gli stati psicotici acuti. Gli studi che utilizzano test neuropsicologici e le tecnologie di imaging del cervello, come la risonanza magnetica e la PET che sono in grado di esaminare le differenze delle attività funzionali nel cervello, hanno dimostrato che le differenze sembrano verificarsi più comunemente nei lobi frontali, ippocampo e lobi temporali.

È stata riportata una riduzione del volume del cervello, inferiore a quella che si riscontra nella malattia di Alzheimer, in aree della corteccia frontale e nei lobi temporali. Non è chiaro se questi cambiamenti volumetrici sono progressivi o preesistenti alla comparsa della malattia. Queste differenze sono legate a deficit neurocognitivi spesso associati alla schizofrenia. Dato che i circuiti neurali sono alterati, è stato alternativamente proposto che la schizofrenia possa essere ritenuta come un insieme di disturbi dello sviluppo neurologico.

Particolare attenzione è stata dedicata alla funzione della dopamina nella via mesolimbica del cervello. Questa attenzione è in gran parte il risultato della scoperta accidentale che i farmaci fenotiazinici, che bloccano la funzione della dopamina, possono ridurre i sintomi psicotici. Ciò è inoltre supportato dal fatto che le anfetamine, che innescano il rilascio della dopamina, possono esacerbare i sintomi psicotici nella schizofrenia. L'ipotesi che la dopamina possa influenzare lo sviluppo della schizofrenia propone che l'eccessiva attivazione dei recettori D2 sia la causa dei sintomi positivi della malattia. Anche se il ruolo di tutti gli antipsicotici nel bloccare i recettori D2 sia stato ritenuto corretto per oltre 20 anni, questo non è stato dimostrato fino alla metà degli anni 1990 grazie agli studi effettuati con la PET e la SPECT. L'ipotesi della dopamina ora si pensa essere comunque riduttiva, anche perché i farmaci antipsicotici più recenti (farmaci antipsicotici atipici) possono essere altrettanto efficaci quanto i più vecchi farmaci (farmaci antipsicotici tipici) che riguardano anche la funzione della serotonina e che possono avere un effetto ridotto sul blocco della dopamina.

L'interesse della ricerca si concentra anche sul ruolo del glutammato, un neurotrasmettitore, e sulla ridotta funzione del recettore NMDA del glutammato che si riscontra nella schizofrenia, in gran parte a causa dei livelli anormalmente bassi dei recettori del glutammato presenti nel cervello dei pazienti con diagnosi di schizofrenia esaminato post-mortem. Si è inoltre scoperto che i farmaci che bloccano il glutammato, come la fenciclidina e la ketamina, possono imitare i sintomi e i problemi cognitivi associati con la condizione.



Sono stati fatti diversi tentativi per cercare di spiegare il legame tra la funzionalità cerebrale alterata e la schizofrenia. Una delle ipotesi più comuni riguarda il ruolo della dopamina: il malfunzionamento dei neuroni dopaminergici potrebbe essere la causa delle errate interpretazioni da parte della mente che portano allo sviluppo di psicosi.

Tra le ipotesi delle cause fisiopatologiche della schizofrenia vi è un deficit e/o alterata funzione dell'acido folico che comporta:

alterazioni della metilazione del DNA,
anormalità nella trasmissione glutaminergica,
alterazioni della funzione mitocondriale,
deficit di folati,
iperomocisteinemia materna.
Una recente ricerca indica una correlazione tra l'aumento di IL-6 e TNF-a con i livelli di omocisteina patologici dovuti alla mutazione genica C677>T dell'enzima MTHFR.

Uno studio mette in relazione la comparsa della sintomatologia schizofrenica con un deficit di attività della glutamato carbossipeptidasi II (GCPII), enzima chiave per l'assorbimento dell'acido folico. Un altro gruppo di ricerca del Massachusetts General Hospital and Harvard Medical School di Boston mette in relazione i sintomi negativi della schizofrenia con il deficit di acido folico dovuto al deficit dell'enzima MTHFR.

L'uso dell'acido folico nell'ambito della terapia complementare e alternativa (CAM), sembra avere un ruolo definito e interessante, certamente meritevole di ulteriori sviluppi di ricerca.

Vi sono alcuni studi che mettono in relazione l'infezione da Toxoplasma gondii con lo sviluppo della schizofrenia.

Nel XX secolo, lo psichiatra Kurt Schneider elencò le forme dei sintomi psicotici che riteneva distinguessero la schizofrenia dagli altri disturbi psicotici. Questi erano chiamati «sintomi di primo rango» o «sintomi di primo rango di Schneider» o «della Schneider».

Essi comprendono delirio di essere controllati da una forza esterna, la convinzione che i pensieri vengano inseriti o eliminati dalla propria mente cosciente, la convinzione che i propri pensieri vengono trasmessi da altre persone e sentire voci allucinatorie che commentano i propri pensieri o azioni o provare una conversazione con le altre voci allucinate.

Anche se hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo degli attuali criteri diagnostici, la specificità dei sintomi di primo rango è stata messa in discussione. Una revisione degli studi diagnostici condotti tra il 1970 e il 2005, non ha confermato né confutato i risultati di Schneider, tuttavia ha suggerito che i sintomi di primo rango debbano essere de-enfatizzati nelle future revisioni dei metodi diagnostici.

Per la diagnosi di schizofrenia conta sia la natura sia la durata dei sintomi (sintomi che differiscono per durata caratterizzano ad esempio il disturbo schizofreniforme).

La schizofrenia viene diagnosticata in base a criteri del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, edito dall'American Psychiatric Association, giunto nel 2013 alla sua quinta edizione (DSM-5), o con quelli della International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-10) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Questi criteri utilizzano le esperienze auto-riferite dei pazienti e descrivono le anomalie nel comportamento; devono essere seguiti da una valutazione clinica da parte di un professionista della salute mentale. I sintomi associati alla schizofrenia devono verificarsi per un continuum e devono raggiungere una certa gravità, prima che una diagnosi possa essere formulata. Al 2009 non esiste un test diagnostico oggettivo.

I criteri espressi nell'ICD-10 sono tipicamente utilizzati nei paesi europei, mentre quelli del DSM-5 sono adottati negli Stati Uniti e in varia misura in tutto il mondo e inoltre sono prevalenti negli studi di ricerca. I criteri dell'ICD-10 pongono maggiormente l'attenzione sui sintomi di Schneider di primo rango. Nella pratica, l'accordo tra i due sistemi è elevato.

Secondo l'edizione riveduta del DSM-V, tre criteri diagnostici devono essere soddisfatti per una diagnosi di schizofrenia:
Sintomi caratteristici: La presenza persistente di due o più dei sintomi che seguono, per un periodo significativo che si considera di almeno un mese (si osserva che la durata può essere inferiore se il sintomo recede a seguito di trattamento):
deliri
allucinazioni
disorganizzazione del discorso verbale (es: perdere il filo, incoerenza, divagazione e espressione troppo astratta)
grave disorganizzazione del comportamento (es. nel vestiario, nelle abitudini diurne, disturbi del sonno, disforia, piangere o ridere frequentemente e inappropriatamente), oppure stato gravemente catatonico
presenza di sintomi negativi, cioè che trasmettono un forte senso di disinteresse, lontananza o assenza del soggetto: appiattimento affettivo (mancanza o forte diminuzione di risposte emozionali), alogia (assenza di discorso), avolizione (mancanza di motivazione), disturbi dell'attenzione e delle capacità intellettive, assenza di contatto visivo
Deficit o disfunzione sociale e/o occupazionale: Per un periodo di tempo significativo uno o più degli ambiti principali della vita del soggetto sono gravemente compromessi rispetto a prima della comparsa del disturbo (lavoro, relazioni interpersonali, cura del proprio corpo, alimentazione ecc.)
Durata: persistenza dei sintomi "B" per almeno sei mesi, che includano almeno un mese di persistenza dei sintomi "A".
È richiesto un solo sintomo del criterio A sé i deliri sono bizzarri, o se le allucinazioni consistono di una voce che continua a commentare il comportamento o i pensieri del soggetto, o di due o più voci che conversano tra loro.

Esistono ulteriori criteri (D, E ed F) che servono per diagnosi differenziali o per escludere la schizofrenia nel caso in cui sia stato diagnosticato il disturbo schizoaffettivo o un disturbo dell'umore grave (come la depressione maggiore con manifestazioni psicotiche); oppure in caso di grave disturbo dell'età evolutiva, o disturbi neurologici dovuti a condizioni mediche generali, o i sintomi che siano effetto dell'uso di sostanze stupefacenti o farmaci.

Un esame medico generale e neurologico può rendersi necessario per escludere patologie mediche che, raramente, possono produrre psicosi simili alla schizofrenia, come, ad esempio, disturbi metabolici, infezioni sistemiche, sifilide, infezione da HIV, epilessia o lesioni cerebrali. Le indagini non sono generalmente ripetute per le recidive, a meno che non vi sia una specifica indicazione medica o eventuali effetti indesiderati dovuti ai farmaci antipsicotici.



La prevenzione della schizofrenia è difficile perché non vi sono indicatori affidabili per il successivo sviluppo della malattia. Non vi sono prove conclusive circa l'efficacia degli interventi precoci per prevenirla. Tuttavia vi sono alcune evidenze che l'intervento precoce nei pazienti con un episodio psicotico possa migliorare risultati a breve termine, ma si riscontra poco beneficio da queste misure dopo cinque anni. Il tentativo di evitare la schizofrenia in fase prodromica è di incerto successo. La psicoterapia cognitivo-comportamentale può ridurre il rischio di sviluppare psicosi nei soggetti ad alto rischio.

Il trattamento primario della schizofrenia prevede l'uso di farmaci antipsicotici, spesso in combinazione con un supporto psicologico e sociale. L'ospedalizzazione può essere necessaria solo per gravi episodi e può essere decisa volontariamente o, se la legislazione lo permette, contro la volontà del paziente. L'ospedalizzazione a lungo termine è rara, soprattutto dal 1950 in poi, anche se si verifica ancora. Le terapie di supporto comprendono i centri di accoglienza, le visite routinarie da parte di sanitari dedicati alla salute mentale della comunità, il sostenimento dell'occupazione e la creazione di gruppi di sostegno. Alcune evidenze indicano che un regolare esercizio fisico comporti un effetto positivo sulla salute fisica e mentale delle persone con schizofrenia.

Le terapie del passato, come le applicazioni elettroconvulsivanti e l'insulinoterapia, non hanno mai dato risultati apprezzabili e sono sempre meno impiegate. La TEC (terapia elettroconvulsivante) è tuttavia ancora utilizzata nelle forme particolarmente resistenti ai farmaci, sebbene in condizioni molto più controllate di quanto non si facesse in passato.

Il trattamento psichiatrico di prima linea per la schizofrenia è l'assunzione di farmaci antipsicotici in grado di ridurre i sintomi positivi della psicosi in circa 7-14 giorni. Gli antipsicotici, tuttavia, non riescono a migliorare significativamente i sintomi negativi e la disfunzione cognitiva. L'uso a lungo termine riduce il rischio di recidiva.

La scelta di quale antipsicotico utilizzare si basa sulla valutazione dei benefici, dei rischi e dei costi. Si può discernere su quale classe di antipsicotici sia migliore, differenziando tra tipici o atipici. Entrambi hanno uguale frequenza di ricadute quando vengono utilizzati a basse dosi. Vi è una buona risposta nel 40-50% dei casi, una risposta parziale nel 30-40%, e una resistenza al trattamento (fallimento della risposta in termini sintomatologici dopo sei settimane di trattamento con due o tre antipsicotici diversi) nel 20% delle persone. La clozapina è un farmaco efficace per coloro che rispondono poco agli altri preparati, ma presenta un effetto collaterale potenzialmente grave: l'agranulocitosi (ridotto numero di globuli bianchi) nel 1-4% dei casi.

Gli antipsicotici tipici presentano effetti collaterali più spesso riguardanti il sistema extrapiramidale, mentre gli atipici sono associati a un più alto grado di rischio di sviluppare obesità, diabete e sindrome metabolica. Alcuni atipici, come la quetiapina e il risperidone sono associati a un più alto rischio di morte rispetto all'antipsicotico tipico perfenazina, mentre la clozapina è associata con il più basso rischio di decesso tra tutti. Non è chiaro se gli antipsicotici più recenti riducano le possibilità di sviluppare la sindrome neurolettica maligna, una malattia neurologica rara ma molto grave.

Per gli individui che non sono disposti, o non sono in grado, di assumere regolarmente farmaci, possono essere utilizzate preparazioni di antipsicotici a lunga durata d'azione, al fine di ottenere il controllo dei sintomi. Essi riducono il rischio di recidiva in misura maggiore dei farmaci assunti per via orale. Se ciò viene utilizzato in combinazione con gli interventi psicosociali, può migliorare a lungo termine l'adesione al trattamento.

Tra le terapie farmacologiche di supporto, recenti lavori scientifici confermano un ruolo per l'assunzione di acido folico come precursore chiave per la sintesi dei principali mediatori chimici della patologia psichiatrica; nonché come modulatore delle anormalità nella trasmissione glutaminergica, e nelle frequenti alterazioni della funzione mitocondriale presenti in corso di schizofrenia. Infine, è notoriamente usato per la correzione dei deficit dei folati presenti in corso di schizofrenia. Anche l'acetilcisteina è stata sperimentata con risultati preliminari promettenti.

Un certo numero di interventi psicosociali possono risultare utili nel trattamento della schizofrenia, tra cui: la terapia familiare, il trattamento assertivo della comunità, l'occupazione assistita, la psicoterapia cognitivo-comportamentale, interventi economici e psicosociali al fine di limitare l'uso di sostanze e per la gestione del peso. La terapia familiare o assertiva di comunità, che coinvolge l'intero sistema familiare dell'individuo, può ridurre le recidive e le ospedalizzazioni. Le prove che la terapia cognitivo-comportamentale sia efficace per prevenire le ricadute e ridurre i sintomi è minima. La teatroterapia e la terapia artistica non sono state ben studiate.

La schizofrenia è una condizione che comporta elevati costi sia umani, sia economici. La condizione si traduce in un'aspettativa di vita ridotta di 12-15 anni rispetto alla popolazione generale, soprattutto a causa della sua associazione con l'obesità, a stili di vita sedentari, al tabagismo e a un aumento del tasso di suicidi che, tuttavia, riveste un ruolo minore. Questa differenza nella speranza di vita è aumentata tra gli anni settanta e anni novanta, e tra gli anni 1990 e primo decennio del XXI secolo non è sostanzialmente cambiata neppure in un sistema sanitario con accesso aperto alle cure (come in Finlandia).

La schizofrenia è una delle principali cause di disabilità, con la psicosi attiva classificata come la terza condizione più invalidante dopo la tetraplegia e la demenza e davanti alla paraplegia e alla cecità. Circa tre quarti delle persone con schizofrenia hanno disabilità in corso con recidive e 16,7 milioni di persone nel mondo sono considerate con disabilità moderata o grave a causa di questa condizione. Alcune persone guariscono completamente e altre riescono comunque a integrarsi bene nella società. La maggior parte delle persone affette da schizofrenia riescono a vivere in modo indipendente con il sostegno della comunità. Nelle persone con un primo episodio di psicosi, un buon risultato a lungo termine si verifica nel 42% dei casi, un risultato intermedio nel 35% e un risultato scarso nel 27%. Il decorso per la schizofrenia appare migliore nei paesi in via di sviluppo rispetto al mondo sviluppato. Queste conclusioni, tuttavia, sono state messe in discussione.

Si riscontra un tasso di suicidi maggiore associato alla schizofrenia, ritenuto essere del 10%; tuttavia un'analisi più recente su studi e statistiche ha rivisto al ribasso la stima portandola al 4,9%. Più spesso i suicidi si verificano nel periodo successivo all'insorgenza della condizione o con il primo ricovero ospedaliero. Spesso (dal 20 a 40% dei casi) vi è almeno un tentativo di suicidio. Vi sono una serie di fattori di rischio, tra cui il sesso maschile, la depressione e un elevato quoziente d'intelligenza.

In studi effettuati in tutto il mondo, si è rilevata una forte associazione tra il tabagismo e la schizofrenia. L'uso di sigarette è particolarmente elevata nei soggetti con diagnosi di schizofrenia, con stime che vanno dall'80% al 90% di fumatori abituali tra i pazienti schizofrenici, rispetto al 20% nella popolazione generale. Coloro che fumano tendono a farlo molto e in aggiunta fumano sigarette ad alto contenuto di nicotina. Alcune evidenze suggeriscono che la schizofrenia paranoide possa avere una prospettiva migliore rispetto agli altri tipi di schizofrenia per la vita indipendente e per la vita lavorativa.




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sabato 26 settembre 2015

I DENTI DEL GIUDIZIO



Il dente del giudizio è sicuramente quello più temuto da tutti per i vari sintomi, compreso il dolore, che causa quando spunta.

I denti del giudizio sono i terzi - nonché ultimi - molari che spuntano nelle arcate dentarie. Chiamati anche ottavi, i denti del giudizio devono il loro singolare nome all'età in cui erompono attraverso le gengive: rispetto agli altri denti, quelli del giudizio tardano ad affiorare per comparire normalmente tra i 18 ed i 25 anni, un'età che - almeno teoricamente - potrebbe essere definita "epoca del giudizio".

La comparsa dei quattro denti del giudizio stabilisce il completamento della dentizione permanente: in condizioni normali, ogni dente del giudizio occupa l'ultima - nonché la più interna - posizione di ogni semiarcata dentale.
Tuttavia, non sempre i terzi molari fanno il loro esordio: non è infatti raro che uno o più denti del giudizio, rimanendo inglobati nell'osso e nella gengiva, manchino di spuntare. In simili circostanze, la dentizione permanente incompleta riflette una condizione nota come ipodonzia (i denti del giudizio sono meno di quattro).
Altre volte, pur riuscendo parzialmente ad erompere dalla gengiva, i denti del giudizio non completano il proprio sviluppo: in simili circostanze, i terzi molari, non trovando lo spazio sufficiente per concludere la crescita, rimangono ancorati nell'osso mascellare o mandibolare. Lo sviluppo incompleto dei denti del giudizio può, a sua volta, predisporre alla formazione di focolai d'infiammazione cronica, tanto da rendere necessaria l'estrazione del dente disturbatore.

Il fatto che la crescita dei denti del giudizio sia soggetta a variazioni e a imperfezioni è dovuto anche al corso evolutivo della specie umana: in passato l'uomo aveva bisogno di più molari per masticare cibi non cotti e/o tenaci, che sono stati abbandonati nel corso dell'evoluzione mentre le dimensioni della mandibola e della mascella si sono chiaramente ridotte, lasciando poco posto a disposizione per un normale sviluppo dell'ottavo dente. I denti del giudizio sono quindi un retaggio del passato.È solo con l'età che la mascella e la mandibola dovrebbero raggiungere sufficienti dimensioni per permetterne lo sviluppo.



Nell'epoca moderna, invece, l'alimentazione è più soft, composta dunque da cibi più morbidi che non richiedono una masticazione così vigorosa ed energica. Per questa ragione, le mandibole dell'uomo contemporaneo sono andate incontro ad una vera e propria evoluzione (per meglio dire, involuzione) sicuramente poco felice: essendo meno sviluppate rispetto al passato, le mascelle di dimensioni ridotte impediscono od ostacolano il corretto sviluppo dei denti del giudizio.

Non sempre è necessario procedere con l'estrazione di uno o più denti del giudizio. Difatti, quando sono perfettamente allineati e non creano disturbi di alcun tipo, i denti del giudizio possono anche rimanere nella loro sede naturale per tutta la vita. Nonostante quanto affermato, alcuni dentisti sono del parere che i denti del giudizio vadano sempre e comunque rimossi chirurgicamente, in quanto inutili ai fini della masticazione e (soprattutto) possibile fonte di disturbi gengivali e patologie parodontali (es. piorrea).
Ad ogni modo, ciò che è certo, è che l'estrazione dei denti del giudizio si rivela indispensabile nelle seguenti circostanze:
I denti del giudizio sono colpiti da CARIE o PULPITI: in questo caso, si sconsiglia vivamente di sottoporsi ad un intervento di otturazione o di devitalizzazione per correggere l'infezione. Una scelta simile non avrebbe molto senso proprio perché si andrebbe a salvare un dente "inutile" ai fini della masticazione, sottoponendosi perciò ad un intervento superfluo.
I denti del giudizio sono gravemente danneggiati da ASCESSI DENTALI, cisti, granulomi dentali od altre gravi complicanze.
Il dente del giudizio cresce in modo scorretto e NON È ALLINEATO con gli altri denti: la posizione anomala assunta dal terzo molare non solo impedisce od ostacola la corretta pulizia dentale con dentifricio, spazzolino e filo interdentale, ma espone anche lo stesso dente al rischio di carie, mal di denti, gengive gonfie ed infiammate e, nei casi più gravi, ascesso dentale.
Il mancato/incompleto sviluppo dei terzi molari può causare MAL DI DENTI ed INFIAMMAZIONE GENGIVALE (pericoronite). Inoltre, un difetto di crescita dei denti del giudizio crea una sorta di avvallamento gengivale, entro il quale i batteri possono penetrarvi, dando avvio ad una serie di danni ed infezioni che vanno via via degenerando.
Un DENTE PARZIALMENTE INTRAPPOLATO nella gengiva può minare salute e stabilità dei denti attigui: non trovando spazio a sufficienza, i denti del giudizio spingono gli altri, provocando denti storti, difficoltà masticatorie ed affollamento dei denti, ponendo le basi per una malocclusione dentale più grave.
I DENTI DEL GIUDIZIO RIMANGONO INCLUSI, ovvero incastrati nell'osso mandibolare/mascellare e non sono visibili ad occhi nudo. La permanenza di questi denti nei mascellari può predisporre allo sviluppo di cisti che, a lungo andare, possono favorire infezioni od indebolire l'osso portante.
I denti del giudizio CRESCONO ORIZZONTALMENTE e, spingendo sui secondi molari, provocano dolore durante la masticazione. La crescita obliqua dei denti del giudizio favorisce il deposito di residui di cibo sulle fessure gengivali che, inevitabilmente, si vengono a formare: anche in questo caso, i batteri trovano le porte aperte per avviare un processo infettivo che si traduce in carie e pulpiti.
I denti del giudizio sono SOPRANNUMERO: condizione opposta all'ipodonzia, si parla di iperdonzia quando i terzi molari sono più di quattro. Anche in questo caso, l'estrazione si rivela necessaria.
I DENTI DEL GIUDIZIO SI SCHEGGIANO o si rompono: in simili circostanze, denti rotti o scheggiati possono favorire la penetrazione dei batteri al loro interno, ponendo le basi per la formazione di pulpiti e granulomi dentali.

L'estrazione precoce del dente del giudizio è una questione ancora aperta. Il parere degli esperti in materia si divide in due: mentre alcuni dentisti consigliano di togliere sempre e comunque i denti del giudizio perché, statisticamente, predispongono ad infezioni ed infiammazioni, altri propongono di estrarli solo quando sono effettivo motivo di disturbo, dolore ed infezione.
Premesso che ogni paziente dev'essere attentamente valutato dal proprio dentista di fiducia, i denti del giudizio si possono comunque estrarre precocemente, anche in assenza di dolore o di altri disturbi.
L'estrazione precoce del dente del giudizio, prima della sua estrusione dalla gengiva, è vantaggiosa perché:
Riduce le difficoltà d'estrazione: la rimozione chirurgica di un terzo molare già pienamente formato richiede un intervento più invasivo rispetto a quella che richiederebbe un dente del giudizio non ancora spuntato e in fase germinale
L'intervento è meno rischioso e più semplice: il dente del giudizio, ancora allo stadio germinale, viene rimosso mediante una semplice incisione attraverso cui il germe del dente viene fatto sgusciare fuori molto agevolmente
Favorisce un miglior decorso post-operatorio: il paziente recupera più velocemente la totale capacità masticatoria dopo l'estrazione precoce del dente del giudizio
Minor complicanze post-estrazione: estrarre un dente del giudizio già formato può provocare dolore anche nei 7-15 giorni successivi all'intervento. Diversamente, la rimozione chirurgica di un dente del giudizio allo stadio germinale si rivela più agevole e meno complessa
Riduce il rischio di lesionare le strutture anatomiche contigue al dente del giudizio.





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giovedì 24 settembre 2015

RUSSARE



Chi dorme vicino ad un russatore finisce per compromettere il proprio sonno. Allora con scossoni si cerca di fermarlo ma dura solo qualche istante. Il consiglio è quello di rivolgersi ad un medico per affrontare il problema a capirne le cause.

Il russamento è un particolare fenomeno acustico caratterizzato da un rumore di intensità variabile generato lungo le vie respiratorie da strutture mobili e vibratili, soprattutto del velo palatino e dell'ugola (che costituiscono il "palato molle").
Ogni situazione di ostacolo o di riduzione del diametro incontrata dall'aria inspirata induce due fenomeni: da un lato un aumento della velocità dell'aria stessa, e dall'altro l'aumento della pressione negativa inspiratoria. I due fenomeni concorrono insieme ad aumentare la forza che viene ad agire sulle strutture vibratili inducendo il russamento.
La riduzione di diametro può essere a carico di qualsiasi zona lungo le vie respiratorie: sia del naso che dell'orofaringe che dell'ipofaringe; qualunque sia il livello del restringimento, l'effetto sarà l'induzione di vibrazione del palato molle con conseguente russamento.
Se la via nasale è ostruita o anche ristretta, l'aria è obbligata a percorrere l'istmo delle fauci, creando un' aspirazione sulle strutture faringee che tende a farle collassare e vibrare anche in assenza di riduzione del diametro.

Il rumore del russare viene generato quando l’aria non riesce a fluire bene dentro e fuori i polmoni attraverso la gola per un restringimento dei passaggi nella zona posteriore della bocca e del naso.
Le cause possono essere diverse. Si va dai chili in eccesso depositati nel collo e nella gola alla posizione della lingua, durante il sonno che tende a cadere verso la gola tappandola o riducendone il calibro.
Poi ancora il rilassamento dei muscoli della gola. Altra causa potrebbe essere quella di assumere alcolici, e mangiare cibi che contengono molte calorie e dosi eccessive di carboidrati (pane, pasta, riso, dolci, farinacei) e alimenti ricchi di grassi (salumi, formaggi, dolci).
Anche l’assunzione di sedativi e di sonniferi prima di andare a letto può avere una certa incidenza.
Ma non è tutto. Il naso chiuso per patologie infiammatorie (raffreddore) o degenerative può essere un’altra causa.




Chi russa dovrebbe sottoporsi ad una polisonnografia, che è l’esame principale in grado di rivelare la presenza di apnee notturne. Questo esame misura diverse funzioni come la frequenza e il ritmo cardiaco, il rumore prodotto durante il sonno e il flusso di aria che passa da bocca e naso, nonchè la quantità di ossigeno che arriva al sangue, la posizione corporea e l’eventuale sospensione del respiro durante i vari stadi del sonno.
Come prima cosa è opportuno dimagrire dal momento che il grasso nel collo e nell’addome è una delle cause.
Evitare di bere tisane o camomilla e non prendere sedativi. Il rischio è quello che si rilassino eccessivamente i muscoli della gola favorendo una respirazione pesante e, dunque, il russare.
Evitare di dormire supini, meglio dormire un fianco e riposare con la testa sollevata con un paio di cuscini per ridurre l’ostruzione delle vie aeree.
Se si russa a causa di un’allergia o un raffreddore spruzzare uno spray decongestionante prima di andare a letto.
Applicare se serve un cerottino nasale che dilata le narici e favorisce il passaggio dell’aria.








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mercoledì 23 settembre 2015

Gravidanza e Voglie



Le ‘voglie’ non hanno alcun fondamento scientifico: nel senso che non c’è alcuna correlazione tra presunte voglie insoddisfatte durante la gravidanza e la comparsa di chiazze, di qualunque tipo, alla nascita.

Sembra che queste dicerie abbiamo una origine medioevale periodo in cui le donne non avevano mota considerazione. A quei tempi qualsiasi “difetto” a carico del neonato veniva imputato alla madre e a qualcosa che aveva  commesso durante la gravidanza. Ci fu un periodo in cui i bambini che nascevano con angiomi erano additati come marchiati dal demonio. In alcuni casi venivano pure uccisi  e le madri ripudiate. Ai giorni nostri è rimasta per fortuna solo la parte più folkloristica di questa faccenda e che non ha alcun fondamento scientifico.

In genere questa macchie sulla pelle hanno carattere ereditario che nulla hanno a che vedere con quello che si è mangiato o meno in gravidanza.

In realtà la presenza di queste macchie scure sulla pelle non c’entrano niente con il mancato soddisfacimento delle voglie, perché sono il risultato di una concentrazione di melanina se sono scure e della dilatazione di capillari sottocutanei nel caso in cui siano rosse o rosate; inoltre, un altro mito da sfatare è che queste macchie siano in qualche modo dannose per il bambino: sono semplicemente delle piccole alterazioni del tutto benigne.



A prescindere dalle credenze popolari, le voglie in gravidanza sono legate al particolare momento che sta vivendo l’organismo della donna e ai cambiamenti ormonali che comportano delle alterazioni nel gusto e nell’olfatto della gestante, che spesso si trova a desiderare un particolare cibo e a detestare un odore fino a poco prima gradito.

Con il progredire della gravidanza aumenta anche l’appetito e il bisogno di incamerare più calorie del solito, che spesso si concretizza nel desiderio di cioccolato e dolci, anche per compensare le fragilità che in genere una donna ha in questo periodo così delicato.  Nei limiti della prescrizione di una particolare dieta da parte del ginecologo, si possono soddisfare le voglie della futura mamma, anche se risultassero un po’ elaborate o difficili da reperire, consci del fatto che questa “voglia” è legata ai cambiamenti che essa sta vivendo.

Alcune ricerche affermano che il 68% delle donne in gravidanza desiderano qualcosa di specifico in un determinato momento della gravidanza. Come  il cioccolato, o le patatine, o i sottaceti tanto per fare alcuni esempi.

Non tutte le voglie però sono uguali e in persone diverse potrebbero avere significati diversi.

Per alcune è solo un desiderio che non richiede di essere soddisfatto, almeno non subito per altre è invece qualcosa di irresistibile e che va accontentato immediatamente.

Delle volte si tende a pensare anche che una voglia sia determinata dalla richiesta del nostro corpo di un particolare elemento nutritivo che è scarso o mancante. Questo può essere vero se ad esempi abbiamo una forte necessità di introdurre liquidi o mangiare frutta e verdura, lo stesso discorso non si può fare ovviamente se  abbiamo voglia di un patto di fritto o di un pezzo di cioccolato.



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LA CERVICALGIA



Per tratto cervicale si intende la porzione superiore dalla colonna vertebrale comprendente 7 vertebre (le prime due costituiscono il rachide cervicale superiore, le altre 5 il rachide cervicale inferiore), che danno sostegno al campo e permettono di compiere movimenti rotatori, flessori ed estensori della testa. Quando di parla di cervicale (cervicalgia in campo medico) si intende un dolore al livello del collo, che da lì tende ad irradiarsi alle spalle (trapezi) e, nei casi più gravi, alle braccia, rendendo difficoltosi i movimenti.

Nella maggior parte dei casi (80-85%), all'origine del dolore, c'è un'alterazione non grave, che interessa le strutture meccaniche situate nella regione delle prime vertebre della colonna: si tratta dei muscoli, dei legamenti, dei dischi intervertebrali e delle articolazioni posteriori che garantiscono sia il movimento (il collo ha un'estrema mobilità per consentire allo sguardo di orientarsi in tutte le direzioni) sia il sostegno (il collo, struttura esile, sostiene la testa che è molto pesante).
Basta, infatti, uno sforzo non adeguato, che può essere istantaneo e brusco o prolungato, a livello del collo, o una postura non corretta a creare una lesione di queste strutture.
Insomma, uno stress meccanico esagerato e non corretto, rispetto a quello che queste strutture possono sopportare, provoca dolore. In questa situazione, spesso, si inserisce lo stress che, provocando una contrattura della muscolatura, favorisce l'insorgenza di micro-lesioni.
Oppure ci può essere il caso di situazioni sbagliate che determinano delle lesioni sia al disco intervertebrale sia alle articolazioni (dipende da qual è l'anello debole).
Con l'andare del tempo, infatti, queste microlesioni possono portare ad una patologia molto comune: l'artrosi. Tale disturbo, che è legato al logoramento della cartilagine delle articolazioni e dei dischi intervertebrali, dovuto solitamente all'età, viene accelerato quando si effettuano movimenti non corretti e prolungati nel tempo.

Sappiamo che, tendenzialmente, i movimenti del collo, quelli di flesso-estensione, tendono a sovraccaricare la zona cervicale bassa (anelli C5-C6), per cui il dolore si manifesta alle spalle; mentre una postura prolungata al video, per esempio, tende a sovraccaricare la zona cervicale alta (anelli C1-C2) provocando più facilmente mal di testa. Naturalmente ognuno di noi può avere una reazione individuale.
Per quel che riguarda, invece, vertigini, nausea, ronzio alle orecchie, sappiamo che sono indipendenti dalla zona coinvolta e si manifestano soprattutto in persone particolarmente emotive. Questi sintomi, però, non sono legati ad un aspetto psicologico, ma al fatto che nella zona cervicale "transitano" le radici nervose.



La cervicalgia può essere scatenata da un insieme di cause particolarmente numerose ed eterogenee. Tra tutte, la sedentarietà, i colpi di freddo e la postura scorretta costituiscono gli elementi eziopatologici maggiormente coinvolti. La cervicalgia acuta è invece causata da: colpi di frusta, ernie cervicali, ipercifosi dorsale, iperlordosi lombare, osteofiti, spondilosi e sport di potenza.

La cervicalgia è percepita come un dolore costante, di entità variabile, a livello del rachide cervicale.
Il dolore può essere affiancato da sintomi secondari, quali: tensione ed affaticamento muscolare, intorpidimento e formicolio localizzato, brachialgia, debolezza del braccio e della mano.

La cervicalgia per alcune persone può diventare un problema ricorrente e ripresentarsi ciclicamente anche per mesi, se non per anni. Il dolore può essere da medio a moderato, ma non si tratta dell'unico fattore presente. Infatti i dolori cervicali possono essere accompagnati, ad esempio, da mal di testa, senso di nausea e capogiri.

Tra i sintomi più comuni della cervicale troviamo i dolori a livello delle vertebre cervicali, il torcicollo, le vertigini, la cefalea, disturbi della vista e dell'udito, problemi di deglutizione. Quando i dolori si estendono ad altre parti del corpo, possono interessare anche la nuca le braccia e a volte le mani.

Si possono inoltre presentare, in caso di cervico-brachialgia, una sensazione di debolezza alle braccia e alle mani, oltre a intorpidimento e formicolio a livello degli arti superiori. Sono da tenere sotto controllo sintomi che possono nascondere altre patologie, come febbre, vomito, brividi, tremori, nausea, vomito, perdita di peso o di appetito senza spiegazione apparente.

I dolori alla zona del collo possono essere accompagnati da rigidità e da contratture muscolari. Possono presentarsi anche altri sintomi come ronzii nelle orecchie, perdita di equilibrio, problemi di udito, cerchio alla testa, problemi della vista, dolore alla fronte e sopra gli occhi.

Le contratture muscolari sono una causa molto comune per quanto riguarda i dolori cervicali. In particolare, nella fascia di età giovanile le cervicalgie sono quasi sempre dovute a semplici contratture muscolari.

Chi conduce una vita sedentaria, con particolare riferimento al lavoro d'ufficio, è più soggetto al rischio di assumere per lungo tempo una postura scorretta, con particolare riferimento al tratto superiore della colonna vertebrale e del collo. La postura scorretta e la vita sedentaria possono influire sulle vertebre cervicali e causare dolore. Il problema della postura scorretta riguarda anche gli studenti che trascorrono lunghe ore chini sui libri o sulla tastiera del pc.

I dolori cervicali possono essere causati da fattori traumatici che possono includere incidenti nella vita quotidiana o sul lavoro, lesioni traumatiche pregresse, colpo di frusta, trasporto di pesi con ricadute sul collo e sulla schiena.

Tra le cause dei dolori cervicali troviamo l'ernia cervicale. Si tratta di un disturbo provocato dallo schiacciamento dei dischi delle vertebre cervicali che può essere causato da un trauma meccanico da incidente o tamponamento stradale, per uno sforzo eccessivo, per la postura scorretta o per il colpo di frusta, tra le possibili cause.

Anche l'artrosi cervicale può essere alla base della comparsa di dolori cervicali. L'artrosi cervicale è una patologia degenerativa delle vertebre cervicali che può iniziare a verificarsi naturalmente intorno ai 50 anni, ma che può comparire anche prima per vari motivi. Le vertebre cervicali si deformano, comprimono i nervi e causano dolore.

I dolori cervicali possono essere legati anche a stress, utilizzo di cuscini inadeguati, difetti occlusali delle arcate dentali, difetti del campo visivo che influiscono sulla colonna vertebrale, ipercifosi dorsale o iperlordosi lombare, colpi di freddo, la pratica di alcuni tipi di sport, come boxe, rugby e sollevamento pesi.

Tuttavia nella maggior parte dei casi la causa principale dei dolori cervicali è un'alterazione non grave che interessa i muscoli, i legamenti, i dischi intervertebrali e le articolazioni posteriori. L'importante è non sottovalutare i disturbi e affidarsi alle cure di uno specialista, soprattutto se il dolore persiste.

La diagnosi è sempre clinica e si basa sulla storia del paziente, che permette di conoscere il suo stile di vita e sull'esame obiettivo (movimento del collo, valutazione neurologica) che consente di escludere o di ricavare elementi di sospetto, per cui sarà necessario effettuare indagini diagnostiche come la TAC, la R.M., l'elettromiografia (muscoli) e i potenziali evocati (midollo).

La terapia, che dipende dalla causa responsabile della cervicalgia, può comprendere: programma di esercitazioni specifiche per il dolore cervicale, fisioterapia, farmaci antidolorifici e, nei casi più gravi, intervento chirurgico (consigliato ad esempio in caso di cervicalgia dipendente da un'ernia cervicale).





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