sabato 26 marzo 2016

LA SPIRALE

Già nel Medioevo, e prima ancora nell'antico Egitto, era risaputo che grazie all'inserimento di corpi estranei come anelli o piccoli sassolini si potevano diminuire le probabilità di una gravidanza; tale espediente era infatti utilizzato spesso dalle prostitute dell'epoca.

La spirale rappresenta un importante metodo alternativo per la contraccezione: si tratta di un piccolo dispositivo di varia forma, che viene introdotto nell'utero della donna da un ginecologo, generalmente durante la mestruazione, ed ivi lasciato per alcuni anni.
La spirale contraccettiva è nota come IUD, acronimo anglosassone di Intra Uterine Device: l'effetto anticoncezionale è garantito dall'impedimento della fecondazione oppure dall'ostacolo dell'impianto in utero dell'embrione.
In commercio esistono due tipologie di spirali: IUD ormonali e IUD al rame.

La spirale contraccettiva ormonale è un dispositivo in plastica costituito da una sorta di membrana semipermeabile contenente progesterone: la spirale, una volta inserita all'interno della cavità uterina, rilascia piccole quantità di ormone che impediscono la fecondazione. Nel piano pratico, il meccanismo d'azione della spirale ormonale è paragonabile a quello dell'anello vaginale e della pillola contraccettiva.
L'ormone è rilasciato dalla ghiandola endocrina che lo produce (corpo luteo): la spirale agisce a livello dell'endometrio e del muco cervicale. Nel primo caso, il dispositivo rende l'endometrio particolarmente sottile ed instabile, così viene negata ogni eventuale possibilità d'impianto dell'ovulo; a livello del muco cervicale, invece, la spirale contraccettiva ormonale impedisce il passaggio degli spermatozoi.
L'azione anticoncezionale è garantita per 3/5 anni, dopodiché la spirale viene rimossa ed eventualmente sostituita con una nuova.

La spirale al rame è un piccolo dispositivo in plastica circondato da un sottile filo di rame spiralizzato (da qui, il nome “spirale”). Le spirali in commercio possono differenziarsi per forma, grandezza e caratteristiche: in base alla morfologia dell'utero, sarà il ginecologo a scegliere la spirale più adatta alla paziente, in seguito ad una minuziosa visita ginecologica. 
Il rame, che avvolge il supporto di plastica, esercita un'ottima azione spermicida: tant'è vero che il rame, a livello dell'utero, libera i suoi ioni impedendo la fecondazione dell'ovulo ed ostacolando la motilità e la sopravvivenza degli spermatozoi.
In base alla tipologia di spirale adottata, l'azione contraccettiva varia dai 3 ai 5 anni.

La spirale deve essere applicata e tolta da un medico, che di solito prima sottopone la paziente a un esame ginecologico di routine che comprende:
un’anamnesi completa,
un test di gravidanza,
il prelievo di un campione di tessuto della vagina e del collo dell’utero per escludere eventuali infezioni.
Non tutte le donne possono usare la spirale, talvolta la forma o le dimensioni dell’utero potrebbero non essere compatibili. Donne con risultati anomali in un pap test recente o con controindicazioni di altro tipo dovrebbero evitare di usare la spirale.

Prima dell’inserimento della spirale potrebbe essere richiesto di fornire il proprio consenso scritto: è importante leggere con attenzione tutto quello che riguarda il dispositivo che verrà applicato e fare tutte le domande che si ritengono opportune al medico.

Spesso la spirale viene applicata durante il ciclo mestruale, a volte subito dopo. Il medico infila il dispositivo in un lungo e sottile tubicino di plastica, che poi inserirà nella vagina guidandolo attraverso il collo dell’utero e l’utero stesso. La spirale viene poi spinta fuori dal tubo e sistemata nell’utero: le molle del dispositivo a questo punto si aprono e viene estratto il tubo di plastica.

La spirale non deve essere usata se la paziente:
è incinta,
soffre, o ha sofferto nei tre mesi precedenti, di malattia infiammatoria pelvica,
ha una malattia sessualmente trasmissibile,
soffre di determinati problemi al fegato (vale solo per la spirale ormonale),
è allergica a qualche componente della spirale,
soffre di fibromi uterini oppure ha altri problemi che potrebbero complicare l’applicazione del dispositivo.
L’applicazione della spirale non richiede anestesia, anche se è leggermente fastidiosa. Assumere qualche blando analgesico un po’ prima può essere di aiuto, ma in alcuni casi il medico può decidere di trattare la paziente con l’anestesia locale.

Dopo l’applicazione della spirale, il medico spiega alla paziente come controllare che sia al suo posto: la spirale ha una cordicella, una specie di “coda” fatta di plastica intrecciata. Dopo l’inserimento questa coda viene accorciata in modo che solo qualche centimetro fuoriesca dal collo dell’utero. È possibile valutare la posizione della spirale a seconda di dove si trova questa cordicella, che non dà alcun fastidio ma potrebbe essere avvertita dal pene del partner, senza tuttavia interferire con l’attività sessuale.

È importante controllare regolarmente la cordicella, inserendo un dito nella vagina e muovendolo finché non la si trova. Questo controllo può essere fatto in qualsiasi momento, ma effettuarlo al termine del ciclo può essere un sistema per ricordarsene facilmente.

Se si dovesse arrivare a toccare la spirale, occorre consultare il proprio medico, ma è importante non cercare di rimuoverla da sole.

La spirale in rame può aumentare il dolore mestruale e il flusso di sangue, così come lo spotting tra un ciclo e l’altro; quella ormonale, al contrario, può diminuirli.

A volte durante le prime settimane possono verificarsi crampi e piccole perdite di sangue o di altro tipo, sono sintomi piuttosto comuni e di solito scompaiono nel giro di un mese o due.

A causa del rischio di infezioni, la spirale è sconsigliata alle donne predisposte a infezioni genitali, ed alle donne che accusano abbondanti perdite durante il ciclo mestruale.



Molti ginecologi preferiscono non prescrivere l'IUD alle nullipare (donne che non hanno ancora avuto bambini), sebbene non vi sia alcuna ragione medica legata all'aspetto fisiologico. In effetti l'unica controindicazione nella prescrizione a ragazze giovani o adolescenti, è dovuta alla loro igiene di vita. La spirale può in effetti complicare eventuali infezioni, che sono statisticamente più frequenti nelle donne giovani o non sposate (quindi, nella visione comune, nullipare). Per le nullipare esistono delle versioni "short" (corte) di IUD, più piccole delle spirali classiche ed adatte ad un utero di dimensioni minori.

L'indice di sicurezza è intorno al 98%
le gravidanze indesiderate sono meno dell'1% con i dispositivi di ultima generazione
l'inserimento dello IUD entro 3 giorni da un rapporto a rischio ha un'efficacia di circa il 99% non fornendo comunque alcuna protezione da malattie sessualmente trasmissibili.

Molte donne scelgono la spirale contraccettiva perché offre moltissimi vantaggi:
A differenza della pillola anticoncezionale, che dev'essere assunta circa ogni giorno alla medesima ora per sfruttarne il massimo dell'efficacia, la spirale contraccettiva viene inserita nell'utero, e qui vi rimane per alcuni anni, garantendo sempre un eccellente effetto anticoncezionale. È impossibile, dunque,  che la spirale venga dimenticata, come  tuttavia accade per molte donne che utilizzano la pillola.
La sicurezza contraccettiva della spirale, in particolare quella a lento rilascio ormonale, assicura una contraccezione straordinaria (sicurezza anticoncezionale delle spirali di ultima generazione pari a 99.9%): ad ogni modo, la donna deve periodicamente controllare che la spirale sia posizionata correttamente.
La liberazione periodica del progestinico, in minima quantità, consente di ridurre notevolmente il flusso mestruale, evitando mestruazioni abbondanti. Si stima che il 20% delle donne che fa uso della spirale ormonale non presenti più mestruazione, fattore ritenuto positivo da molte donne. Tuttavia, per quanto riguarda la spirale al rame, il flusso delle mestruazioni delle donne che la utilizzano, generalmente, non diminuisce.
La spirale ormonale riduce notevolmente disturbi mestruali quali menorragia e dismenorrea.
La liberazione graduale, seppur continua, del progestinico riduce il rischio di polipi dell'endometrio ed iperplasie uterine.
L'applicazione della spirale entro i successivi tre giorni da un rapporto potenzialmente a rischio, garantisce il 99% dell'effetto anticoncezionale.
La spirale può essere rimossa in ogni momento ed in seguito la donna, quando lo desidera, può avere un'altra gravidanza (rapida reversibilità dell'effetto).
La spirale è un'ottima alternativa per le donne che non vogliono assumere la pillola oppure il cerotto trans dermico contraccettivo.

Come tutti i metodi contraccettivi, anche la spirale comporta effetti collaterali poco graditi:
Il gonfiore al seno, l'acne, l'emicrania e la percezione di gonfiore generalizzato rappresentano gli effetti collaterali più frequenti nelle donne che utilizzano la spirale progestinica. Proprio come la pillola, anche l'efficacia contraccettiva di questo modello di spirale potrebbe essere compromessa dall'uso concomitante di alcuni farmaci.
Le donne predisposte alle infezioni vaginali non dovrebbero utilizzate la spirale.
La spirale a rilascio ormonale potrebbe provocare secchezza vaginale e vampate di calore, simili a quelle della menopausa.
La spirale al rame potrebbe causare spotting nei primissimi mesi dall'applicazione: generalmente, il fenomeno scompare in un breve periodo. Nonostante ciò, quando il ginecologo non inserisce correttamente la spirale, o comunque non trova il modello di dispositivo contraccettivo più adatto alle struttura dell'utero della donna, lo spotting è un fenomeno ricorrente, configurandosi come la prima spia che dovrebbe allertare immediatamente la donna.
La spirale è assolutamente sconsigliata nelle donne predisposte a salpingiti, cerviciti e malattie infiammatorie pelviche.
Dalle statistiche emerge che il 20% delle donne che utilizzano la spirale contraccettiva soffre di oligomenorrea ed amenorrea nei primi mesi successivi all'applicazione.
La spirale fallisce nell'1-2% dei casi, provocando gravidanza indesiderata.
Durante il ciclo mestruale, la spirale potrebbe spostarsi oppure essere rimossa dall'utero.
La spirale non protegge dalle malattie sessualmente trasmissibili: a tal proposito, la spirale è consigliata per le donne con partner fisso. Nel caso la donna cambiasse partner, è preferibile l'utilizzo del preservativo (metodo barriera).




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INFEZIONI MASCHILE



Malattie, pruriti, rotture, eiaculazione precoce e ritardata, fratture. La parte del corpo a cui gli uomini tengono di più, il pene, non porta solo gioie e soddisfazioni.

I disturbi del pene possono influire negativamente sulla funzionalità sessuale e sulla fertilità.

Il priapismo è un’erezione continua, spesso dolorosa, che può continuare per alcune ore o alcuni giorni. L’erezione causata dal priapismo non è connessa all’attività sessuale e non cessa dopo l’orgasmo: il sangue affluisce al pene, ma non defluisce correttamente. Tra le cause più frequenti del priapismo:
Abuso di alcool o droghe (soprattutto cocaina),
Uso di determinati farmaci, tra cui alcuni antidepressivi e farmaci per il controllo della pressione,
Problemi al midollo spinale,
Lesioni ai genitali,
Anestesia,
Terapia iniettiva contro l’impotenza,
Malattie del sangue, come la leucemia e l’anemia falciforme.
Il priapismo deve essere curato, perché un’erezione prolungata potrebbe danneggiare il pene: lo scopo della terapia è quello di attenuare l’erezione e mantenere intatta la funzionalità dell’organo. Nella maggior parte dei casi si procede ad un drenaggio del sangue mediante una siringa che lo aspira dall’asta. Possono anche essere usati farmaci vasocostrittori che fanno diminuire l’afflusso di sangue. Raramente si rivela necessario l’intervento chirurgico per evitare lesioni permanenti. Se il disturbo è causato dall’anemia falciforme, probabilmente si dovrà ricorrere a una trasfusione di sangue.

Nei pazienti affetti dalla sindrome di La Peyronie si forma una placca od un rigonfiamento duro sul pene. La placca si sviluppa quasi sempre sulla parte superiore del pene oppure, più raramente, nella parte inferiore, negli strati che contengono il tessuto erettile. La placca di solito compare come un’area di irritazione e infiammazione localizzata e può trasformarsi in una lesione più dura. La lesione fa diminuire l’elasticità del pene nella zona colpita.
La sindrome di La Peyronie è per lo più un disturbo lieve che guarisce spontaneamente nel giro di 6-15 mesi. In questi casi il problema non si aggrava ed è limitato a una semplice infiammazione. Nei casi più gravi, invece, il disturbo può durare per anni. La placca indurita fa diminuire la flessibilità, causando dolore e costringendo il pene a piegarsi o arcuarsi durante l’erezione.
Oltre ad arcuare il pene, la sindrome di La Peyronie può causare dolore in condizioni normali, ma anche durante l’erezione. Può anche causare stress emotivo e avere ricadute negative sul desiderio e sulla funzionalità sessuale.
La causa esatta della sindrome di La Peyronie non è nota con esattezza: i casi che si sviluppano in fretta, che durano per poco tempo e scompaiono senza terapie, sono quasi sempre dovuti a un trauma (ferite o curvature) che causa un sanguinamento interno del pene. Alcuni casi di sindrome di La Peyronie, tuttavia, hanno un decorso più lento e sono abbastanza gravi da richiedere un intervento chirurgico. Tra le altre possibili cause della sindrome di La Peyronie:
Vasculite. È un’infiammazione del sangue o dei vasi linfatici che può portare alla formazione di lesioni.
Malattie del tessuto connettivo. Secondo il National Institute of Health americano, il 30 per cento circa dei pazienti colpiti dalla sindrome di La Peyronie si ammala anche di disturbi che colpiscono il tessuto connettivo in altre parti dell’organismo. Questi disturbi di solito causano l’ispessimento o l’indurimento del tessuto connettivo, un tessuto specializzato che serve da supporto ad altri tessuti dell’organismo e si trova ad esempio nelle cartilagini, nelle ossa e nella pelle.
Ereditarietà. Alcune ricerche ipotizzano che i pazienti che hanno un parente affetto dalla sindrome di La Peyronie corrono un rischio maggiore di ammalarsi della stessa sindrome.
La placca sintomo della sindrome spesso regredisce o scompare senza alcuna terapia, quindi la maggior parte dei medici consiglia di aspettare 1-2 anni o più prima di tentare di correggerla chirurgicamente. In molti casi l’intervento chirurgico produce risultati positivi, ma si possono verificare delle complicazioni e molti dei problemi connessi alla sindrome (ad esempio l’accorciamento del pene) non vengono corretti dall’intervento, quindi la maggior parte dei medici preferisce intervenire chirurgicamente solo negli uomini con curvature talmente pronunciate da rendere impossibili i rapporti.
Per curare la sindrome di La Peyronie esistono due tecniche chirurgiche.
Nella prima viene rimossa la placca e poi la zona viene coperta con un pezzo di pelle o di materiale artificiale (trapianto di pelle).
Nella seconda il chirurgo rimuove o pizzica il tessuto dalla parte del pene opposta alla placca, impedendo così al pene di arcuarsi.
Con il primo metodo si può perdere parzialmente la funzionalità erettile e soprattutto la rigidità. Con il secondo metodo, noto come intervento di Nesbit, il pene eretto sarà più corto.
La terapia non chirurgica per la sindrome di Peyronie comporta l’iniezione di farmaci direttamente nella placca, per cercare di ammorbidire il tessuto colpito, diminuire il dolore e correggere la curvature del pene. È possibile usare le protesi peniene nei casi in cui il disturbo impedisce al paziente di raggiungere o mantenere l’erezione.

La balanite è un’infiammazione della pelle che copre la sommità del pene. Un disturbo simile è la balanopostite, cioè l’infiammazione del glande e del frenulo. Tra i sintomi della balanite:
rossore,
dolore,
prurito,
eruzione cutanea,
perdite maleodoranti.
La balanite colpisce soprattutto gli uomini e i ragazzi non circoncisi e che non prestano sufficiente attenzione all’igiene. L’infiammazione si può verificare se la pelle sotto al prepuzio, che è più sensibile, non viene lavata regolarmente, permettendo così al sudore, alla pelle morta e ai batteri di raccogliersi sotto al prepuzio e causare l’irritazione. Se il prepuzio è stretto, può essere più difficile tenere pulita la zona: l’irritazione è causata da una sostanza maleodorante (smegma) che si può accumulare sotto al prepuzio.
Tra le altre cause possiamo avere:
Dermatite/allergia. La dermatite è un’infiammazione della pelle, causata in molti casi da una sostanza irritante o da un’allergia da contatto. La sensibilità alle sostanze chimiche presenti in certi prodotti, ad esempio nei saponi, nei detergenti, nei profumi e nelle creme spermicide, può causare una reazione allergica, con irritazione, prurito ed eruzione cutanea.
Infezione. L’infezione dovuta al lievito Candida albicans (la candida) può provocare un’eruzione cutanea con prurito e macchioline. Alcune malattie sessualmente trasmissibili, come la gonorrea, l’herpes genitale e la sifilide, possono causare i sintomi della balanite.
Inoltre i pazienti diabetici hanno maggiori probabilità di soffrire di balanite, perchè il glucosio (lo zucchero) presente nelle urine che rimane sotto il prepuzio è un ottimo terreno di coltura per i batteri.



L’infiammazione cronica del glande e del prepuzio può causare lesioni che a loro volta provocano il restringimento del prepuzio (fimosi) e dell’uretra (il tubicino che permette all’urina di fuoriuscire dalla vescica). L’infiammazione può anche far gonfiare il frenulo e provocare quindi lesioni al pene.
Nei pazienti che soffrono di fimosi il prepuzio è talmente stretto che non è possibile ritrarlo per scoprire la sommità del pene. La parafimosi, invece, si verifica se il prepuzio, una volta ritratto, non riesce a ritornare nella posizione originaria.
La fimosi, che è molto comune tra i bambini, può essere congenita, cioè presente fin dalla nascita. Può anche essere provocata da un’infezione o da una lesione causata da un trauma o da un’infiammazione cronica. Un’altra causa della fimosi è la balanite, che provoca lesioni e restringimento del frenulo. È necessario un intervento medico tempestivo se il disturbo impedisce o ostacola la minzione.

La parafimosi è una situazione di emergenza che può causare gravi complicazioni se non viene curata; può comparire dopo un’erezione o dopo un rapporto, oppure può essere causata da un trauma al glande. Chi soffre di parafimosi non riesce a ricoprire il glande. Se si lascia trascorrere troppo tempo, il pene comincia a far male e a gonfiarsi e iniziano i problemi circolatori. Nei casi più gravi, infine, il mancato afflusso di sangue può causare la morte dei tessuti (cancrena) e può rendere necessaria l’amputazione del pene.

Il tumore del pene è una forma di cancro molto rara che si verifica quando cellule anomale presenti nel pene iniziano a dividersi e a proliferare in modo incontrollato.
La causa del tumore al pene non è nota con esattezza, ma si sa che la probabilità di ammalarsi può aumentare in presenza di determinati fattori di rischio. Un fattore di rischio è un’abitudine o una condizione che fa aumentare il rischio di ammalarsi.
Chi non è circonciso corre un maggior rischio di ammalarsi.
Il papillomavirus è in realtà un gruppo costituito da più di 70 tipi di virus in grado di provocare verruche genitali (papillomi). Alcuni tipi di HPV possono infettare gli organi genitali e la zona anale e vengono trasmessi mediante contatto sessuale.
Il fumo espone tutto l’organismo, e non solo i polmoni, a diverse sostanze cancerogene.
Le secrezioni oleose della pelle si possono accumulare sotto il prepuzio. Il risultato è una sostanza densa e maleodorante, detta smegma. Se il pene non viene pulito adeguatamente, lo smegma può causare irritazione e infiammazioni.
La maggior parte dei casi di tumore al pene si verifica in persone di età superiore ai 50 anni.

La cosiddetta sindrome del chiodo rotto, un raro trauma consiste nella rottura improvvisa della tonaca albuginea. Spesso accade durante il sesso, e si sentirà un forte e doloroso scoppio seguito da una perdita immediata dell’erezione. Il pene diventa nero o blu, ed è meglio andare subito in ospedale.

L’alcol agisce come sedativo sulle strutture cerebrali, e berne troppo può rendere difficile, o addirittura impossibile, l’erezione e l’eiaculazione.

L’emospermia, un’infiammazione o un trauma nella prostata o in altre ghiandole, rende il liquido seminale di un colore rosso.

Le palle blu esistono realmente e si chiamano “congestione prostatica”, quando i testicoli sono sottoposti a una prolungata stimolazione sessuale senza arrivare all’eiaculazione. Il fenomeno è molto doloroso e può aiutare una doccia fredda e soprattutto portare a termine il rapporto.

Se non riesci a controllare il tuo prurito al pene le cause possono essere molteplici: infezioni, funghi, scabbia, pedivulosi, batteri, ma anche virus. La scarsa igiene è la causa prima del prurito e del rossore al pene.

La disfunzione erettile può accadere a qualsiasi età e in qualsiasi momento. La causa più comune è psicologica, ma possono esservi anche motivi fisiologici, come problemi vascolari, neurologici o ormonali.

Non c'è pillola dell'amore che tenga, l'organo sessuale maschile starebbe vivendo un periodo di "crisi" dovuto alla riduzione negli anni delle sue dimensioni: frutto dell'età media che si allunga ma che porta con se malattie croniche - ad esempio il diabete - che incidono negativamente sullo stato di salute del "sesso".

«Oggi la lunghezza media è di circa 13 centimetri, ma non abbiamo molti dati sulle dimensioni del sesso del maschio adulto di 60 anni fa - si legge su un quotidiano online - Tuttavia ciò che sappiamo è che gli uomini contemporanei vivono molto più a lungo, ma spesso sono più grassi o soffrono di malattie croniche come il diabete che influiscono sulla frequenza e sulla mascolinità delle erezioni».
Il quotidiano inglese non è particolarmente scientifico nella sua analisi, ma a supportare la teoria di un accorciamento dell'organo sessuale maschile, cita il libro The Feminization of Nature, firmato dalla scrittrice e gionalista scientifica britannica Deborah Cadbury.

Il volume è molto vecchio (risale al 1999) e analizza gli effetti sul sistema endocrino delle sostanze chimiche sempre più presenti negli ultimi decenni nell'alimentazione e nella vita quotidiana. Si punta il dito su sostanze e composti come i bifenili o il bisfenolo, presenti nelle plastiche di molti oggetti, e soprattutto sulle conseguenze negative a lungo termine sull'equilibrio ormonale.

L'effetto è che in media l'organo sessuale dei nonni era più lungo di due centimetri rispetto a quello dei nipoti. Ma la tesi - secondo i alcuni criteri - non si appoggia su basi scientifiche consolidate.




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INFEZIONI FEMMINILI




Nella donna le infezioni delle basse vie urinarie, della cervice, della vulva e della vagina determinano varie combinazioni di disuria, irritazione vulvare, dispareunia e modificazioni qualitative o aumento della secrezione vaginale. Nella valutazione dei sintomi delle vie genitourinarie inferiori nella donna sono essenziali due aspetti:
la diagnosi differenziale tra cistite, uretrite, vulvovaginite, cervicite;
l'esclusione di malattie associate del tratto superiore (per es., pielonefrite, salpingite).
Le infezioni si possono determinare per calo delle risposte immunitarie, debilitazione, carcerazione,  terapie cortisoniche o antibiotiche: la candida si reduplica meglio quando i batteri e la microflora vaginale è andata distrutta, superare le difese dell'organismo e dare luogo alla candidosi. La presenza di questo fungo è stata costantemente rilevata nell’apparato digerente, soprattutto negli immunodepressi (pazienti affetti da AIDS e pazienti sottoposti a chemioterapie per problemi oncologici.La gravidanza (rischio relativo 2-10) per via delle secrezioni dalla vagina,il diabete mellito, i contraccettivi e un’attività sessuale sfrenata  predispone alle infezioni.

Le infezioni vaginali (vaginiti) sono il motivo più frequente di consultazione ginecologica nelle donne adulte. Secondo le statistiche, riguardano ciascuna donna almeno una volta nella vita.

Le infezioni vaginali sono infiammazioni della vagina (vaginite), a volte estese anche alla cervice uterina, cioè al collo dell'utero, causate da uno o più agenti infettivi, identificabili in microrganismi patogeni di diverso genere e specie. In condizioni normali, la vagina ospita già al suo interno certi microrganismi innocui o solo potenzialmente patogeni, ma normalmente non attivi. I germi che colonizzano la mucosa vaginale costituendo la flora vaginale normale sono:

Lactobacillus acidophilus, comunemente detto lattobacillo, batterio molto importante nel regolare il grado di acidità vaginale;
Difteroidi, anch'essi batteri;
Staphylococcus epidermidis;
Streptococchi di varie specie;
Escherichia coli (tipico batterio a provenienza intestinale);
vari batteri anaerobi;
Candida albicans, un fungo (o meglio un lievito) presente nella vagina del 25% delle donne asintomatiche.
La salute vaginale dipende dall'equilibrio fisiologico tra tutti i microrganismi presenti. L'ambiente piuttosto acido, con pH 4, è il risultato di questo buon equilibrio e previene l'eccesso di crescita di germi patogeni.

Quando i germi patogeni intervengono in quantità elevata o quando intercorrono malattie (diabete, malattie generali debilitanti) o terapie (antibiotici, immunosoppressori) che alterano l'equilibrio dell'ambiente vaginale, insorge un'infezione sostenuta da uno o più agenti. Le forme di infezione più ricorrenti, quasi il 90% delle vaginiti, sono la vaginosi batterica e la vaginite micotica. La vaginite da trichomonas rappresenta da sola circa il 10% di tutte le infezioni.

"Le infezioni vaginali – spiegano gli specialisti ginecologi – possono essere su base infettiva o non infettiva (allergica). I responsabili delle infezioni possono essere funghi (più frequente la Candida albicans), batteri (la Gardnerella vaginalis, il Gonococco, lo Stafilococco e lo Streptococco), parassiti intracellulari simili ai batteri (la Chlamydia), virus (l’Herpes genitale), protozoi (Trichomonas vaginalis). Le infiammazioni di origine non infettiva possono essere causate da un detergente intimo non corretto, da indumenti stretti, da profilattici, da deodoranti e/o creme depilatorie… 
La maggior parte delle infezioni, invece, si manifestano con leucorrea, cioè perdite vaginali biancastre alle volte maleodoranti, prurito, bruciore e dolore, ma possono anche essere asintomatiche, ad esempio quelle da Chlamidya. 


Le cause dell’insorgere di questi disturbi non sono solo i rapporti sessuali non protetti e promiscui, ma anche una scorretta igiene personale, l’assunzione di alcuni farmaci (come gli antibiotici e gli immunosoppressori), che alterano la flora vaginale e abbassano le difese naturali dell’organismo, l’utilizzo in comune di servizi igienici e asciugamani, la frequentazione di piscine, le variazioni ormonali (in gravidanza, in menopausa, durante l’assunzione della pillola anticoncezionale) che rendono la zona vaginale più vulnerabile nei confronti delle aggressioni batteriche. 
La vagina ha una sua “flora” costituita da lattobacilli (o bacilli di Doederlein), che acidificano e proteggono dalle infezioni, ma anche da alcuni saprofiti (Escherichia coli, Streptococco, alcuni anaerobi…). In determinate situazioni (ad esempio durante l’assunzione di antibiotici o quando si soffre di diabete) si verifica un cambiamento di questa flora, per probabile minor difesa locale (immunodepressione), a favore della proliferazione dei saprofiti che, se superano una certa quantità, causano l’infezione.”

“Forti variazioni ormonali sono tipiche di alcune fasi della vita della donna e costituiscono fattori che possono favorire l’insorgere delle infezioni vaginali. In gravidanza, ad esempio, con l’aumento degli estrogeni e del progesterone, aumenta anche la quantità di glicogeno nelle cellule della vagina: questa concentrazione di zucchero rappresenta un terreno particolarmente favorevole per lo sviluppo dei germi. 
Durante la gestazione è molto importante curare tempestivamente le infezioni, poiché possono causare un parto prematuro. Statisticamente, le infezioni vaginali sono responsabili del 60-70 % di parti prima del termine. I virus e i batteri, infatti, passando dalla vagina all’utero, possono infettare il liquido amniotico e provocare la rottura anticipata della placenta (“rottura delle acque”), con complicazioni anche serie per il bambino. 
In menopausa la causa che favorisce l’insorgere delle infezioni è l’ipotrofia della mucosa vaginale, con assottigliamento delle pareti e scomparsa dei lattobacilli. A volte si tratta solo di fenomeni distrofici, senza alcun coinvolgimento di agenti patogeni, quindi è inutile – anzi dannoso – applicare terapie topiche e/o antibiotiche”.





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giovedì 24 marzo 2016

COLPO DI SONNO



La privazione del riposo notturno può causare colpi di sonno, cioè addormentamenti improvvisi. Quando una persona durante la notte dorme poco, infatti, è soggetta a sonnolenza e stanchezza psico-fisica il giorno successivo.

I segnali che più comunemente preannunciano un colpo di sonno sono le palpebre pesanti, gli occhi che bruciano, lo sbadigliare frequente, la sensazione di freddo, la difficoltà nella messa a fuoco, la percezione di suoni ovattati, l'incapacità di ricordarsi le ultime cose fatte e lo stato di sovrappensiero.

Prevenire i colpi di sonno è possibile rispettando il proprio orologio biologico interno. Ciascuno di noi ha esigenze di sonno e veglia personali, che deve imparare a conoscere ed assecondare, per non avere "debiti" di sonno da scontare successivamente. Infatti, c'è chi ha bisogno di dormire più a lungo e chi si riposa in poche ore, chi si sta meglio se dorme a lungo la mattina e chi si alza presto.

Il colpo di sonno è un fenomeno insidioso, da cui possono conseguire situazioni di pericolo. Prima di iniziare un'attività che richiede concentrazione, come la guida, è utile non mangiare in abbondanza ed evitare assolutamente alcol e sostanze psicotrope. In automobile, quando i segnali rivelano l'imminente approssimarsi del colpo di sonno, il consiglio è di fermarsi e riposare per almeno 20-30 minuti prima di riprendere il viaggio. È utile, poi, verificare con il proprio medico se i medicinali che si stanno eventualmente assumendo possono dare sonnolenza (quali sedativi, antidolorifici, tranquillanti ecc.).

L'eccessiva sonnolenza è associata approssimativamente (come causa diretta o concausa) ad un quinto degli incidenti stradali ed è una delle principali cause di incidenti mortali in autostrada.
Dormire meno di 5 ore per notte aumenta di 4,5 volte la probabilità di avere un incidente stradale.
Stare svegli per 24 ore induce errori alla guida simili a quelli commessi da chi ha livelli di alcool nel sangue uguali o superiori a 1,00 g/l.
Le persone affette dalla sindrome delle Apnee ostruttive nel sonno (OSAS) - il più frequente tra i disturbi patologici del sonno e le altre cause mediche della sonnolenza - hanno un rischio di incidente stradale da 2 a 7 volte superiore a quello osservato nelle persone sane. Tale rischio è più che doppio rispetto a quello imputabile all'abuso di alcool e/o al consumo di tranquillanti o cannabis.
Gli incidenti causati dal "colpo di sonno" sono i più gravi, con un elevato rischio di mortalità dovuto alla totale inazione del guidatore, che addormentandosi non ha consapevolezza dell'imminente pericolo.
I pericoli connessi alla sonnolenza aumentano con l'aumentare delle ore trascorse al volante senza pausa; particolarmente a rischio gli autisti professionali e chi percorre lunghi tragitti in auto, soprattutto nelle prime ore del mattino o durante la notte.



La regola generale, valida da sempre, impone di non guidare quando non si è perfettamente in grado di farlo. Un consiglio che potrebbe sembrare banale, scontato, addirittura vetusto, ma che se applicato da tutti contribuirebbe a ridurre il numero complessivo di sinistri che si verificano sulle strade, sia quelli di minore entità che quelli che purtroppo causano decessi o infortuni. Perché anche una sola, minima disattenzione, può cambiare per sempre il destino di una o più vite. Fortunatamente, la tecnologia può fornire un valido aiuto per combattere la stanchezza in auto, mantenendo il conducente sempre attento a ciò che accade sulla carreggiata e con gli occhi ben aperti.

Sul mercato, ad esempio, si trovano soluzioni come un collare che, una volta indossato, identifica un eccessivo abbassamento del capo, emettendo all’istante un forte segnale sonoro che funge letteralmente da sveglia. Un dispositivo piuttosto elementare nella sua concezione, ma comunque efficace. Lo stesso può essere effettuato oggigiorno con smartwatch e smartband, in grado di fornire un feedback al polso nella forma di una vibrazione, quando necessario.

Ci sono poi apparecchi da inserire nella presa dell’accendisigari, che riproducono un suono intenso a intervalli periodici, con la stessa finalità. Altri device adottano invece un approccio attivo, interagendo con il conducente attraverso uno scambio, ad esempio ponendogli delle domande e attendendo una sua risposta immediata, captata mediante un microfono ed elaborata poi da un apposito software. In questo modo si stimola il guidatore a pensare, a riflettere su un determinato argomento, destandolo da uno stato eccessivamente rilassato e potenzialmente pericoloso. Gli stessi prodotti hanno anche la capacità di individuare un andamento irregolare del veicolo (a zig zag oppure verso la corsia di marcia opposta), richiamando l’attenzione con un impulso rumoroso. Un sistema più “invasivo” è rappresentato da una sorta di auricolare che si posiziona sopra l’orecchio e, nel caso in cui l’inclinazione rilevata superi i 30 gradi, inizia a riprodurre un suono molto intenso.

In alcuni tratti sulla rete stradale sono presenti strisce laterali caratterizzate da piccoli rialzamenti, che al contatto con lo pneumatico causano la vibrazione dell’intero veicolo, avvisando così in modo immediato chi si trova al volante che è necessario correggere la propria traiettoria. Una sorta di feedback restituito dall’asfalto al conducente, prettamente meccanico, ma molto utile soprattutto in caso di scarsa visibilità dovuta a nebbia o mancata illuminazione.

Da evitare rimedi come un’assunzione eccessiva di caffeina (con effetto solo temporaneo) e l’ascolto di musica a volume elevato (alla lunga produce esattamente l’effetto contrario). Restano sempre validi, invece, suggerimenti come quello di fare una sosta di tanto in tanto scendendo dal veicolo, per prendere una boccata d’aria e allontanare così il pericolo, a beneficio di tutti.



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martedì 22 marzo 2016

PSICOLOGIA DEI KAMIKAZE



Ormai, purtroppo, si parla dei kamikaze come un fenomeno, non solo abituale, ma anche “normale” sebbene l’inizio di una strategia portata avanti attraverso l’utilizzo di uomini-bomba abbia indubbiamente segnato un punto di svolta non solo fondamentale ma anche particolarmente sconvolgente nell’ambito delle strategie del terrorismo. 

Il concetto di martire nel modo islamico è molto importante: i martiri sono quelli che vanno direttamente in paradiso dove sono accolti da vergini e da situazioni di grande piacere, ma soprattutto sono coloro che possono portare con loro in paradiso anche dei parenti, degli amici o comunque quelle persone che loro ritengono le più “degne”. In altri termini i martiri sono qualcosa di più di un sacerdote: in una religione monoteistica, che non ha i suoi santi, essi rappresentano in pratica proprio qualcosa di assimilabile ai santi. D’altra parte, anche la nostra religione ha reso santi i martiri della fede: noi abbiamo avuto dei santi che venivano dalle repressioni di epoca romana, epoca in cui si uccidevano tutti quelli che volevano testimoniare la loro nuova confessione. Oggi quel popolo, che utilizza gli uomini-bomba, è messo con le spalle al muro, in un angolo, in un luogo da cui non può fuggire; è costretto ad assistere costantemente alla superiorità dei paesi occidentali, che dovrebbero essere leader e guida di tutto il resto del mondo; è senza sviluppo, senza la possibilità di partecipare in modo soddisfacente alla direzione del mondo. 

La psicologia dell’uomo-bomba è caratterizzata dall’essere pronto al martirio, e quindi al sacrificio della propria vita, per ottenere la gratificazione, ben misera se poi andiamo a valutare, di fare dei morti nel campo avversario. Questo però ha spostato la guerra dal campo militare al campo civile, anche se, per altro, già sappiamo che i bombardamenti non guardano in faccia a nessuno: nelle guerre, ad esempio, non vengono bombardate solo le postazioni militari ma anche quelle civili, spesso anche gli ospedali, e frequentemente non si tratta di errori ma di effetti voluti per terrorizzare ulteriormente le popolazioni. Questi ragazzi-bomba sono persone che, naturalmente fanatizzate da una cultura che affida soltanto alla religione il proprio riscatto e la propria identità, generalmente hanno sofferto nella loro vita di un episodio tragico che li ha colpiti molto da vicino (un fratello, un amico che è morto per mano avversaria) e che hanno introiettato un senso di colpa perché loro sono vivi mentre il fratello o l’amico sono morti; contemporaneamente hanno anche bisogno di vedere un riscatto della propria causa a qualunque costo ed hanno formato la coscienza, la consapevolezza, ottenuta attraverso un indottrinamento speciale, di poter con il loro sacrificio costituire un’arma fortissima, forse più forte dei missili costosissimi con cui gli israeliani, gli americani possono rispondere. Tramite l’autoscarificio, quindi, gli uomini-bomba sperimentano il sentirsi per la prima volta capaci di fare un danno serio al nemico, un danno che non può essere ignorato. Se uniamo a queste motivazioni anche la possibilità di migliorare economicamente la situazione della propria famiglia ed il raggiungimento di obbiettivi, nell’altro modo, spirituali e trascendenti, allora otteniamo un profilo psicologico completo dell’uomo-bomba. Di persone che vivono questa disperazione, purtroppo, se ne formano tutti i giorni attraverso gli atti di vendetta che vengono compiuti da parte di stati che, invece, dovrebbero ragionare e capire meglio le conseguenze delle proprie azioni: ogni volta che un carro armato israeliano va a spianare una cittadina della Palestina si formano due, tre, cinque, dieci uomini-bomba che poi saranno pronti ad assalire le linee nemiche dall’interno obbligando il nemico stesso a costruire dei muri: ogni muro che si costruisce però non fa altro che rinforzare un odio ormai insuperabile e costruire quel clima generale da cui poi nascono altri uomini-bomba. 



Quasi ogni giorno, purtroppo, abbiamo a che fare con notizie di attentati compiuti da terroristi che, nel metterli in esecuzione, hanno trovato premeditatamente la morte. 
Colui che uccide raramente prova interiormente angoscia o disagio: spesso avverte invece una sensazione di onnipotenza, poiché può inserirsi nella vita di un altro e interromperla. Si potrebbe dire, per paradosso, che uccidere esalta come un'azione straordinaria e può essere quella in cui ci si sente realizzati appieno. La sensazione di poter decidere della vita di un altro è, dunque, una sensazione titanica. Ebbene, un suicida terrorista è un essere umano che distrugge se stesso per uccidere altri uomini, pur di diffondere angoscia e terrore per uno scopo politico o religioso. Ma che cosa, psicologicamente parlando, spinga un suicida terrorista ad un simile comportamento è ancora in gran parte avvolto nel mistero. Fino ad oggi si è pensato che il terreno di coltura degli attacchi suicidi siano la non integrazione sociale, la presenza di una malattia mentale come la psicopatia, ma soprattutto la miseria e la mancanza d'istruzione. Invece, per Scott Atran, un ricercatore dell'università del Michigan che ha analizzato questo fenomeno a partire dall'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, esisterebbe un identikit psicologico dei kamikaze molto diverso. Secondo le sue valutazioni (pubblicate in Science, n° 199, 2003), l'immagine predominante di questi uomini votati all'estremo sacrificio sarebbe del tutto falsa; scrive Atran: Non conosco nemmeno un attentato suicida che sia stato compiuto da un uomo povero, isolato, e psichicamente instabile. In effetti, neanche l'opinione pubblica araba è d'accordo con quella immagine, e sempre Atran ricorda che una guida spirituale della Fratellanza musulmana ha scritto in un settimanale egiziano che l'azione di un kamikaze perderebbe significato se egli fosse, per esempio, stanco di vivere. La motivazione degli attentatori suicidi è differente: Chi affronta il martirio si offre in sacrificio per la sua religione e per il suo paese. Ed il loro sacrificio non significa la morte, bensì l'ingresso in Paradiso, dove i loro peccati saranno perdonati, e dove potranno portare con sé i loro cari e i loro amici dinanzi al trono di Allah. Ciò spiega in parte anche l'entusiasmo suscitato dai kamikaze in alcuni paesi arabi, dove spesso i ragazzi collezionano ritratti degli attentatori come i loro coetanei occidentali le figurine dei calciatori. La morte trasforma i terroristi negli eroi della loro generazione e sono tutti piuttosto giovani, quasi sempre maschi e celibi, tant'è che secondo lo psichiatra Thomas Bronish del Max Planck Institut di Monaco di Baviera: Ci sarebbe da supporre che siano particolarmente sensibili all'influenza di capi carismatici e messaggi salvifici. Ma com'è possibile che intere fasce di popolazione approvino e promuovano azioni così estreme? Secondo Atran, si tratta di un meccanismo di sopravvivenza, che permette di agire in condizioni altrimenti paralizzanti . Una persona che si sente in un vicolo cieco, senza vie d'uscita, può ricorrere a mezzi disperati e riconsiderare le sue posizioni a dispetto della superiorità di cui gode. Questa condizione, associata alla religione, alla ideologia e alla lealtà assoluta, cambierebbe anche l'atteggiamento verso la propria sopravvivenza. Secondo Atran anche nei paesi occidentali si ricorre a metodi simili di persuasione. Le industrie del fastfood e della pornografia si rivolgono a bisogni umani ugualmente innati come il bisogno del cibo e quello del sesso, ma entrambe manipolano un desiderio naturale fino a farlo diventare dannoso e addirittura distruttivo. L'elemento che Atran ritiene più importante, però, è il senso del dovere provato dall'individuo nei confronti del suo popolo e della sua fede. Egli ricorda che, già negli anni Sessanta, si fece una serie di esperimenti per comprendere a quali condizioni certi soggetti possano compiere azioni che l'opinione comune considera eticamente condannabili. Stanley Milgran dell'Università di Yale, scoprì per esempio che in determinate situazioni gli studenti erano disposti a commettere azioni moralmente discutibili, obbedendo all'ordine di un istruttore di infliggere ad alcuni compagni scosse elettriche sempre più forti perché memorizzassero meglio alcune coppie di parole. La maggior parte dei partecipanti all'esperimento obbedì, a condizione che lo sperimentatore si assumesse l'intera responsabilità. La disponibilità a infliggere le scosse non fu alterata nemmeno dalle finte grida di dolore che arrivavano dalla stanza delle vittime. Anche in questo caso, la motivazione dei partecipanti non va cercata in una forma di sadismo, bensì in un senso di obbedienza a un'autorità. Lo stesso senso di impegno morale che viene stimolato durante l'addestramento dei kamikaze: là dove domina un'impressione di ingiustizia storica, di soggezione politica e di umiliazione sociale, l'attentato suicida diventa uno strumento dello scontro politico. È possibile disinnescare questi meccanismi? Il parere di Atran è che probabilmente non servono a nulla l'isolamento di gruppi religiosi ed etnici, così come non servono a molto gli embarghi economici o le azioni militari preventive contro i paesi che si presume sostengano le organizzazioni terroristiche, mentre sarebbe importante, invece, metter fine alla demonizzazione prodotta dalla propaganda religiosa e politica, ed avviare una robusta campagna di dialogo con l'Islam moderato, al fine di costruire una cultura del convivere in un mondo più unito, una cultura della fraternità universale dove le persone, i popoli e gli stati si riconoscano reciprocamente legati fra loro. 





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IL GESSO




Il gesso da usare in ortopedia veniva estratto dalla creta del passo della Cisa e lavorato dai gessisti, che riuscivano a modellarlo per qualsiasi parte del corpo da bloccare. Oggi si usa ancora, soprattutto nei bambini, ma spesso è sostituito da gessi sintetici con polimeri plastici già fatti.
Gessi “vecchi” e più recenti, tuttavia, non ottengono i risultati delle nuove tecniche mininvasive, che assicurano la ripresa anche in una settimana, invece dei 3 mesi di un gesso, spiega il professor Calori. «Inoltre, i gessi possono avere effetti collaterali. Come la rigidità delle articolazioni a monte e a valle della frattura, a causa della lunga immobilità. O allergie al cotone che li riveste. Persino infezioni cutanee, se ci si gratta col ferro da calza (la ferita rimane nascosta nel gesso). Infine, se c’è una compressione eccessiva, possono risentirne circolazione e nervi, in modo anche grave».

Esistono due diversi tipi di materiale con cui confezionare una ingessatura comunemente chiamata “gesso”. Gli stessi materiali possono essere usati per confezionare docce gessate (dette mezzo gesso), immobilizzazioni e tutori temporanei.

Oltre che la struttura rigida, portante, per confezionare un gesso serve anche una maglia tubolare di Jersey di cotone per avvolgere la pelle e del cotone idrofobo in fasce (detto di Germania) per evitare che la parte dura del gesso crei sofferenze sulla pelle.

Possono anche essere confezionati gessi in resina che abbiano la caratteristica di potere essere bagnati ma sono piuttosto rari, sia per il costo dei materiali, sia perché non adatti a tutti i casi da trattare.

Ogni ingessatura assolve lo scopo per la quale è stata ideata e confezionata. Esistono anche gessi molto complessi, eseguibili da personale esperto, come le minerve gessate o i busti per la scoliosi. La maggior parte delle persone verrà trattata con gessi per gli arti. Queste ingessature potranno essere anche docce gessate o tutori, più semplici, utilizzati solo come immobilizzazione, anche per ferite o lesioni dei tessuti molli siano essi tendini o muscoli. In alcuni casi le docce gessate vengono utilizzate nel post operatorio e solo temporaneamente.

I gessi dell’arto inferiore possono essere costruiti con caratteristiche tali da consentire il carico del peso corporeo e quindi danno la possibilità di camminare. I gessi di questo tipo vengono confezionati in situazioni particolari, su decisione dell’ortopedico. Non tutti i gessi consentono di camminarci sopra (ricordo a tutti che camminare vuol dire anche muoversi a casa per andare in bagno).

Bisogna mantenerli puliti ed asciutti.
Devono essere integri, senza zone di rammollimento o rotture
I margini devono rimanere arrotondati, per tal motivo non vanno accorciati o allargati se non da persone competenti
La pelle sotto il gesso non deve essere grattata e non si deve infilare niente sotto il gesso.
Non inserire sotto il gesso polveri aspersorie o lozioni di alcun tipo anche se si tratta di prodotti per curare il prurito.
Tenere coperto il gesso se si deve soggiornare in ambienti potenzialmente sporchi.
Se il gesso è lungo sulla coscia, bisogna stare particolarmente attenti nello svolgimento delle proprie funzioni corporee ed agli arti.

Mantenere l’arto in gessato in posizione sollevata, il punto di riferimento è la posizione del cuore. Questo serve a fare sgonfiare l’arto immobilizzato.
Le parti corporee libere dal gesso (dita, articolazioni non bloccate) devono essere mantenute in movimento per favorire la circolazione del sangue.



I ricercatori sono tutti d'accordo: le tecnologie di stampa tridimensionali stanno rivoluzionando l’ortopedia. Già tra pochi anni gli esoscheletri su misura potrebbero prendere il posto del desueto gesso. E per di più molti laboratori stanno lavorando alla fabbricazione di ossa su misura.

Jake Evill, un laureato della Victoria University di Wellington, in Nuova Zelanda, lo ha letteralmente provato sulla sua pelle. Il designer per media e industria è stato ingessato a seguito di una frattura alla mano. Evill è rimasto sorpreso da quanto questa tecnica sia poco “friendly” per il paziente – lo “stucco” pruriginoso dal peso di due chilogrammi sul suo braccio gli è sembrato un po’troppo arcaico. Nei mesi più caldi i pazienti sudano moltissimo e ciò porta rapidamente alla comparsa di un odore sgradevole. Non essendoci alternative Evill si è dato da fare da solo. Il risultato: Cortex, un esoscheletro dalla struttura alveolare dalle ampie aperture. Come materia prima sono stati utilizzati dei poliammidi come il nylon. Il materiale estremamente stabile e duro risulta molto leggero. Ciò è dovuto ai legami d’idrogeno intermolecolari, simili alle proteine.

Anche con Cortex per cominciare è necessaria una radiografia per determinare la posizione esatta della frattura. Poi si passa alla scansione tridimensionale dell’arto interessato. Qui Evill utilizza Kinect, un hardware per il controllo del Xbox 360. Adesso tocca al Computer: dall’elaborazione di questi dati è possibile calcolare la geometria che deve avere l’esoscheletro per adattarsi bene al paziente e fornire sostegno dove è necessario. Per la creazione del modello tridimensionale il nostro inventore è ricorso a ZBrush, un programma di grafica di Pixologic. Alla fine tutti i dati sono stati inviati nei Paesi Bassi. Shapeways, specialista in stampa tridimensionale, ne ha ricavato un esoscheletro dallo spessore di tre millimetri e con un peso inferiore ai 500 grammi.

Volendo essere critici il nuovo artefatto presenta due gravi inconvenienti: in confronto ai calchi in gesso o in resina i costi previsti sono molto più elevati. Sia per quanto riguarda l’hardware e il software, sia per il materiale stesso. Inoltre Evill calcola che sono necessarie circa tre ore per ottenere un calco finito – rispetto ad un massimo di dieci minuti per il metodo classico. Una volta pronto però cortex agisce da subito, mentre il gesso è del tutto asciutto solo dopo un giorno. Altrimenti i medici ne riconoscono i vantaggi: la struttura geometrica esatta, il peso ridotto, la qualità estetica. I pazienti possono fare normalmente la doccia o il bagno, e la pelle è ben ventilata. Camicie a maniche lunghe e pantaloni lunghi? Non c’è problema. Rimane la questione dell’impatto ambientale: il supporto in plastica, normalmente, richiede poco materiale. A guarigione avvenuta tutti i polimeri utilizzati possono essere riciclati tramite fusione.

Per poter essere utilizzato negli ambulatori e negli ospedali l’esoscheletro deve essere ancora perfezionato, nel frattempo sono già a buon punto altre tecnologie 3D per uso ortopedico. In Belgio il Professor Dr. Jules Poukens ha voluto affrontare la sfida posta dal trattamento di una paziente anziana con processi infiammatori cronici alla mascella inferiore. A causa dell’età era da scartare la possibilità di una ricostruzione della struttura ossea tramite intervento chirurgico di lunga durata. E questa è la sua alternativa: tramite misurazione tridimensionale ha potuto ottenere un dispositivo in titanio. Tramite un potente laser la polvere di titanio è stata messa con precisione millimetrica nella forma determinata. Prima dell’intervento inoltre Poukens ha rivestito la sua creazione con degli strati bio- ceramica. Alcuni medici britannici hanno dovuto affrontare un problema simile. Dovevano rimuovere ampie zone del cranio di un paziente. Sulla base di varie scansioni CT hanno preparato una ricostruzione 3D. Il pezzo di osso era di polietere chetone chetone (PEKK).

Un’altra prospettiva per il futuro consiste nella produzione, per mezzo di stampanti 3D, di protesi da integrare nel corpo. In Germania Cynthia M. Gomes sta lavorando, presso l’Istituto federale per la ricerca e ed i test sui materiali (BAM), ad artefatti in ceramica. La sua visione: durante l’operazione i chirurghi effettuano la scansione dei difetti ossei – e ricevono immediatamente gli impianti adeguati. Questi sarebbero costituiti al 60 per cento da pori per permettere alle cellule di crescere bene. Alla fine del processo il corpo assorbe i componenti inorganici. Gomes è convinta che tra cinque anni i primi impianti potranno essere utilizzati. Presso la Washington State University il professor Amit Bandyopadhyay ha investito molte energie in una stampante tridimensionale. Il suo prototipo produce sostituti ossei in ceramica, talmente fedeli ai modelli biologici da essere confondibili. I primi test condotti su ratti e conigli hanno avuto successo. Stima però che saranno necessari ancora almeno dieci anni prima che gli esseri umani possano servirsi di questa tecnica. Il Professor Kevin Shakesheff dell’Università di Nottingham procede secondo un’altra strategia – e stampa ossa artificiali con una stampante – Bio. Si serve di scansioni TC come base per generare un Template. Poi il Bioprinter si incarica delle cellule staminali. Una volta nell’organismo questa struttura di base viene gradualmente sostituita dal tessuto osseo. Recentemente Shakesheff ha presentato il suo metodo a Londra presso l’annuale Summer Scienza Exhibtion della Royal Society.



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IL TETANO



La malattia venne descritta per la prima volta da Ippocrate di Coo: già ai suoi tempi era molto conosciuta come "il flagello delle partorienti". A lungo i medici hanno ritenuto che il tetano fosse una malattia di natura neurologica, e solamente nel 1884, due ricercatori patologi italiani, Antonio Carle e Giorgio Rattone, operanti presso l'Università di Torino scoprirono l'origine infettiva della malattia, provocando il tetano in alcuni conigli cui furono inoculate sostanze prese dalle pustole di un uomo morto per tetano.

Poco dopo, in Germania, il medico Arthur Nicolaier scoprì il batterio - con la struttura di un bacillo allungato - caratterizzato dalla presenza di una spora alla sua estremità che gli fa assumere una forma a clava, a cui deve il nome clostridium.

Nel 1889, sia a Berlino Shibasaburo Kitasato, sia a Bologna Guido Tizzoni e Giuseppina Cattani, idearono una procedura che consentì di realizzare colture pure di un batterio con spore. Nel 1890 gli stessi Tizzoni e Cattani, contemporaneamente a Knut Faber in Danimarca, scoprirono la tossina proteica tetanica. Agli inizi degli anni venti del Novecento, Gaston Ramon, all'Istituto Pasteur di Garches, mescolando la tossina con formaldeide, ottenne un derivato non pericoloso ma in grado di attivare il sistema immunitario; questo fu il passo decisivo per l'utilizzo di un vaccino utilizzante il tossoide tetanico.

Il Clostridium tetani è un commensale del tratto gastroenterico di molti mammiferi erbivori, soprattutto equini e ovini. L'eliminazione delle spore con le feci di questi animali fa sì che il rischio di infezione sia massimo nei "campi tetanigeni", zone umide e argillose concimate, o dove avviene l'allevamento di questi animali. Le ferite penetranti, soprattutto da filo spinato, o le lacero-contuse (cadute, vetri, pietre, attrezzi agricoli) sono le maggiori responsabili di tossinfezione tetanica nei paesi industrializzati. Ulteriore attenzione deve essere posta alle punture da spina di rosa, a causa dell'abitudine di concimare questi fiori con il concime di cavallo. Le spore possono però essere ritrovate anche nel pulviscolo, nell'acqua, nelle abitazioni e negli ospedali.

Tra il 2002 e il 2005 sono stati registrati in Italia una media di 62 casi annui, con massima incidenza nelle donne (la vaccinazione era obbligatoria all'entrata del servizio militare) e nei tossicodipendenti. Nel mondo è stato registrato circa 1 milione di casi per anno, con una mortalità del 45%. La massima incidenza si ha nei paesi in via di sviluppo dove, a causa delle scarse misure igieniche, è tra le cause più frequenti di morte nel primo anno di vita ("classica" morte al 7º giorno); il tetano neonatale è sovente causato dal taglio del cordone ombelicale con uno strumento contaminato.

Il tetano è provocato da una tossina prodotta da Clostridium tetani, un bacillo lungo circa 2-5 µm, Gram positivo, anaerobio, acapsulato, mobile e sporigeno. Quest'ultima proprietà rende ragione della capacità di questo batterio di rimanere in ambienti ostili (terreno, metallo) per anni, senza perdere la capacità di sporulazione. La spora è in grado di resistere all'ebollizione per 15-90 minuti, all'essiccamento e a moltissimi disinfettanti quali formaldeide, fenolo e etanolo. Le spore sono tuttavia inattivate dal caldo umido (1 ora a 150 gradi) o da disinfettanti come lo iodopovidone, il perossido di idrogeno, l'ossido di etilene e la glutaraldeide. Ferite contaminate da terriccio, frammenti di legno e metallo, soprattutto se profonde o lacero-contuse, costituiscono l'ambiente ideale per la trasformazione della spora nella forma vegetativa in grado di produrre due tossine, la tetanolisina e la tetanospasmina (o tossina tetanica). Mentre la prima non ha un ruolo patogenetico chiaro, la seconda è la responsabile del tipico quadro clinico, con una dose letale inferiore a 130 µg. Viene secreta come un'unica catena di 150 kD, scissa poi in due frammenti di 100 e 50 kD legate da un ponte disolfuro. La tossina viene inattivata dal calore (anche da 5 minuti a 65 °C) e dagli enzimi proteolitici, come quelli contenuti nel succo gastrico. Inoltre, posta in contatto con formaldeide, si denatura, perdendo completamente il suo potere tossico; questo effetto viene utilizzato per la produzione del tossoide tetanico il cui potere immunogeno è alla base del vaccino attualmente utilizzato.

Le spore tetaniche germinano nelle ferite profonde, soprattutto in quelle lacero-contuse ove, contestualmente all'ampia necrosi tissutale, si stabiliscono condizioni di anaerobiosi favorenti. Punture da filo spinato, da spine di rosa, lacerazioni da legno, metallo, vetro, incidenti stradali o bellici, amputazioni praticate con materiale non sterile e la contaminazione della ferita ombelicale in neonati, ferite con fasciature che non lasciano passare l'ossigeno sono le lesioni più tipicamente associate alla genesi del tetano. Una volta penetrate in una ferita adatta, le spore germinano, dando origine alla forma vegetativa del Clostridium tetani in grado di produrre la tetanospasmina. I batteri non sono in grado di formare ascessi, suppurazione o invasione locale e per questo una ferita "pulita" non identifica una lesione a basso rischio per contaminazione tetanica. Si deve ricordare che dalla ferita alla manifestazione dei sintomi possono trascorrere pochi giorni o diverse settimane. Può succedere infatti che le spore tetaniche non trovino nel punto di inoculazione le condizioni adatte per sporulare e produrre la tossina e rimangano per molto tempo indisturbate nel sito. Tuttavia, altri traumi, infezioni da piogeni o utilizzo di sostanze contenenti ioni di calcio o chinidina (usata dai tossicodipendenti per tagliare l'eroina), possono innescare condizioni favorenti di anaerobiosi e riattivare l'infezione.
Una volta stabilita l'anaerobiosi, il batterio comincia a produrre le due tossine: la tetanolisina e la tetanospasmina, responsabile dei sintomi e per questo definita "tossina tetanica". Questa proteina, formata da 2 porzioni, si lega alle terminazioni dei motoneuroni a, innescando un primissimo e talora trascurato, meccanismo di tossicità motoria che si manifesta con debolezza o paralisi locale. Una volta penetrata nell'assone, la tossina risale verso i neuroni del midollo spinale e del tronco cerebrale ove esplica la sua azione principale. Infatti, giunta in questi siti, la tossina è in grado di migrare verso le terminazioni inibitorie del movimento che secernono glicina e GABA, provocando la distruzione degli apparati proteici preposti alla liberazione di questi due neurotrasmettitori. Il risultato è la paralisi spastica per mancanza di inibizione motoria, con contrazione contemporanea dei muscoli antagonisti ed agonisti, evento drammatico che, oltre a poter aver un esito mortale in caso di interessamento dei muscoli respiratori, è responsabile delle manifestazioni cliniche.
La tossina può colpire anche la sostanza grigia laterale (preposta al controllo del sistema nervoso autonomo) scatenando un'iperattività simpatica responsabile di alcune manifestazioni del tetano grave.



A differenza delle altre malattie infettive prevenibili con la vaccinazione, il tetano non si trasmette da persona a persona. L'infezione deriva spesso da una ferita, anche banale, occorsa ad una persona non adeguatamente vaccinata. Perciò il rischio tetano può essere considerata quotidiano in una persona non vaccinata.
Nei paesi in via di sviluppo il tetano può colpire le donne non vaccinate infettatesi durante il parto oppure i loro neonati per infezione del cordone ombelicale (tetano neonatale, oggi del tutto scomparso in Occidente).
Raramente, e sempre in persone non vaccinate, il tetano si può contrarre anche attraverso l'uso di siringhe infette, morsi di animali, ustioni, abrasioni.
L'infezione tetanica produce violente contrazioni muscolari, chiamate spasmi. Altri sintomi possono essere febbre, sudorazione, ipertensione arteriosa e tachicardia.
Gli spasmi possono interessare le corde vocali e i muscoli respiratori, tanto da mettere in seria difficoltà la respirazione. Le contrazioni possono essere così violente da produrre anche fratture ossee.

Il primo sintomo del tetano spesso sono gli spasmi muscolari della mascella (trisma), che possono essere accompagnati da difficoltà di deglutizione. Seguono quindi altri muscoli del capo che danno luogo al Riso Sardonico (aspetto tipo iena), poi si rileva la discesa degli effetti del tetano che provoca rigidità e dolore dei muscoli del collo, delle spalle, della schiena e degli arti, fino ad arrivare alla posizione “cane di fucile” (tutto rannicchiato).

I sintomi possono verificarsi in un periodo variabile da alcuni giorni ad alcuni mesi dopo che si è venuti in contatto con i batteri; in genere il periodo di incubazione varia da 2 giorni a mesi, anche se la maggior parte dei casi si manifesta entro 14 giorni. Ferite più gravi sono in genere legate a periodi di incubazione minore.

I medici hanno un ruolo importante nella prevenzione del tetano, perché si devono accertare che le vaccinazioni dei bambini siano valide e perchè si occupano della profilassi post-esposizione se il paziente ha una ferita che è a rischio tetano.

Il bambino che si ammala di tetano dovrà essere ricoverato in ospedale, di solito nel reparto di terapia intensiva. Qui, di norma, gli verranno somministrati degli antibiotici per eliminare i batteri ed il siero per neutralizzare la tossina già rilasciata dai batteri. Al bambino verranno anche somministrati farmaci in grado di tenere sotto controllo gli spasmi muscolari e altre terapie a supporto delle funzioni vitali dell’organismo.

In realtà il tetano è ormai molto raro negli Stati Uniti e negli altri paesi che hanno reso obbligatorie le vaccinazioni antitetaniche, almeno per le categorie a rischio come in Italia: ogni anno nel nostro Paese vengono diagnosticati circa 100 morti di tetano. In molti paesi sviluppati che hanno programmi di prevenzione e di vaccinazione meno efficaci la malattia è invece molto più frequente, situazione ancora più grave si registra nei Paesi del Terzo Mondo.

In Italia la maggior parte dei casi di tetano è causata da un taglio o da una lesione profonda, come ad esempio un’unghia schiacciata: a volte la lesione è talmente lieve che il paziente non va nemmeno dal dottore.

Le lesioni che comportano la morte della pelle (come ad esempio le scottature, il congelamento, la cancrena o le lesioni da schiacciamento) hanno maggiori probabilità di provocare il tetano. Anche le ferite contaminate da terra, saliva o feci, soprattutto se non vengono disinfettate con attenzione, e le punture effettuate con aghi non sterili (come ad esempio quando ci si droga o si fa un tatuaggio od un piercing casalingo) presentano un rischio maggiore.

Esiste anche un altro tipo di tetano, il tetano neonatale, che si verifica nei neonati partoriti in condizioni igieniche precarie, soprattutto se il cordone ombelicale si infetta dopo essere stato reciso. Negli Stati Uniti, prima dell’introduzione dei vaccini, il tetano neonatale era molto più frequente. Al giorno d’oggi le vaccinazioni antitetaniche obbligatorie producono gli anticorpi che le madri trasmettono ai figli durante la gravidanza. Questi anticorpi materni ed il miglioramento delle tecniche di recisione del cordone ombelicale hanno diminuito drasticamente la frequenza del tetano neonatale nei paesi sviluppati.

Nelle forme lievi, il periodo di risoluzione inizia intorno al 7º giorno e si protrae per circa 2-4 settimane. Se non viene iniziata una terapia adeguata, la prognosi è ben più grave nelle forme con breve onset e nelle forme cefaliche, con letalità vicino al 50% per asfissia od arresto cardiaco. Altre cause di morbilità sono le polmoniti ab ingestis (deviazione del contenuto orale ricco di batteri, soprattutto anaerobi, verso la laringe e poi nei polmoni), le infezioni dell'apparato urogenitale per paralisi delle vie urinarie, sepsi, embolie, disordini idro-elettrolitici, strappi tendinei e muscolari, fratture, lussazioni..
La prevenzione si attua principalmente attraverso la somministrazione di un vaccino.

In Italia, prima dell'introduzione della vaccinazione di massa (resa progressivamente obbligatoria per varie di soggetti nel corso degli anni '60) si contavano annualmente circa 700 casi di tetano.
Dalla fine degli anni ’60 in poi le infezioni sono andate gradatamente diminuendo fino a giungere a valori odierni di poco superiori al centinaio di casi all'anno (tutti comunque a carico di persone adulte non vaccinate o incompletamente vaccinate); per contro, dato l’elevato numero di vaccinati, non si registra più alcun caso di tetano in persone al di sotto dei 20 anni di età.

Il vaccino antitetanico, disponibile in Italia dai primi anni quaranta, è costituito da anatossina tetanica, cioè dalla tossina originaria resa innocua mediante procedimenti chimici che conservano però la sua capacità di stimolare la produzione di anticorpi protettivi (analogamente a quanto accade per l’anatossina difterica).
Il vaccino antitetanico è solitamente combinato con il vaccino antidifterico, al quale si accomuna per modo e calendario di somministrazione, e con il vaccino antipertossico acellulare (DTaP).
Per l'immunizzazione dei nuovi nati, di solito oggi, viene utilizzato il vaccino esavalente che oltre a proteggere contro il tetano previene anche la difterite, la poliomielite, l’epatite virale B, la pertosse e le infezioni invasive da HIB.

Circa la metà dei bambini che ricevono vaccini esavalenti, così come il vaccino singolo o le altre combinazioni di vaccino antitetanico, non ha nessuna reazione. La maggior parte degli altri bambini presenta solo reazioni lievi. L’evento più frequente è la febbre che si può avere in circa un terzo dei bambini. Reazioni locali si verificano nel 20 % dei casi. Queste comprendono dolore e rossore nel punto dove è stata eseguita l’iniezione, si verificano  in genere entro 48 ore dalla vaccinazione e durano fino a un paio di giorni.

Le reazioni locali aumentano con il numero di dosi eseguite. Circa i due terzi dei bambini ha una dolenza al braccio con il primo richiamo eseguito a 5-6 anni.

In caso di reazioni locali usare panni freddi o farmaci a base di paracetamolo, se necessario, per ridurre il dolore.

Nel caso che i sintomi si protraggano per più di due giorni può essere opportuno consultare il medico per verificare se questi rappresentino un comune effetto collaterale ad una vaccinazione o se invece si riferiscano ad un'altra malattia che deve essere riconosciuta e trattata.

In rari casi (1-2 ogni 10.000) si possono avere reazioni più importanti, come convulsioni correlate alla febbre alta. Reazioni allergiche di tipo anafilattico con gonfiore della bocca, difficoltà del respiro, pressione bassa e shock, sono del tutto eccezionali (meno di 1 caso ogni milione di vaccinati).
Nei soggetti adulti, sottoposti ad un numero elevato di dosi di richiamo con vaccini contenenti la componente tetanica si può raramente (meno di 1 caso ogni 100.000 dosi) avere una neurite brachiale. Sono stati segnalati anche rari casi di S. di Guillain Barrè (meno di 1 caso ogni milione di vaccinati).

In caso di ferita, è sicuramente utile anzitutto pulirla e disinfettarla con acqua ossigenata, che in primo luogo crea uno stato di aerobiosi che è sfavorevole al batterio, e poi tramite la sua effervescenza espelle i batteri e lo sporco dalla ferita; inoltre l'acqua ossigenata sviluppa radicali liberi dell'ossigeno che contribuiscono ad accelerare e potenziare la risposta infiammatoria, rendendo così più difficile l'attecchimento delle spore; è fondamentale controllare il proprio stato vaccinale e, se è il caso, richiedere la somministrazione di immunoglobuline antitetaniche, il prima possibile (nello stesso giorno in cui ci si è feriti).

Le immunoglobuline specifiche antitetaniche umane si ottengono raccogliendo plasma da un gruppo selezionato di donatori con alti livelli di anticorpi antitetanici; un tempo si usava siero di animale, di cavallo o di bue. Il siero animale può dare reazioni allergiche, e per questo motivo si somministrava in maniera frazionata.

Gli effetti collaterali relativi al vaccino antitetanico sono rari e molto lievi: reazioni allergiche, reazioni locali (edema, dolore, ipersensibilità nella zona di iniezione) ed eritema (arrossamento). Sono state descritte eccezionalmente Sindrome di Guillain-Barré (SGB) e neurite brachiale, ma sono estremamente rare (rispettivamente 0.4 casi per milione di dosi e da 0.5 a 1 caso per 100.000).

In caso di manifestazione clinica conclamata è opportuno innanzitutto porre sotto controllo la sintomatologia muscolare onde scongiurare la morte per asfissia e/o arresto cardiaco. Porre il paziente lontano da stimoli rumorosi, visivi ed emozionali che possono scatenare violente crisi convulsive dopodiché sono da preferire benzodiazepine o barbiturici a breve durata d'azione a piccole dosi fino al controllo dei sintomi, se è compromessa una ventilazione ottimale può risultare utile la ventilazione meccanica ma solo dopo essere intervenuti sulla sintomatologia muscolare, pena violenti sintomi convulsivi.

Il Clostridium tetani è sensibile ad antibiotici tra i quali quello d'elezione è solitamente il metronidazolo ma anche penicilline, tetracicline o macrolidi.

Particolare attenzione va posta anche ad eventuali tossicosi da cataboliti accumulatisi a seguito delle violente e protratte contrazioni muscolari, fornendo un adeguato supporto di nutrienti e di fluidi.



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