venerdì 17 marzo 2017

LUCE BLU



La luce blu può rappresentare un utile strumento per combattere la depressione invernale e l’insonnia ma può causare danni permanenti all’occhio umano.

La luce che raggiunge e penetra nell’occhio umano è suddivisa in spettro visibile, comprendente le lunghezze d’onda da ca. 380 a 780 nm, e spettro non visibile, che include la luce nell’intervallo ultravioletto (luce UV) e l’intervallo infrarosso (luce IR).
Da tempo agli esperti è noto che i raggi UV sono potenzialmente in grado di causare danni ai tessuti organici quali la nostra pelle e gli occhi; per questo motivo, utilizziamo ad esempio appositi prodotti per la protezione solare. Tuttavia, anche la luce blu-violetta può causare lesioni, soprattutto ai nostri occhi. La luce blu-violetta può avere minore energia di quella ultravioletta ma, al contrario della luce UV – la maggior parte della quale viene assorbita dalla parte frontale dell’occhio – la luce blu raggiunge la retina.

Il componente della luce nell’intervallo blu-violetto tra 380 e 500 nm è conosciuto come luce visibile ad alta energia (HEV). Le lunghezze d’onda comprese tra 380 e 440 nm sono considerate particolarmente critiche e sono ritenute tra le possibili cause della fotoretinite che comporta danni alla retina dovuti a luce incidente ad alta energia.

Secondo alcuni studi scientifici, la luce ha un effetto biologico sul nostro corpo, contribuendo tra l’altro a regolare il nostro equilibrio ormonale. L’ormone melatonina svolge un ruolo importante nella regolazione del nostro ciclo sonno/veglia; inoltre, l’energia luminosa necessaria per questo processo viene assorbita in larga misura dai nostri occhi. Un altro fattore chiave in questo processo è un fotopigmento definito melanopsina, che, come è stato dimostrato, è il più attivo nella porzione ad onde corte dello spettro visibile. Ne consegue che anche la luce blu che raggiunge la nostra retina è funzionale ad assicurare il nostro benessere psicologico; per questo motivo la fototerapia viene utilizzata con successo per trattare la depressione invernale e l’insonnia.
Inoltre, la luce UV è coinvolta nella produzione di vitamine; ne consegue anche che lo stimolo luminoso esercita un’influenza importante sul nostro metabolismo. In sintesi, il nostro corpo necessita della luce blu.

Una quantità eccessiva di luce nell’intervallo ultravioletto e blu-violetto può danneggiare l’occhio umano. Oltre a provocare un’infiammazione dolorosa della congiuntiva e della cornea, può anche causare danni al cristallino e, in particolare, alla retina (degenerazione maculare).
Questo è il motivo per cui è così importante indossare occhiali da sole con una protezione del 100% contro i raggi UV in condizioni di intensa luce solare, soprattutto in presenza di forte abbagliamento, come su uno specchio d’acqua o sulle piste da sci.

Dai diodi ad emissione luminosa (LED) alla luce allo xeno, dalle lampadine a risparmio energetico alla radiazione elettromagnetica degli schermi: tutte le “nuove sorgenti luminose”, progettate per migliorare e facilitare la nostra vita, contengono una proporzione di luce blu superiore a quella delle tradizionali lampadine del passato. La differente composizione spettrale della luce comporta un’esposizione ad una quantità di luce blu molto più elevata rispetto a prima.
Finora non sono stati effettuati studi scientifici che rispondano al quesito se utilizzare display di computer o fissare queste nuove sorgenti luminose per tempi prolungati possa comportare danni alla retina. Tuttavia, è importante tenere presente che trascorrere un’ora all’aperto in una normale giornata nuvolosa espone i nostri occhi alla luce blu 30 volte di più che trascorrerla in un ambiente chiuso, davanti ad uno schermo.



Tablet, smartphone e altri dispositivi digitali dotati di display non hanno modificato solamente lo spettro luminoso al quale siamo esposti, bensì anche le nostre abitudini visive. È importante riconoscere che trascorriamo molto più tempo guardando “da molto vicino rispetto al passato. La ragione è che spesso la luminosità dello sfondo è eccessivamente ridotta. Il problema riguarda anche i bambini: “Miopia scolastica è il termine che indica la crescente tendenza alla miopia rilevata tra i bambini quando iniziano a frequentare la scuola.

Se non dedichiamo tempo sufficiente alla visione per lontano, i nostri occhi hanno poche opportunità di rilassarsi e, sostanzialmente, “disimpariamo la capacità di accomodare rapidamente a varie distanze. Ne deriva il cosiddetto affaticamento degli occhi dovuto all'uso di dispositivi digitali. Inoltre, la nostra cornea viene idratata meno frequentemente dal liquido lacrimale, poiché quando fissiamo un display digitale è naturale battere le palpebre meno spesso. Le conseguenze possono essere affaticamento e stress degli occhi. Nel caso peggiore può venire addirittura compromessa la visione.

L'occhio umano è naturalmente predisposto per difendersi dagli effetti dannosi della luce: la pupilla si restringe, le palpebre si chiudono, lo sguardo si distoglie automaticamente per evitare che la luce entri troppo intensamente nella retina, provocandone il danneggiamento. Ma esporci a lungo ai dispositivi elettronici può compromettere queste difese naturali e peggiorare gli effetti.

I rischi legati alla vista non sono comunque gli unici. È scientificamente provato che la luce blu sopprime la produzione di melatonina, un ormone prodotto dalla ghiandola pineale preziosissimo per la regolazione dei cicli del sonno. La sua inibizione può causare insonnia e i disturbi a essa collegati. Meglio allora perdere l'ultimo post di Facebook o un messaggio su Whatsapp e guadagnare in salute, spegnendo lo smartphone dopo cena.

Sicuramente, come prima cosa, lascia fuori dalla camera da letto smartphone, tablet, notebook e tutto ciò che è in grado di emettere luce blu: meglio perdere l’ultimo aggiornamento di Facebook e guadagnarci in salute.

Può essere utile anche rivolgere frequentemente lo sguardo lontano, anche mentre lavori al computer, facendo così riposare gli occhi. Mantieni, inoltre, sempre una giusta distanza dai dispositivi digitali; deve essere pari almeno alla lunghezza dell’avambraccio.

Altri comportamenti che puoi adottare per ridurre i rischi legati all’esposizione della luce blu sono: regolare la luminosità dello schermo, cambiare il colore di sfondo da un bianco brillante a grigio chiaro, pulire spesso gli schermi, non posizionare lo schermo verso la finestra, montare filtri di riduzione del bagliore sul display, aumentare la dimensione dei caratteri per facilitare la lettura e fare controlli regolari dall’oculista.



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giovedì 9 marzo 2017

CANNE E ADOLESCENTI



La marijuana è stata associata ed effetti benefici fin dalla notte dei tempi usata come farmaco  in alcune terapie.

Purtroppo si tende a minimizzare i rischi sanitari del consumo di cannabis confrontandoli con quelli del fumo di sigaretta o del consumo di alcool. Fortunatamente l’opinione pubblica è stata in parte sensibilizzata sui danni da alcool e fumo, ma la marijuana non è ancora percepita come un pericolo.

La marijuana è stata usata a scopo medico fin dall’antichità. Anche ai giorni nostri c’è un forte interesse per valutare l’efficacia del farmaco a sette punte: molti degli effetti benefici devono essere ancora studiati, ma alcuni di questi sono stati correlati con il trattamento di dolore, nausea, anoressia, spasticità muscolare, disturbi del sonno.

Il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) è uno tra i maggiori principi attivi della Cannabis che appartiene alla famiglia dei fitocannabinoidi. Il THC mima gli effetti degli endocannabinoidi, che costituiscono un complesso sistema di comunicazione interneuronale, il cosiddetto sistema endocannabinoide. Che effetti provoca quest’interferenza in circuiti cerebrali così delicati e suscettibili a modificazioni? Diversi studi hanno correlato le capacità in diversi ambiti cognitivi di consumatori di marijuana rispetto a gruppi di controllo, dimostrandone un decremento della memoria, della velocità di processamento delle informazioni e dell’attenzione. Simili risultati sono emersi da questo studio condotto su adolescenti consumatori di marijuana, con chiaro impoverimento dei risultati all’aumento della quantità di dose consumata. Deficit di memoria di consumatori di questa droga leggera sono riportati da diversi studi, evidenziando inoltre un miglioramento dei risultati in condizioni di astinenza.

È stato dimostrato che l’inizio in età precoce (16 o 17 anni) del consumo di marijuana influisce negativamente su: tempo di reazione ad un compito; QI verbale, fluenza del discorso e memoria verbale; attenzione sostenuta, controllo degli impulsi e capacità di esecuzione di un compito.

Si è risvegliato un forte interesse della ricerca scientifica per studiare gli eventuali effetti dell’uso di marijuana sullo sviluppo di strutture nervose quali la materia grigia e la materia bianca del cervello. È noto infatti che durante lo sviluppo adolescenziale il cervello va incontro ad una serie di importanti cambiamenti (ad esempio si assiste ad una diminuzione del volume della corteccia cerebrale già dal sesto anno di vita, causata da una selezione delle connessioni sinaptiche da mantenere a scapito di quelle più deboli che invece vengono eliminate).

Quindi diventa molto importante capire se e come gli endocannabinoidi contenuti nella marijuana possano interferire con i neuroni (materia grigia) e il normale processo di differenziazione e sviluppo cerebrale. Secondo questo studio adolescenti fumatori di Cannabis hanno il volume di una parte del lobo frontale (corteccia prefrontale orbitale mediale destra) diminuito rispetto al gruppo di controllo non fumatore. Secondo un altro studio si è osservata una diminuzione del volume dell’ippocampo proporzionale al consumo di Cannabis. È da rilevare comunque che diminuzione del volume della corteccia prefrontale orbitale e dell’ippocampo sono stati rilevati anche in consumatori di alcol. Inoltre negli adolescenti consumatori di marijuana sono stati individuati aumenti di volume di parti del cervelletto (verme inferiore posteriore), correlato con diminuite capacità esecutive. Ulteriori risultati sono emersi in altre aree del cervello, facendo concludere che la marijuana può alterare il neurosviluppo in due modi: 1) sviluppo prematuro e/o alterazioni nei percorsi sinaptici o 2) perdita o rimodellamento del tessuto nervoso (materia grigia) associato alla tossicità relativa alla marijuana.

La materia bianca (l’insieme dei collegamenti sinaptici del cervello) gioca un ruolo fondamentale nel collegare le diverse parti dell’encefalo: affinché il suo funzionamento sia corretto è necessario mantenere la sua integrità (adeguato rivestimento mielinico, coerenza e continuità dei tratti di fibre nervose). Ancora più importante è mantenere questa integrità cerebrale nel periodo dell’adolescenza, periodo critico del neurosviluppo in cui si assiste ad un incremento della materia bianca, dovuto ad una maggiore connessione delle strutture cerebrali. Lo studio degli effetti della marijuana sullo sviluppo corretto della materia bianca sono ancora agli inizi ma si sono comunque osservati alcuni aspetti degni di nota: i consumatori adolescenti di marijuana hanno una diminuita integrità della materia bianca correlata con peggiore funzionamento neurocognitivo.

Il fumo di marijuana quando inalato, come d’altronde il fumo di sigaretta, aumenta di almeno cinque volte il valore ematico di carbossiemoglobina (addirittura di un terzo in più rispetto al fumo di sigaretta). Per continuare il paragone con il fumo di sigaretta, la boccata di marijuana ha maggior profondità, maggior volume di fumo inalato e maggior tempo prima di espirare.



Alcuni studi condotti in passato hanno mostrato che il suo consumo può avere costi sociali importanti, perché associato statisticamente a disoccupazione, assenteismo, diminuzione della produttività, nonché a un aumentato tasso di crimini e incarcerazioni.

Alcune ricerche mostrano  che gli adolescenti sono una popolazione particolarmente esposta ai rischi sanitari della cannabis, specialmente per quanto riguarda le funzioni neurocognitive: in questa età infatti, il cervello subisce una serie d'importanti mutamenti, con cui le sostanze d'abuso posso interferire notevolmente. E' stata segnalata infatti una diminuzione dell'intelligenza, della memoria, della capacità di attenzione e della capacità verbale.

Valutazioni con misurazioni standardizzate nella fascia di età 9-12 anni e 17-20 anni, l'evoluzione cognitiva con e senza gli effetti della cannabis anche in coppie di soggetti che condividono il 100 per cento del DNA, nel caso dei gemelli omozigoti, o il 50 per cento del DNA, in media, nel caso dei gemelli eterozigoti.

Gli studi sulle coppie di gemelli consentono di valutare anche gli effetti di altri fattori presenti nel cosiddetto ambiente condiviso, come la famiglia, la scuola, il quartiere di residenza, così come nell'ambiente non condiviso, come la classe scolastica o il gruppo di amici.

L'analisi di Jackson e colleghi ha rilevato che rispetto ai non consumatori di marijuana, i consumatori abituali partecipanti allo studio avevano, nel passaggio dalla preadolescenza all'adolescenza, una diminuzione significativa nelle misure della cosiddetta intelligenza cristallizzata, che riguarda la capacità di utilizzare competenze, conoscenze ed esperienze.

Dall'analisi, però, non è emersa alcuna correlazione di tipo dose-risposta: le dosi consumate e la frequenza del consumo, in altre parole, non risultavano proporzionali all'entità della variazione del quoziente d'intelligenza.

Questi risultati potrebbero far ipotizzare che il consumo di cannabis è in effetti un possibile fattore causale per il declino cognitivo. I dati relativi ai gemelli, tuttavia, vanno in un'altra direzione, poiché il declino cognitivo dei consumatori di marijuana non è risultato significativamente maggiore rispetto a quello dei loro gemelli. Ciò significa che vi siano fattori familiari che predispongono sia al declino cognitivo sia al consumo di marijuana negli adolescenti.



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martedì 7 marzo 2017

LA SINDROME DI STOCCOLMA



Il 23 agosto 1973 alle ore 10:15 circa, un uomo di nome Jan-Erik Olsson di 32 anni, evaso dal carcere di Stoccolma (dove era detenuto per furto) tentò una rapina alla sede della Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e prese in ostaggio tre donne e un uomo (loro erano: Elisabeth, 21 anni, cassiera e successivamente infermiera; Kristin, 23 anni, stenografa e successivamente assistente sociale; Brigitte, 31 anni, impiegata; Sven, 25 anni assunto da pochi giorni e successivamente impiegato presso un ufficio).

Olsson chiese e ottenne di essere raggiunto dal suo amico ed ex compagno di cella, Clark Olofsson, 26 anni.

La prigionia e la convivenza forzata di ostaggi e rapinatore durò 131 ore al termine dei quali i malviventi si arresero e gli ostaggi furono rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza che nei loro confronti fosse stata posta in essere alcuna azione violenta da parte del sequestratore.

Il locale in cui i fatti si svolsero, e in cui le sei persone vissero per circa sei giorni, era simile a un corridoio, lungo circa 16 metri, largo poco più di 3,5, completamente ricoperto di moquette. La vicenda conquistò le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Durante la prigionia, come risulterà in seguito dalle interviste psicologiche (fu il primo caso in cui si intervenne anche a livello psicologico su sequestrati), gli ostaggi temevano più la polizia che non gli stessi sequestratori.
Nel corso delle lunghe sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che "avevano ridato loro la vita" e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

Proprio questo paradosso psicologico prende il nome di “Sindrome di Stoccolma”, una reazione emotiva automatica, sviluppata a livello inconscio, al trauma creatosi con l'essere "vittima". Benché a livello cosciente si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia “farsi amico” il sequestratore, in realtà la “Sindrome di Stoccolma” non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La “sindrome”, rilevata e studiata poi in tutto il mondo proprio a partire dai fatti di Stoccolma (da cui il nome coniato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot), comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo “legame positivo”, tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l'ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un “NOI qui dentro” contro un “LORO che stanno fuori”.

In via preliminare, si consideri che nello sviluppo della "Sindrome di Stoccolma", sono stati individuati tre stadi: "il sentimento positivo dei prigionieri verso i loro carcerieri, collegato al sentimento negativo verso la polizia. Tale sentimento è spesso contraccambiato dai carcerieri. Per risolvere favorevolmente un caso con ostaggi, la polizia deve, perciò, incoraggiare e tollerare le prime due fasi, così da provocare la terza salvando in tal modo la vita del sequestrato".

La teoria di Sigmund Freud vede la personalità come concepita in tre maggiori sistemi:

Es (pulsioni libidiche inconsce) è l'espressione della spinta emotiva e istintiva dell'uomo che non tiene conto della realtà e della moralità. È insita in tale concetto la spinta verso la conservazione, o la distruzione (pulsioni di vita e pulsioni di morte);

Io ovvero il fattore di personalità. Nella persona “ben regolata”, l'Io controlla e governa l'Es, e mantiene i rapporti con il mondo esterno nell'interesse della personalità, nel suo insieme, e delle esigenze della stessa a lungo termine.

Super-io è la coscienza che detta all'Io i consigli per soddisfare le richieste dell'Es. Si sviluppa, di solito, grazie all'acquisizione di “ideali” e “proibizioni”, genetici o formatisi nelle fasi dell'infanzia.

I contatti con la realtà sono, pertanto, compiti dell'Io che risulta così, in una personalità sana, dinamico e pieno di risorse. Una di tali risorse, secondo Freud, è quella legata ai meccanismi di difesa da idee insopportabili o dolorose, o dagli effetti di queste. Quando l'individuo è minacciato, sarà dunque l'Io a dover affrontare la maggior quantità di stress onde consentire alla personalità di continuare a funzionare anche durante esperienze dolorose quale, ad esempio, quella di trovarsi nella condizione di ostaggio di un individuo armato; in un caso così tragico, l'ostaggio vuole sopravvivere e l'Io si pone, pertanto, alla ricerca dei mezzi per riuscirvi. Il meccanismo di difesa più frequentemente notato è quello della “regressione” ovvero il ritorno a un livello di maturità inferiore e meno aderente alla realtà comportamentale e di esperienza che si sta vivendo. Altro meccanismo difensivo è la “identificazione”, che permette all'Io di sfuggire all'ira e al danno potenziale che potrebbe essergli inflitto dal “nemico”.

Entrambi tali meccanismi entrano in funzione nella "sindrome": l'ostaggio si “identifica” nel carceriere per paura, e non certo per affetto, e "regredisce" a uno stadio infantile inferiore a quello di un bimbo di cinque anni. L'ostaggio si trova in una situazione di estrema dipendenza dal carceriere esattamente come il bambino dipendeva totalmente dalla figura paterna, o comunque genitoriale, che rappresentava controllo e sicurezza.

Se alla "famiglia" sovrapponiamo il microcosmo "ostaggio-carceriere" è facile comprendere come la polizia che punta le armi, o comunque pone in essere azioni aggressive, verso il malvivente, di fatto le punta anche contro l'ostaggio che vede nel carceriere, armato, l'unico che possa concretamente difenderlo trasformandolo, perciò, in una sorta di "eroe positivo". A ben guardare, tale azione offensiva è, in realtà, l'unico sistema di difesa che si propone e il rapinatore si trova, così, legato ad altri individui, in genere a lui sconosciuti, che finiranno per simpatizzare con lui e, in alcuni casi, addirittura a compenetrarsi nei suoi problemi, comprendendo e accettando le motivazioni che lo hanno spinto al gesto che ormai li lega e li pone dinanzi al pericolo, comune, della morte.

Dall'altra parte le forze di polizia, il cui scopo precipuo è aiutare l'ostaggio, sono palesemente in difficoltà, incerti sul da farsi e sempre bisognevoli di ricorrere ad autorizzazioni sovraordinate per qualunque richiesta venga loro rivolta; ciò contribuisce a esaltare, agli occhi delle vittime, la figura del sequestratore che, invece, appare sicuro di sé, deciso, che dimostra di avere idee chiare che trasforma in condizioni precise e sa palesare minacce concrete.

L'ostaggio reagisce come può all'estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la “negazione”. Per sopravvivere la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo.



La comparsa della sindrome dipende anche dalla personalità del sequestrato. Infatti più egli ha un carattere dominante, meno sarà predisposto nell’incorrere nella sindrome stessa.
Di solito la sindrome di Stoccolma si manifesta in personalità poco forti e non ancora totalmente strutturate, come quelle dei bambini o degli adolescenti. La sindrome può avere una durata variabile e comporta alcuni effetti psicologici, come, per esempio, disturbi del sonno, incubi, flashback, fobie e depressione.
Per la risoluzione di questi disturbi si deve ricorrere alla psicoterapia in associazione alle cure farmacologiche. In questo modo si può curare la sindrome di Stoccolma, una vera e propria sindrome vittima-carnefice.

La sindrome di Stoccolma si manifesta soprattutto quando la vittima percepisce che la sua sopravvivenza è legata al sequestratore. Inizialmente il soggetto prova uno stato di confusione e di paura per la situazione in cui si ritrova.
Dopo aver superato il trauma iniziale, comincia a cercare la soluzione per resistere alle difficoltà. Man mano che va passando il tempo, la vittima si rende conto che la sua vita dipende dal carnefice e sviluppa un meccanismo psicologico di attaccamento nei suoi confronti, per poter evitare di morire.
Inoltre la vittima comincia ad identificarsi con il carnefice, inizia a comprendere le sue motivazioni e finisce col tollerare le violenze subite. Così facendo, elimina anche il rancore che dovrebbe provare verso l’aguzzino. Allo stesso tempo da parte del rapitore si mette in atto un feedback positivo, che porta alla garanzia di maggiore sopravvivenza per la vittima.
A parte i disturbi psicologici connessi, non si può parlare di veri e propri sintomi della sindrome di Stoccolma. Più che altro essa si riconosce dai sentimenti positivi della vittima verso il rapitore e dai sentimenti negativi manifestati verso chi cerca di andare contro l’aguzzino, concependolo come tale.
Il rapporto che si instaura tra la vittima e il carnefice, anche se apparentemente è di affetto, non porta a nessun vantaggio, a differenza delle vere relazioni amorose e durature, alleate della salute mentale.

La sindrome di Stoccolma si sviluppa inconsciamente e in modo involontario.
La strategia è un istinto di sopravvivenza che si sviluppa come tentativo di sopravvivere in una situazione pericolosa.

Ogni situazione in cui una persona sviluppa la sindrome di Stoccolma è diversa. Molte persone non sono state vittime di un rapimento, ma possono aver vissuto un abuso.

Ricordare che la persona amata ha dovuto affrontare un’ardua scelta: la famiglia o quella situazione. Poiché la famiglia era minacciata, la vittima ha imparato a scegliere il rapitore e ha ferito i sentimenti dei famigliari
Più si mette la vittima sotto pressione, più difficile sarà per lei resistere, soprattutto nei casi di abuso o di violenza domestica sulle donne
Rimanere in contatto con la persona amata durante il rapporto di abusi o il recupero. Mantenere le comunicazioni il più possibile
Ricordare alla persona amata che le sue decisioni sono pienamente sostenute e che la famiglia la ama, qualsiasi cosa succeda.
Se la persona amata inizia una relazione con il rapitore / maltrattatore, ricordare che potrebbe non essere pronta per un aiuto e che sta semplicemente considerando le opzioni.





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