venerdì 26 agosto 2016

PAURA DEI TEMPORALI



In autunno piogge e temporali tornano a presentarsi con maggiore frequenza. Si tratta di fenomeni naturali in grado di suscitare intense reazioni emotive, sia negli uomini che negli animali. Sono soprattutto i lampi di luce ed i forti rumori prodotti dai fulmini ad attrarre l’attenzione: molte persone apprezzano un tale spettacolo della natura, tanto che spesso si soffermano accanto ad una finestra a guardare di fuori, come ipnotizzati.

All’estremo opposto, c’è chi sviluppa delle vere e proprie fobie legate ai temporali. Brontofobia, astrafobia, tonitrofobia, ceraunofobia, cheimofobia sono termini che indicano una paura dei tuoni e dei lampi, percepita come eccessiva ed incontrollabile.

La ceraunofobia è una fobia specifica di tuoni e fulmini, comune nell'essere umano, specialmente tra i bambini e presente anche nei cani e nei gatti.

Altri termini utilizzati per indicare questa fobia sono la brontofobia, dal greco brontee (tuono) e la tonitrofobia, dal latino tonitrus (tuono), specifici dei tuoni, e la astrafobia, dal latino astrum (astro), relativo più genericamente a tuoni e fulmini.

I sintomi, come per le altre fobie, includono attacchi di panico, difficoltà respiratorie, tachicardia, sudorazione e nausea.

Molti di coloro che soffrono di ceraunofobia cercano di sfuggire alla causa della paura: durante un temporale i bambini si nascondono solitamente in luoghi senza finestre, come il sottoscala, l'armadio o sotto il letto. Analogamente, adulti e adolescenti adottano lo stesso meccanismo e cercano riparo in ogni luogo in cui non si vede né si sente il temporale.

Il trattamento, al pari delle altre fobie, consiste nell'esporre gradualmente il paziente alla fobia stessa, facendolo respirare lentamente.

Un altro sintomo piuttosto comune è l’ossessione per le previsioni del tempo. Chi soffre di questo tipo di fobie può restare incollato ai canali televisivi o ai siti internet che forniscono informazioni meteorologiche, durante tutto il periodo invernale. Si può arrivare a non uscire di casa, senza aver prima controllato le previsioni, poiché si vive con l’angoscia che il temporale possa scoppiare in qualsiasi momento.

I temporali hanno il potere di risvegliare paure ancestrali, legate alla nostra vita preistorica in un ambiente fondamentalmente ostile, con scarse protezioni. L’uomo ha imparato a temere tutto ciò che costituiva un pericolo reale per la sopravvivenza, compresi i fenomeni atmosferici capaci di provocare danni o morte.

Oggi, tuttavia, nella maggior parte dei casi, il temporale per noi non è veramente pericoloso. L’insorgenza di una fobia legata a questo evento, dovrebbe quindi indurci ad ulteriori riflessioni. Se, a causa del timore di tuoni e lampi, cominciamo ad evitare trasferte di lavoro o luoghi di villeggiatura, se in macchina ci blocchiamo al solo pensiero che tra poco pioverà, se continuiamo ad essere terrorizzati anche in casa nostra, allora dovremmo ricorrere alla consulenza dello specialista.

Le fobie specifiche, come quelle per i fenomeni atmosferici, sono legate ad esperienze di apprendimento disfunzionali, a volte talmente precoci da non essere ricordate, per cui il soggetto associa involontariamente la caratteristica della pericolosità ad una situazione innocua, imparando a temerla e ad evitarla. Così il disturbo può mantenersi inalterato anche per anni.



«In parte è un timore realistico che risale alla notte dei tempi, quando gli uomini si rifugiavano nelle caverne per ripararsi dalle intemperie», spiega uno psichiatra. «E proiettavano questa paura nella religione: era proprio la saetta l’arma principale di Zeus, il padre degli dei, per punire chi trasgrediva le regole».
Tutti i bambini chiamano la mamma nelle notti di tempesta, per farsi rassicurare. Ma ci sono adulti che continuano a sentirsi indifesi davanti a tuoni e lampi. Come se avessero ancora bisogno di essere protetti dai genitori. «Sono persone che di solito non hanno risolto l’ansia da separazione, cosa che di norma avviene all’età dell’ingresso alla scuola materna o elementare, quando si scopre il mondo esterno alla famiglia», continua l'esperto. «Oppure individui che hanno bisogno di controllare tutto: spesso esigono da se stessi e dagli altri un ordine ossessivo e non tollerano, perciò, eventi atmosferici che non padroneggiano».

«Se la crisi accade una decina di volte l’anno, basta distrarsi ascoltando musica (lo stereo e non la radio, durante un temporale è meglio spegnere gli apparecchi dotati di antenne)», consiglia lo psichiatra. Le note permettono di non concentrarsi sui rumori dei tuoni e di rilassarsi.
Il ricorso allo specialista è indicato quando la brontofobia interferisce troppo con la vita quotidiana. Per esempio, se la persona che ne soffre inizia a evitare trasferte di lavoro «per paura che là piova troppo», boicottando opportunità di carriera. O se elimina vacanze in località particolarmente soggette a piovaschi. O se vive nella costante preoccupazione che il temporale possa scoppiare in qualsiasi momento e tende a tapparsi in casa e a chiudere le tapparelle alla prima nuvola. Allora è indicata una psicoterapia cognitiva, che dura un anno circa. Possono essere prescritti anche farmaci ansiolitici, come le benzodiazepine.



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giovedì 25 agosto 2016

NON sento CALDO, NON sento FREDDO



Esistono, ma sono persone colpite da una rarissima malattia ereditaria che impedisce al sistema nervoso di formarsi completamente e al corpo di percepire gli stimoli del dolore e della temperatura. Si chiama disautonomia familiare di quarto tipo e ne sono stati accertati circa 300 casi nel mondo. I sintomi compaiono subito dopo la nascita: quando la temperatura esterna supera i 25 gradi, il bambino sviluppa febbre altissima che porta a svenimenti e convulsioni, e quando spuntano i primi denti, si procura lesioni mordendosi involontariamente e ripetutamente la lingua. Il bambino affetto da questa malattia non potrà mai sentire né dolore, né caldo, né freddo: di conseguenza, non sarà mai avvertito dei pericoli che corre il suo corpo in ogni azione quotidiana.

Diagnosticata in età precoce, questa malattia comporta evidenti difficoltà da parte del soggetto di regolare i propri comportamenti e può portare il soggetto a contrarre traumi o malattie che vengono però riconosciuti con difficoltà a causa proprio della mancanza di dolore. Il soggetto deve essere sottoposto a particolari cure e attenzioni per evitare ferite interne che degenerino fino alla morte senza possibilità di intervenire. Il sistema nervoso è privo di nervi sensoriali, per questo non sente né il caldo né il freddo, ma comunque il soggetto possiede tutto il resto del sistema nervoso e può camminare e svolgere qualsiasi attività.

L'insensibilità congenita al dolore con anidrosi può essere scambiata per la lebbra, sulla base dei sintomi simili di gravi lesioni alle mani e piedi.

La CIPA è causata da una mutazione genetica che impedisce la formazione delle cellule nervose che sono responsabili della trasmissione dei segnali di dolore, caldo e freddo al cervello. La malattia è autosomica recessiva. Non sembra avere alcuna particolare distribuzione etnica, anche se è più diffusa in culture in cui il meticciato è una pratica accettata. L'ipertermia uccide più della metà di tutti i bambini con CIPA prima dei 3 anni.

La mutazione genetica è nel gene che codifica il recettore tirosin chinasico neurotrofico (gene NTRK1). NTRK1 è un recettore per il nerve growth factor (NGF o fattore di crescita nervosa). Questa proteina induce la formazione di assoni e dendriti e promuove la sopravvivenza dei neuroni embrionali sensoriali e simpatici. La mutazione dell'NTRK1 non consente di legare NGF correttamente e può causare difetti nello sviluppo.



I trattamenti suggeriti per il CIPA non sempre funzionano, però, vi sono alcuni casi in cui naloxone può essere usato come trattamento. Il naloxone è una sostanza chimica che agisce all'interno del sistema nervoso.

La maggior parte dei bambini affetti da questo disturbo non vive oltre i 3 anni di età e raramente passano i 25 anni. La ragione della breve vita è spesso legata all'incapacità del malato di sudare, e ciò porta a ipertermia, alla quale i bambini sono particolarmente sensibili. I segni vitali devono essere strettamente monitorati poiché i pazienti non sono generalmente in grado di avvertire qualcosa che non va.




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domenica 21 agosto 2016

LA RABBIA


La rabbia è conosciuta fin da circa il 2000 a.C. La prima testimonianza scritta della condizione si trova nelle "Leggi di Eshnunna", scritte in Mesopotamia intorno al 1930 a.C., che impongono al proprietario di un cane che mostra i sintomi di prendere misure preventive contro i morsi, erano state stipulate delle punizioni per le persone proprietarie di un “kalbum segum” (un cane rabbioso). Il virus della rabbia compare pure nel “Sushruta Samhita” una guida medica indiana databile 400 anni prima della venuta di Cristo: esso identifica correttamente molti aspetti della malattia: il morso da parte di un animale causa all'uomo la perdita delle sue facoltà umane.

Omero descrisse Ettore come un uomo con un irrefrenabile coraggio marziale dovuto a qualcosa che va oltre alla stessa rabbia come emozione, ma più di tutti il personaggio di Lyssa (“lycos”-“lupo”) descritto come crudo, terrificante, violento e “animalescamente” distruttivo nei confronti degli altri. Nei primi 2 secoli dopo Cristo l'antica tradizione medica Greco-Romana iniziò a cercare di capire questa malattia: il primo fu Cornelio Celso il quale nel suo “De Medicina” collegò il sintomo dell'idrofobia alla malattia della rabbia.

Dopo circa 100 anni emerse la scuola dei “metodisti”, un gruppo di menti scientifiche i quali non solo migliorarono la comprensione della rabbia, ma quella di molte altre malattie. Il fondatore della scuola, “Temisone”, e un suo discepolo erano famosi per esser sopravvissuti all'attacco e al morso di un cane rabbioso. Il primo vero metodista che parlò di rabbia fu “Sorano” il quale riconobbe che il contatto con l'animale poteva essere l'unico motivo dell'idrofobia. Descrisse in oltre alcuni sintomi come il polso irregolare, la febbre, l'incontinenza, il tremore e l'involontaria eiaculazione.

Nel medioevo il concetto della trasmissione di una malattia da parte degli animali era ancora oscuro. Le uniche due malattie di cui avevano ipotizzato il contagio tramite un animale erano la rabbia (dai cani) e il carbonchio (dal bestiame). La trasmissione di queste malattie da animale a uomo si è velocizzata a causa dell'aumento dell'urbanizzazione e dell'agricoltura e nel 15° secolo un terzo fattore ha portato le persone a contatto con le più gravi malattie della storia: i viaggi nell'oceano.

Durante il medioevo, i primi veri cambiamenti riguardo alla comprensione della rabbia si hanno grazie al mondo islamico. I tre principali esponenti della medicina islamica furono: Al Razi, Avicenna e Ibn Zuhr. Il primo ebbe personali esperienze di contatto con malati di rabbia: “c'erano con noi in ospedale una sorta di uomo che abbaiava la notte e poi morì. Un altro non beveva acqua, ma quando dell'acqua gli veniva portata, non ne aveva paura,ma diceva: “puzza, e lo stomaco di gatti e cani è la dentro”. Poi un altro paziente quando vedeva l'acqua rabbrividiva e tremava finché non gli era portata via”. Egli preferiva trattare il morso cauterizzandolo e scarnificandolo. Ibn Zuhr successivamente scrisse un trattato chiamato “Sui mali furiosi”, ma i veri progressi ci furono con Avicenna, il quale nel suo quarto libro scrisse che secondo lui il caldo e il freddo aiutavano a fomentare la malattia nei cani. Inoltre egli attribuì la causa del contagio della malattia al consumo di acqua e carne infetta.

Successivamente durante i giorni dell'inquisizione, verso la fine del XV secolo, una misteriosa confraternita di curatori girava di città in città, offrendo protezione contro la rabbia. Si facevano chiamare i “Saludadores”, dotati di poteri donati direttamente dai santi. I Saludadores potevano annullare quel morso nocivo spesso attraverso la loro saliva o il loro respiro. Naturalmente l'inquisizione cominciò a considerarli eretici e l'ordine ufficiale fu quello di distruggere questa confraternita. Alcuni membri furono catturati e sotto tortura confessarono che si trattava di una enorme frode.

La rabbia sembra abbia aver avuto origine nel Vecchio Mondo, la prima diffusione tra gli animali nel Nuovo Mondo si verificò a Boston nel 1768. Iniziando da lì, nel corso degli anni si spostò in diversi altri Stati, nonché alle Antille francesi, fino a diventare comune in tutto il Nord America.

Nel XIX secolo, la rabbia era considerata un flagello per la sua prevalenza. In Francia e in Belgio, dove si venerava Sant'Umberto, la "chiave di Sant'Umberto" veniva riscaldata e applicata per cauterizzare la ferita. Inoltre, la credenza popolare faceva sì che i cani venissero marchiati con la chiave nella speranza di proteggerli dalla rabbia. La paura della malattia era quasi irrazionale, per via del numero insignificante dei vettori (per lo più cani rabbiosi) e l'assenza di qualsiasi trattamento efficace. Non era raro che una persona morsa da un cane, ma che era solo sospettato di essere rabbioso, si suicidasse o fosse uccisa da altri. Ciò permise a Louis Pasteur, a partire dal 1885, ampie opportunità di provare trattamenti post-esposizione. Nei tempi antichi era praticato il fissaggio del frenulo linguale, una membrana mucosa, che veniva tagliata e rimossa, in quanto si pensava che fosse all'origine della malattia. Questa pratica è cessata con la scoperta della vera causa della rabbia.

Nei tempi moderni, la paura della rabbia non è diminuita e la malattia e i suoi sintomi (soprattutto il delirio) hanno ispirato numerose storie di zombie o a tema simile, spesso raccontando di un virus della rabbia reso più potente e che trasforma gli esseri umani, con rabbia omicida o malattia inguaribile, determinando un devastante pandemia diffusa.

Durante l'epoca Greco-Romana, Celso ipotizzò vari rimedi per il trattamento del morso: oltre alla cauterizzazione, l'applicazione di sale e cetriolini in salamoia nella ferita. Bisognava inoltre mandare il paziente in un bagno turco in maniera tale da farlo sudare fino al limite della sopportazione per permettere alla ferita di espellere il veleno della rabbia. Dopo di ciò il dottore doveva applicare del vino sul morso.
Plinio il giovane fu il primo ad ipotizzare l'utilizzo dell'animale per curare l'uomo: inserire nella ferita le ceneri dei peli della coda del cane che ha inflitto la ferita; la stessa testa dell'animale a volte veniva ridotta in cenere e applicata sulla ferita.
Lo stesso Plinio ipotizzò una cura per l'idrofobia : bisogna mettere il paziente in zone speciali con aria "buona", massaggiare gli arti e coprirlo con vestiti puliti e caldi nei punti affetti da spasmi.
La cura più calzante probabilmente la offre Celso: bisogna buttare il paziente in acqua e se egli non può nuotare affonderà e berrà acqua, mentre se può nuotare deve essere spinto sott'acqua finché non ne berrà un po'. Così la paura e la sete verranno sconfitte contemporaneamente.

La Rabbia è una zoonosi ad alta letalità (ovvero i soggetti colpiti spesso muoiono) provocata da un virus.
Come tutte le zoonosi, la rabbia si può trasmettere dagli animali all'uomo.
Quando compaiono i sintomi della Rabbia ormai il soggetto colpito (uomo/animale) è destinato a perire, in quanto i danni provocati dal patogeno sono irreversibili.
La rabbia colpisce praticamente tutti i vertebrati omeotermi ("a sangue caldo"), anche se generalmente sono gli animali con un apparato dentario ben sviluppato (cani, volpi) ad essere più a rischio, in quanto la malattia si trasmette principalmente attraverso il morso.



Il virus che provoca la Rabbia è un virus a RNA, che fa parte dell'ordine dei Mononegavirales; appartiene alla famiglia dei Rhabdoviridae e al genere Lyssavirus. Di questo si riconoscono 7 genotipi (distinti in base alla sequenziazione genetica) e 4 sierotipi (distinti in base alla siero neutralizzazione, ovvero con l'utilizzo di anticorpi). Il sierotipo più diffuso in Europa è il tipo 1 (detto virus strada), che colpisce sia carnivori domestici che selvatici.
Il virus responsabile della Rabbia  resiste poco al di fuori dall'ospite (animale colpito); infatti risulta essere sensibile a diversi solventi, ai detergenti dei lipidi e ai raggi solari. Inoltre ci sono diversi disinfettanti che possono inattivarlo, tra cui i sali quaternari d'ammonio, iodofori al 7% e saponi all'1%; questi prodotti si possono applicare direttamente anche sulle ferite come primo intervento dopo un morso di un animale sospetto.

La trasmissione del virus avviene principalmente attraverso il morso dell'animale infetto a quello sano, in quanto il patogeno si localizza nelle ghiandole salivari e perciò viene eliminato con la saliva.
Altre modalità di trasmissione della malattia (anche se rare) possono essere rappresentate dal contagio mediante aerosol (possibile in ambienti chiusi e con alta concentrazione del virus), o attraverso la via orale (in questo caso sono necessarie delle microlesioni nella bocca in quanto il virus, se giunge nello stomaco, viene inattivato dal pH acido).

La Rabbia è considerata una malattia a diffusione mondiale. Risulta assente ai poli ed in Paesi come Regno Unito, Finlandia, Svezia, Grecia, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Spagna, Portogallo e Italia (anche se nel Veneto, Friuli e Trentino sono stati trovati, recentemente, alcuni casi di Rabbia).
Potenzialmente il virus può colpire tutti gli animali a sangue caldo (mammiferi e uccelli), ma a seconda della specie animale coinvolta, vengono distinti due diversi cicli epidemiologici (di diffusione) della Rabbia: ciclo urbano e ciclo silvestre.
Il ciclo urbano si identifica tra gli animali domestici (quali gatto, ma in particolar modo il cane) e trova nel fenomeno del randagismo (cani che vivono in strada e spesso vengono in contatto anche con animali selvatici) la principale fonte di conservazione e trasmissione del virus.
Il ciclo silvestre, invece, vede coinvolte nella trasmissione del virus diverse specie animali, a seconda dell'area geografica interessata: in Europa abbiamo principalmente la volpe (seguono roditori e pipistrelli), che mantiene attivo il ciclo della Rabbia silvestre perché trasmette il virus prima che compaiano i sintomi, in quanto la malattia ha un lungo periodo d'incubazione (periodo che intercorre tra il contagio e la comparsa dei sintomi); la volpe, inoltre, è abituata a compiere ampi spostamenti.
La mangosta rappresenta l'unica riserva di Rabbia nell'area dei caraibi.
In Russia e medio oriente il serbatoio è rappresentato dal lupo, negli USA dal coyote, in centro/nord America dai pipistrelli e nel sud America dai vampiri; in Africa, infine, l'animale serbatoio della Rabbia è lo sciacallo.

L'animale infetto, tramite la morsicatura, trasferisce con la saliva il virus all'animale sano che viene morso.
Generalmente, il punto di penetrazione del virus (corrispondente al punto in cui si viene morsi) è un arto, o comunque una zona ricca di muscoli dove c'è, per breve tempo, un'iniziale replicazione del patogeno.
Successivamente il virus della Rabbia migra per via meccanica, attraverso le strutture che innervano il muscolo colpito (i prolungamenti dei neuroni che nel loro insieme formano il nervo), per raggiungere il midollo spinale. Da qui, dopo essersi ulteriormente replicato, raggiunge l'encefalo. Questa fase dell'infezione è definita migrazione centripeta del virus, perché dalla periferia (punto di penetrazione), si porta a livello centrale (cervello).
A questo punto inizia la cosiddetta migrazione centrifuga: ovvero il virus della Rabbia, che si è localizzato nell'encefalo, tramite il nervo che termina sulle ghiandole salivari, le raggiunge, replicandosi massivamente. Giunti a questa fase, l'animale, anche se non mostra sintomi evidenti, può già eliminare il virus della Rabbia con la saliva.
Per concludere, il virus si diffonde poi a tutto il sistema nervoso centrale, determinando fenomeni paralitici che porteranno a morte per asfissia (impedimento delle normali funzioni respiratorie), conseguente a paralisi respiratoria.

Dal 1997 e fino all’ottobre 2008, l’Italia è stata considerata libera da rabbia (rabies free). Successivamente, secondo i dati dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie (IZSVe), dal 2008 a febbraio 2010, sono stati diagnosticati centinaia di casi di rabbia in animali in Friuli-Venezia Giulia, in Veneto e nella Provincia Autonoma di Trento. I casi di rabbia diagnosticati sono da mettere in stretta correlazione con la situazione epidemiologica della rabbia silvestre nella vicina Slovenia.

Nel corso del 2009 e inizio 2010 l’epidemia si è diffusa in direzione Sud-Ovest, comprendendo il Friuli Venezia Giulia, il Veneto in particolare la provincia di Belluno, fino ai casi più recenti riscontrati nella provincia di autonoma di Trento.

La prevalenza dei casi ha interessato gli animali selvatici, per lo più le volpi, che rappresentano il principale serbatoio della malattia, ed alcuni caprioli e tassi. Sono stati riscontrati positivi anche animali domestici tra cui cani, gatti, un cavallo ed un asino.

In generale, la letteratura scientifica disponibile è concorde nell’affermare che il controllo della rabbia si identifica nella rigorosa attuazione degli interventi codificati da norme di polizia veterinaria, specificamente mirati alla protezione dell’uomo nei confronti della malattia.

La prevenzione nei confronti della rabbia si basa sulla vaccinazione preventiva degli animali domestici, sulla lotta al randagismo e su altri provvedimenti finalizzati a impedire contatti a rischio con le popolazioni selvatiche.

Per quanto riguarda la prevenzione della rabbia negli animali è importante :
la vaccinazione antirabbica (obbligatoria o volontaria a seconda del dato epidemiologico) degli animali domestici, la lotta al randagismo e l’attuazione di provvedimenti coercitivi (cattura ed eventuale abbattimento)  al fine di realizzare, attorno all'uomo, un anello di protezione costituito da animali domestici non recettivi e, quindi, incapaci di trasmettere l'infezione (prevenzione del ciclo urbano della malattia); la vaccinazione orale dei carnivori selvatici, volpi in particolare, introdotta da più di un decennio in alcuni paesi europei.

A seguito di tale misura è stato osservato un significativo decremento dell'incidenza della malattia, rilevato attraverso piani di sorveglianza sul serbatoio selvatico (prevenzione e controllo del ciclo silvestre della malattia).

Nell’uomo, la prevenzione della malattia si basa sulla vaccinazione preventiva per chi svolge attività professionale “a rischio specifico” (veterinari, guardie forestali, cinovigili, guardie venatorie ecc.), sulla vaccinazione pre-contagio e sul trattamento vaccinale post-esposizione che sarà considerato di volta in volta in funzione della tipologia di esposizione verificatasi.

Le linee guida Oms individuano tre tipologie di esposizione:
- contatto di una superficie cutanea intatta con animali, con le loro mucose o con il loro cibo (se la ricostruzione dei fatti è attendibile, non c’è esposizione e quindi non è necessaria una profilassi);
- graffi minori o abrasioni senza sangue o leccate di animali su pelle tagliata e piccoli morsi su pelle abrasa (si consiglia sola la vaccinazione), morsi singoli o multipli transdermici, graffi o contaminazione della membrana della mucosa con saliva o contatti sospetti con pipistrelli (in questo caso si devono somministrare sia le immunoglobuline, che il vaccino).

Le cure post-esposizione per prevenire la rabbia includono la pulizia e la disinfezione della ferita o dei punti di contatto e la somministrazione precoce della vaccinazione (se necessaria), senza aspettare i risultati dei test diagnostici di laboratorio e, comunque, senza ritardi per l’osservazione dell’animale sospetto. Per quanto riguarda le immunoglobuline, non ci sono limiti di tempo alla somministrazione. La maggior parte delle immunoglobuline deve essere somministrata in profondità nella ferita, mentre la parte restante, se avanza, dovrebbe essere iniettata in un altro sito muscolare aggiuntivo lontano dalla ferita. L’Oms raccomanda, infine, l’osservazione dell’animale sospetto per 10 giorni, perché i primi sintomi nei cani e nei gatti non sono molto specifici. Francia, Spagna e Inghilterra raccomandano 14 giorni di osservazione.

All'insorgenza dei sintomi neurologici la rabbia non è curabile.

La diagnosi clinica della rabbia non è affidabile. La diagnosi definitiva può essere fatta solo con l’esame di laboratorio. La diagnosi post-mortem è effettuata sul SNC e comprende come test di elezione l’immunofluorescenza diretta (FAT) e l’isolamento del virus in coltura cellulare (RTCIT). La RT-PCR e le altre tecniche di amplificazione sono di solito utilizzate come test di conferma.

La diagnosi intra-vitam è utilizzata spesso nell’uomo a partire da saliva, urina, liquido cefalorachidiano e biopsia cutanea effettuata sulla nuca e prevede tecniche di FAT, RTCIT e RT-PCR. L’ulteriore caratterizzazione dell’isolato virale avviene mediante sequenziamento o l’utilizzo di anticorpi monoclonali.



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sabato 20 agosto 2016

IL MORSO DELLA TARANTOLA



Le tarantole fanno venire i brividi a molti per i loro corpi e le loro zampe, grossi e pelosi. Ma questi ragni sono innocui per l'uomo (a parte un morso doloroso), e in media il loro veleno è più debole di quello di una comune ape. Tra gli appassionati di aracnidi, questi ragni sono diventati dei popolari animali da compagnia.

Il nome tarantola venne usato per la prima volta nella provincia di Taranto verso la fine del '400 riferendosi alla Lycosa tarantula (comunemente chiamato ragno lupo).

La credenza voleva che il morso di questo ragno provocasse una condizione patologica, detta tarantismo, caratterizzata da una situazione di malessere generale e una sintomatologia simile all'epilessia. Si riteneva fosse possibile neutralizzare gli effetti del veleno saltando e sudando copiosamente: da ciò nacque la credenza popolare che la danza potesse guarire dalla malattia. Il termine taranta è infatti anche usato come sinonimo di "pizzica", la danza e il genere musicale generato e culturalmente connesso al tarantismo.

In realtà il morso della Lycosa tarantula, è pressoché innocuo per l'uomo; più credibile appare essere l'ipotesi che le pinzature con gravi effetti sistemici sul corpo umano potessero essere probabilmente attribuibili alla malmignatta, ragno molto meno "vistoso" ma dal veleno ben più temibile e con effetti neurotossici compatibili con il quadro sintomatico del taratismo. La malmignatta (appartiene infatti al genere Latrodectus, le famigerate "vedove nere") ed il suo veleno, sebbene non potente come quello di altri esemplari esotici, è effettivamente il più pericoloso tra quelli dei ragni italici.

Allorquando i primi esploratori europei giunti nelle Americhe scoprirono i ragni giganti della futura famiglia Theraphosidae li chiamarono tarantole per via delle loro grosse dimensioni e della vaga somiglianza alla Lycosa.

L'unico ragno appartenente alla famiglia Theraphosidae presente in Italia è Ischnocolus valentinus
Nonostante le loro dimensioni spesso considerevoli, ben poche tarantole possono essere considerate pericolose per l'uomo. In generale possiedono un veleno piuttosto blando.

Non tutte le tarantole sono di grosse dimensioni, in base alla specie la lunghezza del corpo può variare dai 2,5–10 cm con 8–30 cm di legspan (lunghezza considerando comprese le zampe). Le più grosse appartengono al genere Theraphosa: Theraphosa blondi e Theraphosa apophysis, originarie del Venezuela, possono superare anche i 100 grammi di peso ed i 33 cm di lunghezza.

In genere le femmine sono di corporatura più robusta (soprattutto l'addome), di dimensioni maggiori ed hanno anche una maggiore longevità (anche oltre i 20 anni).

La maggior parte delle tarantole è di colore scuro (marrone o nero), comunque qualche specie è caratterizzata da colorazioni più vivaci come il blu cobalto dell'Haplopelma lividum, i colori metallizzati dell'Avicularia versicolor oppure i colori zebrati della Brachypelma smithi e dell'Acanthoscurria geniculata.

Il corpo delle tarantole si può suddividere in due sezioni principali: la parte anteriore prosoma (anche chiamato cefalotorace) e l'addome chiamato opistosoma.

La superficie del prosoma viene definita carapace, al centro del quale si trova la fossa foveale, piccola depressione dove congiungono i vari muscoli. Nella parte frontale trovano posto gli otto occhi disposti in due file.

Nell'addome trovano posto l'ano e gli opercoli branchiali, ovvero la parte esterna dei quattro polmoni a libro.

Di fronte agli occhi partono due appendici chiamate cheliceri terminanti con gli aculei veleniferi, questi oltre ad essere utilizzati per immobilizzare le prede vengono anche usati per scavare o spostare piccoli oggetti (per esempio il sacco ovigero).

All'esterno dei cheliceri si trovano i pedipalpi, appendici dall'aspetto quasi identico alle zampe, ma con un segmento in meno. I pedipalpi vengono usati durante l'alimentazione e come strumenti tattili, nei maschi questi acquistano anche la funzione di organi sessuali secondari.

Dopo i pedipalpi ci sono quattro paia di zampe, suddivise in sette segmenti: coxa, trocantere, femore, patella, tibia (con sperone tibiale nei maschi di molte specie), metatarso e tarso.

Le uniche appendici non collegate al prosoma sono le filiere (o spinner) che sono dislocate nella parte conclusiva dell'ophistosoma.



Oltre ai normali peli sul corpo alcune tarantole di origine americana hanno anche dei peli urticanti che possono utilizzare come difesa in caso non riescano a fuggire dal pericolo. Oltre ad essere lanciati contro possibili aggressori i peli urticanti vengono usati per marcare il territorio oppure messi ai bordi della tana aiutano a scoraggiare eventuali predatori, specie durante la muta.

Generalmente vivono in tane scavate nel terreno. Sono lente e calcolatrici nei movimenti, ma abili predatrici notturne. Gli insetti sono la loro preda principale, ma puntano anche a bersagli più grossi come rane, rospi e topi. Il ragno mangiatore di uccelli del Sudamerica, come dice il nome, è in grado di cacciare piccoli volatili. Le tarantole non usano reti per intrappolare la preda, anche se possono tessere un filo che segnali quando qualcosa si avvicina alla tana. Questi ragni catturano con le proprie appendici, iniettano un veleno paralizzante e liquidano la sfortunata vittima con le loro zanne.

Secernono anche degli enzimi digestivi per liquefare i corpi dei malcapitati per poterli risucchiare attraverso l'apertura orale a forma di cannuccia. Dopo un grosso pasto, una tarantola può non sentire il bisogno di mangiare per un mese. Le tarantole hanno pochi nemici naturali, ma le vespe parassita pepsis sono una pericolosa eccezione. Questo tipo di vespa paralizza la tarantola con il pungiglione e depone le uova sul suo corpo. Quando le uova si schiudono, le larve si nutrono della tarantola ancora viva.

In base al tipo di nemico i peli possono dimostrarsi mortali oppure un semplice deterrente. Nelle persone gli effetti si limitano ad un prurito nella zona colpita, ma maggiori problemi si hanno nel caso in cui vengano a contatto con gli occhi, vengano inalati oppure vi sia un'allergia a questi. Risultano invece ben più pericolosi per i piccoli predatori che infastidiscono il ragno.

Alcune specie, come Pelinobius muticus, posseggono peli stridulanti che se strofinati gli permettono di creare un forte rumore in modo da scoraggiare eventuali assalitori.

Le tarantole sono predatori crepuscolari, attendono le loro prede all'ingresso della tana per poi ucciderle iniettando il veleno attraverso gli aculei veleniferi. Nonostante la loro scarsa abilità visiva, in genere limitata a luci e ombre, riescono ad essere molto precise grazie ad un'estrema sensibilità alle vibrazioni che viene spesso migliorata utilizzando della tela all'esterno del rifugio. In base alle vibrazioni percepite il ragno decide se l'animale è un pericolo oppure una possibile preda.

La dieta tipica è formata da insetti come grilli (per le specie terricole) oppure falene (per le specie arboricole). In rari casi possono anche catturare piccoli mammiferi come topi oppure piccoli uccelli o pesci.

Vivono generalmente in solitudine e sono cannibali, alcune specie come l'Avicularia avicularia sembrano però più tolleranti alla presenza di un altro esemplare nella loro zona.

Le tarantole vivono in diversi tipi di tane. Le specie terricole usano spesso scavarsela nella terra, utilizzare un rifugio abbandonato da qualche altro piccolo animale oppure qualche cavità sotto rocce o alberi caduti. Il buco ed il suo ingresso vengono poi ricoperte dalla tela, sia per protezione che per la caccia.

Le specie arboricole, disponendo di un'agilità maggiore, abitano invece in ragnatele generalmente di forma tubolare costruite su alberi o piante.

Come gli altri ragni, le tarantole per crescere devono cambiare periodicamente il loro esoscheletro, con un processo chiamato muta. I piccoli possono fare la muta anche qualche volta all'anno, mentre gli adulti lo fanno generalmente annualmente. Cambiando esoscheletro hanno inoltre la possibilità di recuperare zampe perse o denti rotti. Le tarantole impiegano solitamente tra i 2 ed i 5 anni per raggiungere l'età adulta, ma alcune specie possono impiegarci anche una decina di anni.

Solitamente solo le femmine continuano a mutare una volta adulte ottenendo dunque una longevità molto superiore ai maschi.

Una volta adulti agli esemplari maschi restano solamente 1 o 2 anni di vita e partono immediatamente alla ricerca di una femmina con cui accoppiarsi. Il processo di riproduzione è, come per gli altri ragni, piuttosto diverso da quello dei mammiferi. Il maschio rilascia il suo seme su una ragnatela (tela spermica) per poi assorbirlo attraverso i suoi pedipalpi (come delle piccole zampe situate nella parte frontale, usate anche per funzioni tattili). Trovata la tana di una possibile partner, inizia il corteggiamento tamburellando con le zampe anteriori per far capire le proprie intenzioni e per assicurarsi di essere della stessa specie. Se la compagna è disposta ad accoppiarsi inizierà a sua volta a tamburellare.

Dopo i preliminari il maschio inserirà i suoi pedipalpi nella spermateca (una fessura ellittica presente nell'addome della femmina) per rilasciare il suo seme.

Terminato l'accoppiamento il maschio dovrà scappare velocemente o rischierà di essere mangiato.

Dopo l'accoppiamento, in base alla specie, verranno depositate dalle 50 alle 2000 uova che saranno controllate dalla madre per 6/7 settimane. Una volta schiuse le uova i piccoli di ragno (spiderling) rimarranno nelle vicinanze per qualche tempo per poi disperdersi in tutte le direzioni.

Le tarantole sono tenute da alcuni come animali domestici per via della loro silenziosità, dello spazio ridotto di cui necessitano, delle poche cure necessarie, dell'assenza di cattivi odori e del loro basso costo.

Generalmente le specie più consigliate per i novizi sono la Grammostola rosea (anche chiamata Chilean Rose) oppure quelle appartenenti alla famiglia Brachypelma (che però sono soggette a controlli CITES). Il carattere in genere mansueto, la facilità di garantirgli parametri ambientali corretti e la facile reperibilità sul mercato fanno di queste tarantole un ottimo punto di partenza.

Il terrario, in vetro o plastica per gli esemplari più piccoli, va scelto in base al tipo di ragno: terricolo, arboricolo o scavatore.

L'altezza non dev'essere eccessiva per i ragni terricoli (al massimo 30 cm dal substrato, per minimizzare il rischio cadute) mentre dev'essere maggiore per i ragni arboricoli (40–80 cm) in modo che possano arrampicarsi e creare le loro ragnatele tubulari.

Generalmente come substrato è consigliato qualche centimetro di torba irlandese, che non dove essere assolutamente concimata e/o trattata. Per i ragni scavatori tale substrato dovrà essere aumentato fino a 20/40 cm. Come decorazione si può posizionare un sasso liscio al centro del terrario per evitare che il ragno cadendo dalle pareti lo colpisca. Per le specie arboricole non devono mancare cortecce o altri materiali per arrampicarsi e poter creare le loro tele.

Ogni specie necessita di una temperatura media e un'umidità relativa particolari. Per quanto riguarda la temperatura si possono utilizzare tappetini riscaldanti oppure cavetti termici, entrambi da utilizzare all'esterno del terrario. Per l'umidità spesso viene utilizzato un recipiente d'acqua abbinato a delle spruzzate tramite vaporizzatore.

La legge nº 213 del 1º agosto 2003 sancisce che "È vietato a chiunque, detenere, commercializzare, importare, esportare o riesportare tutti gli esemplari vivi di aracnidi selvatici, ovvero provenienti da riproduzioni in cattività, che possono arrecare, con la loro azione diretta, effetti mortali o invalidanti per l'uomo o che comunque possono costituire pericolo per l'incolumità pubblica."

Non ci sono prove di morti causate dal morso di tarantole agli umani.

La documentazione riguardante gli effetti dei morsi di tarantole è piuttosto scarsa, comunque per molte specie gli effetti sono inferiori ad una semplice puntura di vespa.

A parte il dolore, l'unico pericolo è la possibilità di una reazione allergica o di infezione,molto rara.

Prima di attaccare la tarantola generalmente assume una posizione di avvertimento alzando la parte anteriore del corpo mostrando chiaramente i suoi aculei veleniferi e, in alcune specie, emettendo un suono stridulo. Se questo avvertimento non bastasse a scoraggiare il nemico, si gira per lanciare i peli urticanti eventualmente presenti sull'addome. Solo a questo punto e solo se impossibilitata alla fuga la tarantola scatta velocemente per infliggere il morso.

In uno speciale del National Geographic è stato illustrato come alcune tribù delle Amazzoni cacciano e cucinano le tarantole. I ragni vengono catturati con l'ausilio di un bastone e le loro zampe legate assieme per poi essere arrostiti ancora vivi.

La Theraphosa blondi è considerata una prelibatezza dagli indigeni Piaroa del Venezuela.

Altro luogo in cui la tarantola è diffusa come cibo è la Cambogia.



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mercoledì 10 agosto 2016

CISTI TENDINEE



Una cisti tendinea, o cisti sinoviale, è un rigonfiamento o una sacca contenente liquido, di natura non cancerosa, che prende corpo in prossimità di un'articolazione o un tendine.
Le dimensioni di una cisti tendinea variano da caso a caso: alcuni individui sviluppano cisti tendinee grandi quanto un pisello; altri, invece, sviluppano cisti tendinee della grandezza di una pallina da golf.
In genere, il fluido contenuto in una cisti tendinea è liquido sinoviale. Denso, appiccicoso, incolore e di consistenza gelatinosa, il liquido sinoviale è una sostanza fisiologicamente presente in tutte le articolazioni sinoviali, la cui funzione è preservare da attriti e sfregamenti le diverse componenti articolari (legamenti, tendini, capsula articolare ecc).

Le sedi più comuni delle cisti tendinee sono: il dorso della mano e del polso e il palmo del polso.
I punti d'insorgenza meno comuni, invece, sono:
La base delle dita della mano, dalla parte del palmo: le cisti tendinee che si formano in queste sedi hanno, in genere, dimensioni paragonabili a quelle di un pisello;
La punta delle dita della mano: le cisti tendinee localizzate in queste aree sono dette anche cisti mucose;
La parte esterna del ginocchio;
La parte esterna della caviglia;
Il dorso del piede.

Gli episodi di cisti tendinea sono più frequenti nelle donne e riguardano, per quasi un 70% dei casi, i soggetti di età compresa tra i 20 e i 40 anni.
La formazione di una cisti tendinea può riguardare anche i soggetti molto giovani, ma si tratta di un fenomeno assai raro.

Nonostante i numerosi studi in merito, le precise cause che inducono la formazione di una cisti tendinea sono poco chiare. Secondo alcuni esperti, le cisti tendinee sarebbero la conseguenza di eventi traumatici a carico dell'elemento articolare o tendineo situato nelle vicinanze; secondo altri esperti, invece, sarebbero il risultato di un difetto a carico della capsula articolare o della guaina sinoviale, rispettivamente, dell'articolazione vicina o del tendine vicino.
Tra le due teorie sopraccitate, la seconda sembrerebbe la più attendibile.

Le cisti tendinee sono immobili, presentano un diametro che misura, mediamente, 2,5 centimetri e hanno la consistenza di una massa molle.
L'aspetto finale di una generica cisti tendinea può essere frutto di un processo di formazione improvviso oppure graduale. Se la formazione è improvvisa, il rigonfiamento può comparire anche dall'oggi al domani; se invece la formazione è graduale, la massa rigonfia compare in maniera progressiva.
Talvolta, è possibile che una cisti tendinea, apparentemente stabile nelle dimensioni, a un certo punto diventi ancora più grande.

Nella maggior parte dei casi, le cisti tendinee sono asintomatiche, ossia non provocano alcun sintomo o disturbo particolare. Più raramente, possono provocare dolore, formicolio, senso d'intorpidimento e/o debolezza muscolare.
La sopraccitata sintomatologia compare in tutti quei casi in cui una cisti tendinea comprime le componenti di un'articolazione oppure si sviluppa in prossimità di una terminazione nervosa e provoca lo schiacciamento di quest'ultima.

Una cisti tendinea sintomatica può impedire l'esecuzione di determinati movimenti con l'articolazione vicino a cui insorge.
Per esempio, nel caso delle cisti tendinee sintomatiche alle mani, i soggetti interessati potrebbero avere difficoltà a piegare il polso o le dita. Queste difficoltà, quindi, possono ripercuotersi su alcune attività quotidiane, come per esempio girare le chiavi dell'auto o dell'abitazione oppure stappare una bottiglia.

Gli episodi di cisti tendinea non sono da considerarsi emergenze mediche. Tuttavia, il loro verificarsi merita sempre le attenzioni del medico, a scopo precauzionale.
È particolarmente importante rivolgersi al medico in presenza di sintomi, come dolore, formicolio ecc.

In genere, per una diagnosi corretta di cisti tendinea sono sufficienti l'esame obiettivo e l'anamnesi.
Tuttavia, in alcune particolari circostanze, i medici potrebbero prescrivere l'esecuzione di test più approfonditi, come per esempio una risonanza magnetica nucleare della porzione anatomica interessata, un'ecografia della massa rigonfia e l'aspirazione, e la conseguente analisi, del liquido sinoviale contenuto all'interno della cisti.


Tra le circostanze particolari che potrebbero richiedere il ricorso dei suddetti test, rientrano una sospetta condizione di artrite e una sospetta presenza di un tumore maligno.

L'esame obiettivo è l'insieme di manovre diagnostiche, effettuate dal medico, per verificare la presenza o assenza, nel paziente, di segni indicativi di una condizione anomala.
Per esempio, in presenza di una sospetta cisti tendinea, una delle classiche manovre diagnostiche consiste nell'applicare una pressione sul rigonfiamento e valutare se quest'ultimo è molle oppure rigido. Un rigonfiamento di consistenza molle è indicativo di una cisti sinoviale.
L'anamnesi, invece, è la raccolta e lo studio critico dei sintomi e dei fatti d'interesse medico, denunciati dal paziente o dai suoi familiari.
In presenza di una sospetta cisti tendinea, l'anamnesi può servire a capire se il rigonfiamento sta comprimendo una terminazione nervosa oppure no.

L'aspirazione e l'analisi in laboratorio del liquido contenuto nelle cisti tendinee rappresentano i test diagnostici più attendibili e che eliminano qualsiasi dubbio sulla natura del rigonfiamento.

A volte, il rigonfiamento può essere confuso con un callo. Per distinguere le due
manifestazioni, è bene sapere che il callo altera il disegno degli strati più superficiali della pelle, mentre tale fenomeno non è presente in caso di cisti, e sotto la pelle si può sentire una formazione simile a un grano di riso.

Non è affatto raro che una cisti tendinea asportata ricompaia poi con una recidiva. Ma ci sono diverse altre soluzioni prima di un intervento, che comunque va eseguito da un chirurgo esperto perché l’asportazione dev’essere molto accurata e il più radicale possibile, ma allo stesso tempo non deve lesionare le delicate strutture anatomiche vicine alla cisti (quali arterie, tendini, strutture vascolari e nervose). Innanzitutto, per avere una diagnosi certa (e appurare che si tratti davvero di una cisti) deve fare un’ecografia, esame di solito sufficiente a fugare ogni dubbio, per poi rivolgersi preferibilmente a un chirurgo della mano, che durante la visita saprà valutare la  situazione e proporre la terapia più indicata del caso.

A seconda della sintomatologia, ovvero valutando il dolore (che può essere presente anche a riposo, o soprattutto quando si muove il polso e le dita, e può dare anche una sensazione di fastidio al polso e alle dita che limita la completa funzionalità del polso e della mano) e il deficit funzionale o estetico che causano, le cisti possono essere soltanto monitorate, associando eventuali trattamenti palliativi come l'uso di un tutore a scopo antalgico. Oppure possono venire trattate in modo conservativo (ovvero con un tentativo di aspirazione e infiltrazione, che purtroppo di solito dà scarsi risultati); o ancora possono essere asportate chirurgicamente. Spesso le cisti con un decorso altalenante e scarsi disturbi possono essere monitorate, per poi prendere decisioni di cura se aumentano di dimensioni, fanno male e limitano la funzionalità. In genere, come primo passo terapeutico si prova ad aspirare la cisti e nel contempo iniettare del cortisone: una procedura veloce, poco dolorosa, eseguibile in ambulatorio, ma che ha un limite perché non garantisce la soluzione (e se la cisti dovesse riformarsi non è consigliato ripeterla). Infine c'è l'asportazione chirurgica, che va preferibilmente eseguita in ospedale, in day hospital e sotto anestesia (locoregionale se le cisti sono al polso, locale o tronculare se alle dita). L'intervento (salvo rari casi) non è particolarmente lungo né complicato e permette una ripresa funzionale piuttosto precoce.


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venerdì 5 agosto 2016

LA CRISI DEI 40




La felicità nel corso della vita segue un percorso a U, scende dopo i 20, arriva al punto minimo ai 40, e poi risale nei decenni seguenti, per riassestarsi su toni positivi.

La cosiddetta “crisi dei 40 anni” affligge la maggior parte delle donne ed anche molti uomini. Nel caso femminile, essa si somma al fatto di dover affrontare la menopausa e i sintomi fisici e psicologici che questa comporta.

Rappresenta il momento in cui bisogna analizzare ciò che si è fatto fino a quel momento e considerare le questioni ancora irrisolte. Senza dubbio, ci sono casi in cui l’idea del pensionamento è già presente nella testa della persona (anche se, nella maggior parte dei paesi occidentali, l’età pensionabile non arriva prima dei 60 anni).

Gli esperti sostengono che esistono due tipi di crisi collegate all’età: quella evolutiva e quella circostanziale. La prima riguarda gli anni che si hanno e i cambiamenti biologici; la seconda è legata ai cambiamenti dell’ambiente circostante che hanno ripercussioni anche a livello personale. La crisi dei quarant’anni fa parte del primo gruppo.

L’arrivo ai quarant’anni può essere accompagnato da un quadro di depressione e ansia, soprattutto a causa delle pressioni sociali e familiari. 

Ci sono vari fattori che provocano la crisi di mezza età, ma i più frequenti sono: l’insicurezza, un’eccessiva responsabilità, una quotidianità sempre uguale, i conflitti con il partner, gli errori commessi in passato, la noia, la mancanza di obiettivi chiari, ecc.

Senza dubbio, uno dei segni più evidenti della crisi dei 40 anni è la necessità di tornare ad essere giovani, di avere di nuovo vent’anni, o anche meno. Questo sentimento porta a cercare nuove esperienze, a fare cose prima non fatte per varie ragioni, a vestirsi come adolescenti, a frequentare locali o discoteche, ecc.

Questo nuovo atteggiamento nei confronti della vita può trasformarsi in un meraviglioso risveglio, in una forte motivazione che ci allontana dalla noia della routine e ci arricchisce la vita. Tuttavia, può anche provocare una grande nostalgia che ci blocca e ci spinge a vivere una sorta di letargo mentale ed emotivo, facendoci dimenticare che, in realtà, ci sono ancora moltissime cose da poter fare.

Studiosi di psicologia sociale dell’università di Melbourne (Australia), in collaborazione con gli specialisti della London School of Economics and Political Science dell’università di Warwick (Gran Bretagna) hanno analizzato un largo campione di persone, di nazionalità australiana, britannica e tedesca. Migliaia di dati e di questionari che verificavano lo stato di soddisfazione personale e di felicità globale della persona in momenti diversi delle loro vite: a 35,45, 55 anni e così via. Lo studio teneva conto anche dello status sociale dei rispondenti, verificandone titolo di studio, tipo di lavoro, stipendio, condizioni familiari, salute. I risultati sono stati poi pubblicati dall’IZA (Institut zur Zukunft der Arbeit), l’ente tedesco degli studi sul lavoro.

Nonostante la crisi di mezza età sia sempre stata attribuita all’arrivo dei 50 anni, quest’ultimo studio sposta invece l’attenzione sui primi 40 anni di vita. Secondo i risultati raccolti, tra i 40 e i 42 anni si raggiunge il nadir della crisi di mezza età, il punto più basso di non ritorno della propria insoddisfazione personale o dell’assenza di motivi per essere felici. Questo punto più basso è preceduto da anni difficili in discesa, e seguito però da decenni - dai 40 ai 70 - in cui la felicità media tende a innalzarsi di nuovo verso livelli ottimali, che si raggiungerebbero appunto a 70 anni. 



Ovviamente la curva a U potrà cambiare di persona in persona, a seconda delle scelte di vita e del momento personale in corso: vale per esempio, spiegano gli studiosi, per quelle famiglie che si trovano a 40 anni alle prese con figli adolescenti, o che ancora non hanno avuto figli (se questo è uno dei loro obiettivi). Vale anche per quelle coppie che sono insieme già da molti anni e iniziano a sentire la monotonia del rapporto, così come per chi vive un’esperienza professionale giunta a un punto di non ritorno, che per chi ha iniziato a lavorare prima dei 30 coincide abbastanza con la fascia tra i 40 e i 45 anni di età, crisi economica permettendo.

Sul concetto di mezza età comunque gli studiosi hanno sempre lavorato, cercando di spiegarne i confini e le modalità, e spostando di volta in volta l’ago a seconda del tema affrontato. L’Economist per esempio, solo un paio di anni fa, decretava che a 46 anni l’uomo raggiungesse il picco di felicità, mentre uno studio inglese affermava che la mezza età non arrivasse prima dei 55 anni. Nemmeno un anno prima però, in America la mezza età veniva fissata intorno ai 35 anni. Tutti concordi comunque nelle diverse ricerche a segnare, negli anni tra i 40 e i 50, un momento di crisi fisica e mentale: uno studio inglese del 2012 avvertiva che a 45 anni il cervello entrava in crisi e cominciava così il suo declino cognitivo; altri puntavano il dito su tematiche più psicologiche e sul temibile «periodo dei bilanci», legati in ogni caso a una certa vulnerabilità esistenziale.





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