sabato 23 luglio 2016

MALANNI ESTIVI



Febbre, mal di gola, tosse e laringite: i malanni tipici dell'inverno rischiano di rovinare le vacanze a causa di una nuova categoria di malattie che sta emergendo proprio in questi anni, quella da abuso di aria condizionata.

La colpa, spiega Carlo Federico Perno, professore ordinario di virologia all'Università Tor Vergata di Roma, «è soprattutto dei continui sbalzi di temperatura, perché nell' organismo, e in particolare nel nostro sistema respiratorio, si blocca la capacità di difenderci da determinati germi che di norma sono innocui». Il corpo, spiega infatti l'esperto, è già preparato per combattere i batteri e i virus che causano ad esempio i mal di gola e le laringiti. L'improvviso impatto con un'aria più fredda, però, come accade ad esempio quando si entra in un ufficio con l'aria condizionata, blocca le nostre difese ed espone il nostro sistema respiratorio ai germi, che ora non è più in grado di contrastare. Con il risultato che sono sempre più numerosi i vacanzieri con tosse e tracheiti, che nei casi più gravi possono anche trasformarsi in polmoniti.
«Bisogna prima di tutto evitare tutti i passaggi caldo-freddo - spiega Fabrizio Pregliasco, virologo e specialista in igiene e medicina preventiva all'Università degli Studi di Milano - ad esempio quando usciamo dalla macchina o entrando in un ufficio con l'aria condizionata. Il consiglio è quello di compensare nel passaggio da un ambiente all'altro, abituandosi gradualmente alla temperatura più fredda in un luogo intermedio, ad esempio l'atrio dell'ufficio. Rimane comunque valido il buonsenso, come l'uso di sciarpette, o più in generale il restare ben coperti dove c'è l'aria condizionata. Uno sbalzo sotto i 4-5 gradi va bene, anche se ultimamente ci sono state modificazioni del clima anche intense, e non ci si può fare molto».

«Chi fa viaggi esotici - dice il virologo - può ad esempio contrarre la malaria, ma anche l'epatite o alcune patologie gastrointestinali. Con la malaria, ed esempio, il rischio più grosso è quello di non seguire correttamente la profilassi: le pillole invece vanno prese tutte, anche quando ci si sente bene, per due settimane dopo il rientro in Italia». Ancora troppi invece i turisti che, rientrando in patria, si sentono al sicuro e smettono di prendere i farmaci, dando così il via libera alla malattia.

Le punture da medusa sono molto comuni in estate e per chi sceglie una meta marittima. La medusa più comune nel Mar Mediterraneo è senz’altro la Pelagia Nucticola. I sintomi da contatto includono bruciore, dolore intenso, eritema, prurito. In questi casi bisogna disinfettare la ferita con acqua di mare, aggiungendo poco dopo de bicarbonato e passandoci sopra una lieve pellicola di gel a base di cloruro di alluminio.

Colpo di sole o di calore è molto comune se non si prendono le dovute precauzioni. I colpi di sole si presentano con una temperatura corporea che supera la soglia dei 38°. In alcuni casi, compaiono anche delle scottature. Il colpo di calore, invece, è un problema legato alla dispersione del calore. In entrambi i casi, a esserne più colpiti sono anziani e bambini. I sintomi includono mal di testa, febbre, nausea e, in alcuni casi gravi, l’infarto. Innanzitutto, usare sempre la lozione solare adatta al nostro di tipo pelle. In secondo luogo, bisogna evitare l’esposizione nelle ore più calde e muoversi sempre con un copricapo.



Se si viaggia in luoghi o in posti dove le condizioni igieniche non sono ottimali, bisogna prendere alcuni accorgimento. Evitare cibi crudi, anche verdure, bere solo anche in bottiglia, evitare di scambiarsi posate, tovaglioli e piatti, lavarsi sempre le mani con il sapone. Spesso, batteri come E. Coli e Salmonella sono alla base di questi problemi, in quanto riscontrabili in cibi non opportunamente trattati o contaminati.

Tra le più comuni infezioni della pelle troviamo le infezioni da micosi o fungine che sono causate da agenti patogeni quali T. rubrum e T. interdigitalis. Spesso si contraggono in luoghi aperti al pubblico, come le piscine. Si localizzano sulla pianta del piede o sul palmo delle mani, fra le dita. I sintomi più comuni sono prurito intenso e fastidio generale nella zona localizzata. Esistono in commercio diverse creme anti micotiche che possono essere applicate sull’infezione, il decorso solitamente è attorno alle due settimane.

Il rischio delle punture degli insetti può essere nullo o estremamente elevato a seconda della reazione che la persona punta potrà avere. Infatti, si può andare da una semplice eruzione cutanea a un vero e proprio shock anafilattico con rischio di morte. In questi casi è bene coprirsi braccia e gambe e, se ci si trova in casa, utilizzare delle zanzariere.

Lo stafilococco aureo è uno dei più comuni. Di solito è già presente sulle nostre mani e sulle superfici ma normalmente il nostro sistema immunitario lo tiene sotto controllo. Durante l'estate però si diffonde perché tende a colonizzare i cibi grassi (dolciumi, pizzette, ecc..).

Fare attenzione ai cibi che in inverno si è abituati a cucinare e lasciare fuori dal frigorifero anche per mezza giornata, le temperature estive più alte possono produrre dei rischi.
Quando si acquistano certi alimenti in estate fare attenzione che siano ben conservati in ambiente refrigerato, che le confezioni siano sigillate e che non vengano in contatto con l'esterno, magari con mosche o altro e che i cibi non siano stati esposti a temperature esterne per tempi troppo lunghi.
Tenere sempre sotto controllo la temperatura perché è il vero aggravante delle infezioni.Il vero killer delle infezioni è sempre il nostro sistema immunitario e che quindi va mantenuto forte mangiando correttamente e dormendo il necessario.

L'influenza estiva è un'influenza classica in tutto e per tutto tranne che nella definizione. Inizia con dolori articolari e addominali, qualche colica, ma soprattutto la febbre, molto alta. Oltre a disturbi gastrointestinali e febbrone si aggiunge il sintomo parallelo del mal di gola.

L'influenza estiva può capitare più facilmente quando il tempo fa i capricci: temporali estivi e bruschi cali di temperatura favoriscono l'insorgenza dell'adenovirus, uno dei virus responsabili dell'influenza stagionale.




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lunedì 18 luglio 2016

LA MASTOCITOSI



La mastocitosi è una malattia contraddistinta dall'accumulo di mastociti in diversi organi e tessuti del corpo. Una volta accumulatisi, queste cellule immunitarie rilasciano notevoli quantità di istamina.
L'istamina prodotta dai mastociti ha numerose conseguenze, talvolta anche molto gravi. I sintomi della malattia sono comunque vari e dipendono dal tipo di mastocitosi.
Le cause d'insorgenza non sono state ancora chiarite; l'unico dato assodato è che, all'origine di tutto, c'è una mutazione genetica.
La diagnosi richiede degli esami accurati e dei test specifici. Una volta identificato il tipo di mastocitosi, si può pianificare il percorso terapeutico più appropriato; percorso terapeutico che non permette la guarigione dalla malattia, ma migliora soltanto il quadro sintomatologico.

I mastociti, o mastecellule, sono un gruppo di cellule appartenenti al sistema immunitario, che difendono l'organismo dagli agenti patogeni e da altri tipi di minacce.
Quando l'organismo umano viene aggredito da germi (virus o batteri), i mastociti cominciano a rilasciare, nei vasi sanguigni, un composto chimico azotato, chiamato istamina. All'interno dei mastociti questa sostanza è rinchiusa in granuli intracellulari assieme ad altri elementi; non a caso, il processo di rilascio dell'istamina è noto come degranulazione dei mastociti.
L'istamina è un vasodilatatore, pertanto il suo rilascio aumenta la permeabilità dei vasi sanguigni, con i quali viene a contatto. Una maggiore permeabilità vasale, in un determinato punto, favorisce l'afflusso di altre cellule immunitarie, aventi un ruolo ben specifico: attaccare e rimuovere dall'organismo gli agenti patogeni infestanti.
Questo processo fa parte di quel meccanismo di difesa molto particolare, chiamato infiammazione.

Talvolta, può capitare che i mastociti inneschino un rilascio massiccio di istamina anche quando l'organismo incontra degli elementi innocui, come pollini e agenti non proprio infettivi. Il processo infiammatorio, che ne deriva, è privo di finalità, in quanto non ci sono germi da aggredire, ma ha comunque degli effetti e provoca: arrossamento cutaneo, gonfiore cutaneo, difficoltà respiratorie, prurito e rinite.
Tale meccanismo aberrante sta alla base delle reazioni allergiche (o allergie), e quando diviene particolarmente intenso prende il nome di anafilassi.

I casi sono pochissimi, circa una decina l’anno, farmaci specifici al momento non ce ne sono ma con gli antistaminici si possono evitare le peggiori conseguenze nella maggior parte dei casi di malattia. «E’ una malattia dalle manifestazioni molto eterogenee – spiega Francesco Lauria, direttore U.O.C. Ematologia del policlinico Santa Maria alle Scotte – Nella maggior parte dei casi l’interessamento è solo cutaneo, con il formarsi di infiltrazioni nei tessuti, ma può anche esserci l’interessamento di altri organi. Teoricamente esistono anche casi di leucemie dovute alla proliferazione neoplastica dei mastociti. Purtroppo in questi casi la prognosi è molto severa e spesso rapidamente fatale».

Se per molte malattie rare la diagnosi è difficili per la mastocitosi è un po’ diverso, nonostante i piccoli numeri. «La maggior parte dei pazienti – dice Lauria – si reca dal dermatologo a causa delle manifestazioni cutanee e una volta sospettata la diagnosi bisogna confermarla con un esame istologico. In alcuni casi è utile un esame del midollo”. Una volta fatta la diagnosi bisogna cercare una terapia che sappia almeno contenere i sintomi. «In genere c’è la necessità di eliminare il prurito –spiega l’esperto – e per questo si usano gli antistaminici e a volte il cortisone. Chi soffre di mastocitosi, infatti, è anche più predisposto a reazioni allergiche che possono essere lievi ma anche molto severe fino a manifestazioni anafilattiche con tutta la loro gravità. Poi, per alcune forme, dette sistemiche, cioè che hanno coinvolto le cellule emopoietiche e sono evolute in leucemia, si usano farmaci più importanti come i cosiddetti inibitori delle tirosin-chinasi oltre a nuove molecole ancora in fase di inizialissima sperimentazione. Purtroppo però non sono moltissimi i centri che se ne occupano.».




Le varie forme sono state classificate più volte nel corso degli ultimi anni:
Mastocitosi localizzata, che può essere focale oppure generalizzata (in tal caso si assiste all'orticaria pigmentosa)
Mastocitosi sistemica, nelle sue tre forme: non dolente, a carattere maligno o progressiva, può comportare la nascita della leucemia, o della sindrome mielodisplasica

I pazienti affetti da tali malattie possono mostrare anafilassi e presentano spesso delle lesioni maculari di colore brunastro non desquamative, che nelle aree di attrito tendono ad essere pruriginose.

Per un corretto esame diagnostico occorre la biopsia del midollo osseo.

La terapia delle varie forme di mastocitosi è basato in prima istanza sul controllo dei sintomi legati alla secrezione dei mediatori chimici da parte dei mastociti. Il trattamento dei pazienti affetti da mastocitosi cutanea o sistemica, infatti, comprende alcuni provvedimenti di carattere generale che vanno sempre attuati sia nei pazienti in età pediatrica che negli adulti. In particolare, bisogna evitare i fattori scatenanti (stimoli meccanici, stress fisici e/o emotivi, alcuni tipi di farmaci e alimenti, assunzione di alcool) che possono indurre la liberazione di mediatori chimici da parte dei mastociti. La terapia medica con i farmaci anti-mediatori (antistaminici anti-H1 ed anti-H2, ketotifene, sodio cromoglicato) è efficace nel controllare i sintomi nella maggior parte dei pazienti. La terapia citostatica (interferone alfa, cladribina, inibitori delle tirosin chinasi), invece, viene effettuata solo nei pazienti con forme aggressive di mastocitosi.

Il trattamento consiste nella somministrazione di imatinib o ciproeptadina. Negli USA il Sodio cromoglicato è approvato come sintomatico per alleviare i sintomi gastrointestinali e altro.

Nel 2009, uno studio terapeutico su 108 pazienti alla Mayo Clinic di Rochester, USA, ha dimostrato che l'interferone alfa e la cladribina sono farmaci molto attivi nella maggior parte dei pazienti trattati.

Dato che la mutazione KIT D816V porta all'attivazione persistente della chinasi mitogenica mTOR, un gruppo di ricerca ha pensato di trattare un gruppo di pazienti affetti con l'inibitore RAD001 (everolimus) della chinasi mTOR. I risultati sono stati deludenti tanto da indurre l'abbandono per ulteriori tentativi.
La forma sistemica maligna ha la prognosi più infausta: il decesso avviene di norma entro due anni dalla trasformazione nella forma aggressiva.



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domenica 17 luglio 2016

LE RADIAZIONI DELLE RADIOGRAFIE



L'incremento degli esami radiologici è riconducibile essenzialmente ai progressi tecnologici che hanno messo a disposizione esami sempre più raffinati e precisi.

Tuttavia quando l'esame è indicato, anche se espone a una dose di radiazioni relativamente elevata, offre vantaggi che superano i rischi. Al contrario, l'esposizione non  giustificata può comportare un inutile danno per il paziente. Eppure spesso i medici tendono a prescrivere un esame in più per tutelarsi da una mancata diagnosi: è quella che viene definita 'medicina difensiva'.

La quantità delle radiazioni alle quali viene esposto il paziente è varia in base all'esame cui viene sottoposto: una Tac del torace, ad esempio, equivale a effettuare 385 radiografie del torace. Anche nella vita quotidiana, tuttavia, siamo esposti alle radiazioni: ad esempio si stima che un volo aereo intercontinentale andata e ritorno dall’Europa all'America equivale ad eseguire 5 radiografie del torace.

Esistono due tipi di effetti prodotti dalle radiazioni. Da una parte vi è un effetto diretto che compare nella persona esposta ad una quantità di radiazioni al di sopra di una determinata soglia e che si manifesta con danno, ad esempio con un'ustione sulla pelle.

In questo caso la quantità di radiazioni è ben superiore a quella comunemente impiegata negli esami radiologici. Il secondo è il cosiddetto effetto stocastico: si tratta di un rischio statistico e significa che l'esposizione ad una certa dose aumenta di una certa percentuale le probabilità di comparsa di un tumore nella popolazione.

Occorre usare apparecchi con schermi di difesa efficaci e pellicole sensibilissime per utilizzare bassissime potenze di irradiazione.
Oggi sistemi tecnologici avanzati per questo scopo, ve ne sono molti e portano a diminuire anche del 75% l’intensità delle radiazioni emesse.
Inoltre bisogna schermare le parti del corpo che sono le più intaccabili dalle radiazioni e cioè tutte le ghiandole esistenti nel corpo umano. No, quindi alle radiazioni radiografiche senza una vera e certa indicazione clinica e senza criterio come purtroppo assistiamo spesso nel settore sanitario.
I rischi ed i costi delle radiografie sarebbero minori se i medici non richiedessero troppo spesso ed inutilmente, radiografie a scopo preventivo, salvo le ipotesi a grave rischio e se nel nostro paese fossimo adeguati alle norme CEE.
Se i medici imparassero ad usare le tecniche diagnostiche della Medicina Naturale tipo: l’Iridologia, il Mineralogramma, la Kinesiologia, l’Alitest, BEV, ecc., potrebbero fare a meno del 80% delle quantità di radiografie che invece, per ignoranza su una antica scienza, ordinano ai loro pazienti.
Il danno delle radiografie in età pediatrica c’è e può essere di natura genetica o somatica. Queste indicazioni sono state date in un convegno internazionale tenuto ad Ischia.

Un biologo denuncia che sono responsabili dell'aumento dei casi di cancro, in particolare quello al seno. "Per tutti gli anni Sessanta milioni di donne furono sottoposte a frequenti radiografie. L'uso eccessivo di raggi X, per la diagnosi o la terapia delle più svariate malattie, sarebbe la causa di un aumento nell'incidenza del tumore al seno: sia per quanto riguarda i casi verificatisi negli ultimi 30 anni, sia per quelli previsti nei prossimi anni. A denunciare le conseguenze dell'abuso di raggi X è John Gofman, biologo molecolare all'università della California.
 
L’ecografia 4D può essere pericolosa per la salute del feto.
Il Collegio nazionale di ginecologi e ostetrici francesi ha messo in allerta parlando di un vero e proprio scandalo in relazione alla diffusione di questa pratica. Gli esperti spiegano che le parti del corpo più a rischio sono gli occhi e il cervello del nascituro, esposti agli ultrasuoni emessi dal macchinario.
Per il momento non sono stati riscontrate prove evidenti di un collegamento tra l’emissione di certi ultrasuoni e lo sviluppo del feto ma si tratta di una tecnica recente, su cui molto è ancora in fase sperimentale, nonostante sia già boom negli Stati Uniti.
Intanto anche la Società internazionale degli ultrasuoni in ostetricia e ginecologia (Isuog) e la Federazione mondiale degli ultrasuoni in medicina e biologia (Wfumb), hanno espresso disapprovazione per l’uso di tecnologie 4D al di fuori di applicazioni prettamente mediche.



I pazienti in dialisi sarebbero soggetti ad un rischio di cancro in media di 1,5 volte superiore rispetto alle persone che non sono soggette a questa terapia.
L’aumento significativo della probabilità di ammalarsi di cancro durante la dialisi si spiegherebbe, secondo i medici, in modo assai semplice: molti pazienti devono sottoporsi, nel corso degli anni, a degli esami radiologici. Tuttavia sembra che, nell’esercizio della loro attività quotidiana, i radiologi non posseggano una tale lungimiranza.
Gli scienziati hanno tenuto sotto osservazione un gruppo di 106 pazienti in dialisi per tre anni ed hanno calcolato l’esposizione d’irradiazione sulla base dei dati salvati nei files dell’ospedale.
La tomografia computerizzata è stata impiegata 248 volte, nella maggior parte dei casi i radiologi cercavano le cause di complicazioni neurologiche, emorragiche o respiratorie.
Complessivamente gli esami radiologici sono stati, nell’intervallo di tempo considerato, 1300, il che significa, da un punto di vista statistico, che ogni paziente in dialisi è stato sottoposto ad esame radiologico 4,3 volte.
Circa il 76% della quantità di radiazione derivava dalle analisi svolte con la tomografia computerizzata (TC), mentre le analisi radiologiche tradizionali hanno contribuito per il 19%. Solo 22 dei 106 pazienti sono stati esposti a dosi inferiori a 22 millisievert, mentre per oltre un terzo dei pazienti la quantità di radiazione complessiva risultava troppo elevata e superava abbondantemente i 50 millisievert. Il 16% dei pazienti era stato esposto a 100 millisievert all’anno, una dose che viene associata ad un rischio alto di mortalità a causa del cancro. Ciò in quanto i medici hanno calcolato il cumulo di esposizione ad irradiazione rifacendosi a valori statistici consolidati sulla base delle analisi svolte sui sopravvissuti alla bomba atomica di Hiroshima. Lì si è riscontrato che il cumulo di radiazioni di 100 millisievert all’anno nasconde un rischio enorme.
I medici David Pickens e Martin Sandler dell’americana Vanderbilt School of Medicine ritengono che il problema stia nella facilità con cui si ricorre all’esame radiologico nei pazienti in dialisi. “Vi sono procedimenti che vengono impiegati troppo spesso in quanto possono dare una grande quantità di informazioni al medico in poco tempo”, ecco la critica a TC & Co. che viene fatta in un loro articolo sul giornale.

Per l’American Society of Nephrology (ASN) i risultati provenienti dall’Italia costituiscono un valido indizio per un uso diverso delle analisi radiologiche nell’esercizio medico quotidiano, tuttavia, anche senza l’irradiazione dovuta alla radiologia, i malati di malattia renali rimangono particolarmente esposti al problema. Ciò in quanto, secondo la co-autrice Andreana de Mauri. vi sarebbero dei meccanismi finora sconosciuti che provocano l’insorgenza del cancro. Il trapianto di reni determina un rischio 5 volte superiore di cancro, nessuno però è in grado di spiegarne il motivo. Un’esposizione troppo alta alle radiazioni aumenta ulteriormente questo trend.

Il Bundesamt per la protezione dalle irradiazioni mette in guarda dalla TC.
Ma gli italiani non sono soli in questa critica al ricorso troppo facile a procedimenti particolarmente gravosi per il paziente. Nel Luglio 2010, in Germania, anche il Bundesamt für Strahlenschutz (BfS) ammoniva che “in Germania si ricorre troppo spesso all’esame radiologico rispetto al contesto internazionale” e che “ciò riguarda in particolar modo la tomografia computerizzata, il cui uso è aumentato particolarmente. Lo scopo è di ridurre l’esposizio a radiazioni al minimo necessario”.

Il BfS ha pubblicato nell’Agosto 2003 dei parametri di riferimento diagnostici che sono stati poi corretti e resi attuali più avanti. Il nuovo parametro di riferimento diagnostico tedesco per un esame radiologico del bacino è oggi diminuito del 40% rispetto al vecchio valore. Il Clou: il rischio derivato dall’irradiazione diminuisce della medesima percentuale. Si mostra così “un nuovo trend di riduzione del carico di radiazioni nelle singole analisi mediche”. Un ulteriore novità consiste inoltre nell’introduzione di parametri di 4 TC su pazienti bambini.

Dall’altra parte dell’Oceano, Edward Mc Gaffigan, Alto Commissario per il controllo del nucleare, ha dichiarato che è «disgustato dalla cultura che imperversa nella comunità medica e che spinge verso un utilizzo sempre più esasperato degli esami basati sull’imaging». Che vuol dire Tac, risonanza, Pet, raggi x.
Da noi gli ultimi a lanciare l’allarme contro l’abuso di esami sono stati proprio i radiologi durante il loro congresso. I loro dati disegnano un mondo in cui i conti non sempre tornano. Soprattutto se si mettono a confronto le cifre degli esami, i risultati degli esami e l’alto numero delle volte che questi vengono ripetuti a distanza ravvicinata. Un mix che fa lievitare la spesa sanitaria, porta fuori strada la diagnostica ufficiale e, come si preoccupa l’Organizzazione mondiale della sanità, espone i pazienti ad un eccesso di radiazioni.

Sono circa 40-50 milioni le prestazioni radiologiche che ogni anno si effettuano in Italia. Quasi una per ogni abitante, bambini compresi. Sono stati proprio i radiologi ad avviare un’indagine firmata dalla Società italiana di radiologia medica, l’Associazione italiana di neuroradiologia e il Sindacato nazionale dei radiologi. I risultati preliminari si basano sulle rilevazioni in sei regioni e province autonome (Marche, Toscana, Sicilia, provincia di Trento, di Bolzano e della Valle d’Aosta). Un altro dato troppo alto, dicono gli esperti, rispetto alla popolazione: in dodici mesi, tra ambulatori e Asl, sono stati richiesti 8 milioni di prestazioni radiologiche.

Il 75% dei cinquanta milioni di esami che si contano ogni anno in Italia, per i camici bianchi sono da considerarsi appropriati. Gli altri, complici la tendenza dilagante della medicina difensiva e la non correttezza delle richieste, potrebbero essere evitati.
Un esame su quattro, dunque, sarebbe superfluo. L’8% della spesa sanitaria si deve proprio a queste indagini.

La Lombardia è stata una delle poche regioni che ha condotto un’indagine sugli esami specialistici: otto su dieci sono risultati inutili. Nel periodo 2001-2006 le richieste per la risonanza magnetica sono raddoppiate. «E’ esponenziale la crescita della domanda di esami - commenta Roberto Lagalla, presidente della Società italiana di radiologia medica - Esami per i quali si utilizzano radiazioni ionizzanti e non ionizzanti. E’ praticamente impossibile fornire una tempestiva risposta ad una simile mole di richieste. Questo, nonostante gli sforzi di adeguamento delle risorse umane, delle tecnologie e dei modelli organizzativi».
Le conseguenze, oltre alla crescita incontrollata delle uscite: l’allungamento delle liste d’attesa, l’innalzamento del rischio di errore diagnostico e il possibile incremento della dose radiante ai pazienti. Un rapporto dell’Istituto superiore di sanità mostra un’Italia, come al solito, a tripla o doppia velocità: le donne del Sud si sottopongono ad una media di 6,2 esami radiologici durante la gestazione, quelle del Centro 5,5 e quelle del Nord 4,9.

Secondo uno studio condotto da Diana Miglioretti, del Group Health Research Institute e dell'Università di Davis, in California, a partire dai dati di sette sistemi sanitari degli Stati Uniti, l'uso di della tomografia computerizzata delle pelvi, del torace o della colonna nei bambini al di sotto dei 14 anni è più che raddoppiato nel decennio tra il 1996 e il 2005: «L'aumento dell'uso di Tc in pediatria, combinato con l'ampia variabilità nella dose di radiazioni ha fatto sì che molti bambini ricevessero esami ad alte dosi» si legge nello studio. Analizzando i sottogruppi di età, Miglioretti e colleghi hanno scoperto che la fascia di età più esposta a pericoli è quella compresa tra 5 e 14 anni, nei quali la frequenza d'uso della tomografia è triplicata, salvo poi assestarsi tra il 2006 e il 2007 e iniziare dopo di allora a declinare lentamente. Nella fascia di bimbi con meno di 5 anni l'aumento è stato appena meno drammatico – il dato è infatti circa raddoppiato nel decennio – ma l'effetto stimato in termini di aumento di rischio per un tumore solido risulta più alto (con una preferenza per le femmine rispetto ai maschi). Una differenza è stata anche osservata in funzione della sede: la tomografia di addome e pelvi o della colonna è risultata associata a un rischio più significativo rispetto ad altre sedi.
In cifre, Miglioretti e colleghi hanno stimato che per le femmine si manifesterà un tumore solido indotto dalle radiazioni ogni 300-390 tonografie di addome/pelvi, ogni 330-480 tomografie del torace e ogni 270-800 tomografie della colonna, con gran parte della variabilità legata all'età della bambina al momento dell'esame. Il rischio potenziale di leucemia è risultato più alto per le tomografie della testa nei bimbi di meno di 5 anni di età, con un tasso pari a 1,9 casi ogni 10.000 tomografie.
Complessivamente, i 4 milioni di esami compiuti ogni anno in età pediatrica negli Usa comporterebbero 4.870 futuri tumori, per quasi metà (43%) prevenibili – secondo gli autori – intervenendo sul 25% di esami con dosaggi più alti per riportarli in linea con la mediana attuale. In assenza di stime affidabili sull'entità dei benefici per la salute di queste tomografie, e sulla loro eventuale sostituibilità con esami meno pericolosi, i ricercatori invitano a centellinarle, limitandone l'uso ai casi in cui la prospettiva di un beneficio è provata.
Allo stesso invito è improntato anche l'editoriale cofirmato da Alan Schroeder, del Santa Clara Valley Medical Center di San Jose, in California, e Rita Redberg, editor della rivista Jama Internal Medicine: «Questo richiede una modifica della nostra cultura che renda più accettabile una diagnosi in assenza di immagini di conferma, e l'approccio dell'attesa vigile, e combatta la mentalità del “facciamo un altro esame che male non fa”. L'incertezza può essere destabilizzante, ma è un prezzo modesto da pagare per proteggere noi stessi e i nostri figli da migliaia di tumori prevenibili».



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sabato 16 luglio 2016

IL FORMICOLIO



Il formicolio a mani e gambe è una sensazione anormale che, oltre a generare fastidio, è anche motivo di preoccupazione, poiché non sappiamo cosa lo causa. Anche se il formicolio di solito interessa diverse parti del corpo, si presenta con maggiore frequenza nelle mani, nei piedi, nelle braccia o nelle gambe. All’inizio lo ignoriamo, ma quando si avverte di frequente e senza una ragione concreta, significa che c’è qualcosa che non va bene nel nostro organismo, è il sintomo di qualche malattia.

Esso può essere causato da un’ampia varietà di condizioni, come ad esempio una lesione da compressione (es. frattura o lussazione, ernia discale, lesione al collo o alla schiena, sindrome del tunnel carpale, lesione alla testa, pressione a carico di un nervo, dovuta ad una massa crescente o ad un tumore, permanenza nella stessa posizione per troppo tempo, causando la compressione di un nervo).

Il formicolio agli arti può essere dovuto, però, anche a malattie (es. diabete, tiroide inattiva o ipoattiva, infezioni come l’Herpes zoster, sclerosi multipla, crisi epilettiche o convulsioni, ictus, attacco ischemico o transitorio). Altre cause includono: abuso di alcolici o tabacco, carenza o eccesso di vari minerali come calcio, sodio, potassio, avvelenamento da metalli pesanti, effetti collaterali o interazioni di determinati farmaci, esposizioni a radiazioni o radioterapia, carenza di vitamina B12. Il formicolio può accompagnare altri sintomi, variabili a seconda della malattia, tra cui: pelle bluastra o fredda, intorpidimento o dolore nella stessa zona o nell’area circostante il punto interessato, debolezza muscolare, eruzione cutanea specie ad un solo lato del tronco, crisi epilettiche o convulsioni, improvvisi cambiamenti a carico della vista, perdita della vista o dolore oculare.

Il formicolio può essere uno dei sintomi della cosiddetta ipoestesia, una perdita della sensibilità, accompagnata da questa fastidiosa sensazione. Nel caso in cui avvertiate questi sintomi, bisogna fare molta attenzione perché potrebbe essere un disturbo tutt’altro che passeggero.

Quando una persona presenta problemi circolatori, è possibile che ogni tanto avverta una sensazione di formicolio. Si può avvertire questa sensazione anche nel caso di fatica e/o esaurimento nervoso. 

La malattia di Buerger è associata al consumo di tabacco. All’inizio si presenta con un dolore provocato dalla mancanza di flusso sanguigno a mani e piedi, condizione conosciuta come claudicatio intermittens. La persona avverte un formicolio costante e le si addormentano le mani, in seguito le dita di mani e piedi. Questa patologia è molto delicata, poiché se non viene tratta può, presentare complicazioni come la necrosi.



Il diabete è una delle malattie più comuni al giorno d’oggi, che si verifica quando i livelli di zucchero nel sangue aumentano. Il formicolio è un sintomo tipico di questa malattia, poiché si può presentare un flusso sanguigno insufficiente che di conseguenza può provocare questa fastidiosa sensazione di formicolio nelle gambe e nei piedi. Questo sintomo può indicare la presenza di ulcere, che bisogna trattare in tempo per evitare la formazione di necrosi.

Mani e gambe che si addormentano e formicolano è uno dei primi sintomi che si presenta nelle persone che soffrono di sclerosi multipla. Questa malattia può presentare, inoltre, sensazione di bruciore e maggiore sensibilità. Questo tipo di sensazioni dipendono dall’insufficienza del flusso sanguigno nelle zone interessate e da problemi al sistema nervoso.

La polineuropatia demielinizzante infiammatoria acuta o AIDP (sigla in inglese) è una di quelle malattie poco comuni che impedisce ai nervi di inviare segnali ai muscoli del corpo. Il formicolio è uno dei sintomi di questa malattia, e di solito si presenta nei piedi e nelle gambe, anche se col passare del tempo si estende anche alle braccia e alle mani.

Il formicolio alle estremità che di solito molte persone avvertono durante la notte può essere associato anche al disturbo noto come sindrome delle gambe senza riposo. Il formicolio è uno dei principali sintomi, ma non l’unico. Chi ne soffre può anche avvertire dolore, crampi e prurito, accompagnati da problemi di insonnia poiché diventano più forti durante le ore notturne. Questa sindrome può essere causata da anemia, insufficienza renale o neuropatie periferiche.

Il formicolio può essere lieve e derivare dalla semplice pressione a carico di un nervo, come quando un piede o una gamba si intorpidiscono (comunemente definiti "addormentati") dopo essere stati seduti nella medesima posizione per lungo tempo.

In alcuni casi, il formicolio può essere un sintomo di una condizione estremamente grave che necessita di essere valutata immediatamente in un contesto di emergenza. Occorre chiamare il 118 quando l’individuo sperimenta sintomi gravi come: variazione del livello di coscienza o vigilanza, variazione dello stato mentale o improvviso cambiamento del comportamento (es. stato confusionale, delirio, letargia, allucinazioni), incontinenza fecale, confusione nell’esprimersi o non essere in grado di parlare, intorpidimento o debolezza ad un solo lato del corpo, paralisi, parestesia a seguito di una lesione a testa, collo o schiena, improvvisi cambiamenti a carico della vista, perdita della vista o dolore oculare, movimento incontrollabile, incontinenza urinaria. Quando il formicolio si presenta in modo continuato, invasivo e si ha la sensazione che si stia spandendo in un’aria più vasta del corpo , è indispensabile rivolgersi allo specialista, che è in grado di guidarci nell’individuazione di ventuali patologie gravi che possono associarsi a un disagio apparentemente innocuo come la parestesia.

La terapia medica varia in base al tipo di disturbo sotteso dietro ai formicolii. Se sono passeggeri e causati dalla pressione continuata di un nervo, è possibile mettere in atto semplici azioni mirate a farlo passare più rapidamente (es. per svegliare un piede intorpidito, basterà esercitare una pressione per alcuni secondi, con la punta del piede verso l’alto e il tallone a contatto con il pavimento oppure massaggiando delicatamente la parte interessata finchè il formicolio cesserà di infastidire. E’ utile anche far scorrere dell’acqua fredda sull’area del corpo colpita. Se dietro la parestesia si nasconde una carenza vitaminica, l’assunzione di una dosa giornaliera di integratori potrebbe risolvere il problema. Nel caso di formicolio come conseguenza di una reazione allergica scaturita dal contatto con metalli pesanti, rivolgetevi ad un allergologo. Nel caso in cui dietro la parestesia sia causata da una carenza vitaminica, l’assunzione di una dose tal senso, può essere necessario indagare sulle cause rivolgendosi a un bravo allergologo.
Per evitare il formicolio ai piedi e alle dita dei piedi, tra i più diffusi, evitate di indossare i tacchi alti o le calzature che stringono troppo le dita o, se proprio non riuscite ad abbandonare quest’abitudine, avvaletevi dell’aiuto delle solette. Occhio a non praticare allenamenti ad alto impatto, facendo stretching prima di fare esercizi fisici, anche qui con scarpe adeguate da corsa e da ginnastica su superfici piane. Scegliete validi sport alternativi che non provocano formicolii, tra cui nuoto e ciclismo, cercate il più possibile di perdere peso perché è risaputo che sovrappeso e obesità aumentano questa fastidiosa sensazione. Dato che lo stare seduti a gambe incrociate o accavallate per lunghi periodi può portare ad una certa insensibilità, cambiate spesso posizione per aiutare la circolazione sanguigna e liberare le arterie strozzate. Indossate calze a compressione e calzini per aumentare la sensibilità delle dita, riducete l’alcol e tenete i piedi a caldo con una coperta riscaldata.




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martedì 12 luglio 2016

SCROCCHIARE LE DITA



Scrocchiare le dita lo facciamo quasi tutti e solitamente con una certa dose di soddisfazione. Le articolazioni delle nostre dita sono immerse in un liquido chiamato fluido sinoviale, che ha lo scopo di nutrire i tessuti e lubrificare le giunzioni articolari.

Quando muoviamo le dita, il fluido rilascia dei composti  gassosi che riempiono lo spazio vuoto nei punti di giuntura, andando a formare piccole bolle.

Quando si scrocchiano le dita, la pressione nel fluido si abbassa di colpo e le bollicine d’aria esplodono dando origine a una miriade di bollicine più minute, che impiegano poi un tempo considerevole a ricomporsi.

Nel 1990 su Annals of Rheumatic Diseases è comparso uno studio che spiegava come, più che l'osteoartrite, scrocchiare le dita può provocare rigonfiamento delle mani e una diminuzione generale della forza nella presa manuale. Ma a parte queste controindicazioni, scocciare le dita non produce danni. E neppure benefici.
             
Del tema si occupò anche un medico californiano cercando di indagare questa credenza popolare sulla propria pelle: per sessant'anni ha scrocchiato le dita di una mano sola, lasciando l'altra in pace. Ebbene, comparando gli effetti sulle mani, è arrivato alla conclusione che tormentare le dita per sentirne il rumore non ha nessuna incidenza, non aumenta i rischi di sviluppare artriti.

Naturalmente lo studio del medico non ha molto valore scientifico, tanto che gli è valso il premio Ig Nobel nel 2009. In ogni caso ha sfatato il mito dell'artrite legata allo schiocco delle dita.



Provocare forzatamente lo scrocchio può anche essere dannoso quando comporta un movimento anomalo di rotazione dell’articolazione che, se fatto spesso, potrebbe causarne l’infiammazione.

Si narra che Franz Liszt, il celebre compositore ungherese, fosse solito, prima di esibirsi al pianoforte, scrocchiarsi le dita per rendere più fluide le mani. Un’abitudine che hanno in molti e che dà una certa soddisfazione. Il gesto, diffuso soprattutto tra gli adolescenti, viene spesso ripetuto anche in età adulta, come antidoto ad ansia, stress, insicurezza, noia. Ma non tutti compiono questo movimento con la stessa disinvoltura: riesce semplice a chi ha ampio spazio tra le giunture, più difficile a chi ha spazi ristretti.
Scrocchiarsi le dita (ma anche il ginocchio, il gomito, il polso, il collo) non ha nulla a che fare con le ossa in senso stretto, come alcuni credono, ma riguarda le articolazioni, strutture costituite da due o più superfici cartilaginee separate dal liquido sinoviale, una sottile pellicola che agisce come un lubrificante, e tenute insieme da elementi come la capsula, i legamenti e i tendini. «Una trazione dell’articolazione, come lo stato di massima flessione, comporta una modifica della pressione del liquido sinoviale che già si trova in un ambiente a pressione negativa», spiega Maurilio Bruno, responsabile dell’unità operativa di Chirurgia della mano II dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi (Gruppo Ospedaliero San Donato). «Se la pressione idrostatica aumenta, i gas contenuti in soluzione nel liquido, come diossido di carbonio e idrogeno, si riuniscono raccogliendosi in bolle. La rottura di queste bolle è accompagnata dal caratteristico rumore secco che sentiamo». Dopo il croc, i gas tornano lentamente in soluzione per essere poi disponibili di nuovo a trasformarsi in bolle: il tutto richiede circa 20 minuti e ciò spiega perché, dopo essersi scrocchiati le dita, bisogna aspettare un po’ prima di poter ripetere il gesto.



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domenica 10 luglio 2016

ENDOCARDITE



L'incidenza complessiva non si è modificata in misura significativa negli ultimi trent'anni. L'incidenza negli uomini è circa il doppio rispetto alle donne. Tuttavia, l'età media di insorgenza è aumentata dai 35 anni circa dell'era preantibiotica a > 50 anni. Oggi si assiste anche a un aumento dell'incidenza di endocardite del cuore destro, in associazione all'uso di stupefacenti EV e a procedimenti diagnostici e terapeutici che richiedono il cateterismo di vasi sanguigni. La cardiochirurgia e le altre tecniche invasive hanno portato a un'aumentata incidenza di endocardite in ambiente ospedaliero (10-15% in recenti casistiche).

L'endocardite è uno stato infiammatorio dell'endocardio, il tessuto che riveste le cavità interne e le valvole del cuore; in particolare, i tessuti endocardici maggiormente coinvolti nella malattia infettiva risultano essere le valvole cardiache.

L'incidenza della malattia risulta in continua crescita per quanto riguarda i neonati e i bambini (1 su 4.500, mentre è molto più bassa nei Paesi Bassi). Quando sono coinvolti i nascituri il rischio di mortalità è molto elevato.

Costituiscono fattori di rischio molte malattie cardiache e altre condizioni fra cui:
prolasso valvolare mitralico, soprattutto se associato a insufficienza della valvola (rigurgito di sangue dal ventricolo sinistro all'atrio sinistro).
Nell'anziano esiti di cardiopatia reumatica (7-18%), valvola aortica bicuspide, stenosi e calcificazioni valvolari degenerative.
Cardiopatie congenite, trilogia e tetralogia di Fallot, pervietà di setto atriale o ventricolare, stenosi della polmonare isolata, valvola aortica bicuspide.
Sindrome di Marfan, per predisposizione a prolasso e insufficienza mitralica.
Esiti di infarto del miocardio.
Nutrizione parenterale continua, catetere venoso centrale.
Tossicodipendenza, con maggiore manifestazione del cuore destro.
Pazienti portatori di protesi valvolari, soprattutto se diabetici e/o immunodepressi.

Si distinguono due macrocategorie eziologiche: cause infettive e cause non infettive. Queste ultime, più rare, si caratterizzano per emocoltura negativa e per la presenza di vegetazioni endocardiche sterili; tra queste, la più importante è sindrome di Libman-Sacks, estrinsecazione endocardica del lupus eritematoso sistemico. Nei soggetti anziani, affetti da carcinomi metastatici può presentarsi una "endocardite marantica", soprattutto in presenza di adenocarcinoma mucinoso o di sindrome di Trousseau. L'eziologia della endocarditi infettive varia in base all'età e alle condizioni predisponenti. I due generi batterici più frequenti sono lo Staphylococcus e lo Streptococcus. Tra i primi è di particolare importanza lo Staphylococcus aureus, molto spesso correlato a procedure invasive e in grado di infettare valvole native. Gli stafilococchi coagulasi negativi (come Staphylococcus epidermidis, Staphylococcus lugdunensis, Staphylococcus hominis) insorgono invece più frequentemente su valvole protesiche. Tra gli streptococchi assumono particolare importanza gli streptococchi di gruppo D (come Streptococcus bovis, Streptococcus galloliticus, presenti nel tratto gastrointestinale) e gli streptococchi viridanti (come Streptococcus mutans, Streptococcus oralis, Streptococcus salivarius, presenti nel cavo orale), entrambi genere in grado di infettare valvole native o protesiche. Occorre inoltre ricordare che un ampio gruppo di batteri possono provocare endocardite, tra questi:
Enterococcus faecalis
Pseudomonas aeruginosa, soprattutto nei tossicodipendenti
Enterobacteriaceae
Neisseria
Gruppo HACEK
Brucella
Yersinia
Listeria
Coxiella
Bacterioides
Acinetobacter
Corynebacterium
Deve essere altresì ricordato che un'endocardite infettiva può essere sostenuta da Candida albicans, soprattutto in soggetti immunocompromessi, sottoposti a intervento cardiochirurgico o in terapia endovenosa attraverso catetere venoso centrale.

In condizioni normali, il sistema immunitario riconosce e difende l'organismo dagli agenti infettivi, i quali - anche se riuscissero a raggiungere il cuore - risulterebbero innocui, attraversandolo senza causare un'infezione. Tuttavia, se le strutture cardiache sono danneggiate, come conseguenza di febbre reumatica, difetti congeniti o altre malattie, possono subire l'aggressione dei microrganismi. In queste condizioni, per i batteri penetrati nell'organismo attraverso il circolo sanguigno è più facile attecchire nel rivestimento interno del cuore, superando la normale risposta immunitaria alle infezioni. Quando si verifica la situazione ideale, gli agenti infettivi possono organizzarsi formando delle masse chiamate "vegetazioni" (lesioni caratteristiche dell'endocardite batterica) presso il sito di infezione, sia esso una valvola cardiaca o altre strutture del cuore, inclusi i dispositivi impiantati. Esiste il rischio che queste masse cellulari agiscano in modo simile a coaguli di sangue, bloccando l'apporto di sangue agli organi e inducendo insufficienza cardiaca o innescando un ictus. All'analisi al microscopio, queste vegetazioni evidenziano la presenza di microcolonie di microrganismi infettanti, incorporati in un reticolo di piastrine, fibrina e poche cellule infiammatorie.



Se l'endocardite è trascurata, l'infiammazione può danneggiare o distruggere i tessuti endocardici o le valvole cardiache e portare a complicazioni pericolose per la vita. Se si dispone di un difetto cardiaco, particolari procedure mediche possono creare una batteriemia transitoria potenzialmente responsabile di endocardite: tonsillectomia, adenoidectomia, chirurgia intestinale e respiratoria, cistoscopia, broncoscopia, colonscopia ecc. Il rischio di endocardite esiste anche quando il paziente si sottopone ad alcune procedure dentistiche.
Lavarsi i denti, masticare il cibo e altre attività che interessano il cavo orale possono permettere ai batteri di entrare nel flusso sanguigno. Il rischio aumenta se i denti e gengive sono in cattive condizioni, poiché possono rappresentare le porte di ingresso per i batteri.
I microrganismi possono diffondere dal sito di un'infezione pre-esistente (esempio: gengivale o cutanea) al sangue, e da qui al cuore. I batteri possono anche derivare da una malattia a trasmissione sessuale, come la clamidia o la gonorrea. Anche certi disturbi intestinali possono dare l'opportunità ai batteri di entrare nel flusso sanguigno. Qualsiasi atto medico che prevede il posizionamento di uno strumento all'interno del corpo comporta un piccolo rischio di introdurre batteri nel flusso sanguigno (esempio: interventi al tratto intestinale, genitale, urinario o asportazione delle tonsille o delle adenoidi). Lo stesso discorso vale anche per alcune procedure odontoiatriche che possono causare sanguinamento (avulsioni, impianto).
I batteri possono entrare nell'organismo attraverso un catetere, un tubo sottile che viene utilizzato per svuotare la vescica (se vescicale), per la perfusione di una soluzione medicamentosa o per il drenaggio di liquidi. Anche il laparoscopio è uno strumento che potenzialmente può associarsi ad infezione (è un piccolo tubo flessibile che ha una sorgente di luce ed una telecamera ad una estremità, utilizzato per diagnosticare e trattare una vasta gamma di condizioni cliniche). I batteri che possono causare endocardite possono anche accedere al flusso sanguigno attraverso gli aghi utilizzati per un tatuaggio o un piercing. Le siringhe contaminate rappresentano una potenziale fonte di infezione per le persone che fanno uso di droghe per via endovenosa.
I consumatori abituali di eroina o metamfetamine presentano un rischio tre volte più elevato di sviluppare endocardite rispetto alla popolazione generale. Questa condizione è determinata soprattutto da iniezioni ripetute e dall'utilizzo di aghi non sterili, spesso contaminati con i batteri che possono causare endocardite.

L'endocardite causata da un'infezione fungina è più rara e di solito è associata ad un quadro clinico più grave.
Il rischio di endocardite fungina aumenta, in caso di:
Intervento chirurgico;
Catetere venoso centrale, che consiste in un tubicino collegato ad una vena del collo, inguine o torace, utilizzato per fornire medicinali e/o fluidi a persone gravemente malate;
Sistema immunitario indebolito, come risultato di una condizione immunosoppressiva (come l'HIV) o come effetto collaterale ad alcuni tipi di trattamento, come la chemioterapia.

Molti sono i sintomi e i segni clinici che si riscontrano nelle persone affette da questa patologia:
Febbre, anemia (talora piastrinopenia), sudorazione, sensazione di brivido;
Anoressia, astenia, artralgie (40% dei casi), splenomegalia (30% dei casi), emboli settici (30% dei casi) in cute, palato e congiuntive, con segni caratteristici come noduli periungueali di Osler, macchie cutanee a fiamma di Janeway, lesioni retiniche di Roth, leucocitosi. Possono inoltre manifestarsi infarti embolici renali, glomerulonefrite focale o diffusa e altre patologie da immunocomplessi.

La diagnosi si pone con almeno due su tre dei criteri maggiori:
Ecocardiogramma - che presenta vegetazioni valvolari
Coltura positiva per stafilococchi o streptococchi
Presenze di un soffio cardiaco generato da valvulopatia endocarditica.
La diagnosi si può porre anche con uno solo dei criteri maggiori (ECOcardio, coltura positiva, nuovo soffio cardiaco) e almeno tre tra le varie manifestazioni minori.

Il trattamento da seguire per tale malattia è molto studiato in letteratura ma rimane ancora controverso, preferendo un intervento chirurgico di resezione e sostituzione valvolare.

Le complicanze più severe derivano dalla formazione di coaguli ematici sulle superfici danneggiate. Questi coaguli, successivamente, si rompono ed entrano nella circolazione come emboli, rappresentando potenziali cause di ictus, infarto miocardico e insufficienza renale.
Se non trattata, l'endocardite batterica può anche indurre:
Insufficienza cardiaca;
Disfunzione valvolare;
Ascessi cardiaci;
Estensione dell'infezione (formazione di ascessi in altre parti del corpo, come cervello, reni, milza o fegato);
Embolie sistemiche.
Se l'endocardite batterica progredisce e non è adeguatamente trattata, di solito è fatale.


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sabato 9 luglio 2016

EFFETTI DI UNO SCHIAFFO SULL'ORECCHIO



La membrana timpanica è una struttura dello spessore di pochi decimi di millimetro, che viene posta in vibrazione dalle onde sonore e trasmette la loro energia alla catena degli ossicini. Per proteggerla dai traumi, la natura ha collocato la sottile membrana in profondità dentro il cranio, a circa 3 cm dalla superficie.
Il condotto uditivo che conduce alla membrana è dotato di due curvature che servono ad evitare impatti diretti di corpi estranei.
Malgrado ciò può accadere che la membrana venga accidentalmente forata.

Chi riceve uno schiaffo sull'orecchio subisce una compressione immediata dell'aria contenuta nel condotto. Questa aria compressa spinge la membrana verso l'interno e in alcuni casi ne produce la lacerazione. Nei giocatori di molti sport con la palla una pallonata sull'orecchio può produrre lo stesso effetto di uno schiaffo. Molte persone hanno l'abitudine di pulirsi le orecchie con bastoncini cotonati e questi possono essere una causa traumatica diretta di perforazione. A volte la causa diretta è accidentale, per esempio chi sta all'aria aperta può perforarsi l'orecchio perchè si sdraia su un prato o penetra in un cespuglio e un ramuscolo gli entra nell'orecchio.

I sintomi in caso di perforazione sono variabilissimi e dipendono dall'ampiezza, dalla rapidità con cui si è instaurata e dall'ambiente in cui si verifica. La perforazione è quasi sempre dolorosa e provoca una immediata sensazione di orecchio chiuso. Molto pericolosa è la perforazione che avviene sott'acqua per eccessiva pressione (barotrauma). Se una persona è immersa in acqua e si rompe il timpano si determina, oltre al dolore per la lacerazione, anche una vertigine. L'acqua fredda penetra nell'orecchio medio e scatena un riflesso particolarissimo: il nistagmo. Il nistagmo è un movimento molto rapido, di solito orizzontale/rotatorio degli occhi. In quel momento il soggetto perde il rapporto con l'ambiente circostante vedendo muoversi tutto ciò che sta attorno a lui. Questa sensazione (vertigine) è spiacevolissima quando si sta coi piedi per terra; diventa terribile quando la si prova durante una immersione.



Esiste una differenza sostanziale tra perforazione recente e non recente.
Nel caso di un sospetto di perforazione l'otoscopia è indispensabile.
Se la perforazione è recente (alcuni giorni) e piccola è possibile fare piccoli interventi, anche in anestesia locale, per cercare di stimolare le fibre lacerate a rigenerare e a ricostruire la parte mancante. Si cerca e non poche volte si riesce a stimolare la cicatrizzazione; arrivando così alla chiusura.
Quando i margini sono sclerotici la perforazione è di vecchia data. In questi casi è importante il diametro e la posizione della perforazione timpanica. In rapporto a questi parametri si potrà proporre un trattamento microchirurgico per la chiusura della perforazione stessa. L'intervento per la sola riparazione della perforazione si chiama miringoplastica.



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VENE VARICOSE



Le vene varicose sono dilatazioni e tortuosità delle vene superficiali, che affliggono circa il 20-30% delle donne e il 10% degli uomini e possono causare dolori e alterazioni cutanee, nonché esporre al rischio di complicanze, più o meno gravi. «Le varici sono la manifestazione più evidente dell’insufficienza venosa cronica, condizione che prende avvio da una riduzione del tono dei vasi venosi e dal mal funzionamento delle valvole che regolano la risalita del sangue dai piedi al cuore — spiega Roberto Chiesa, direttore della cattedra di Chirurgia vascolare dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano —. Ciò favorisce il refluire di una certa quantità di sangue nelle parti più basse della gamba, dove tende a ristagnare, provocando un aumento della pressione venosa».
«Prima che compaiano varici evidenti, si presentano in genere disturbi circolatori (gambe pesanti, gonfiore alle caviglie, capillari superficiali, formicolii) che non vanno trascurati. Intervenendo presto con misure preventive, come specifiche calze elastiche e farmaci flebotonici che proteggono i vasi venosi, è possibile attenuare i sintomi e, allo stesso tempo, rallentare la progressione dell’insufficienza venosa. D’aiuto anche accorgimenti nello stile di vita, come dimagrire se si è sovrappeso, fare esercizio e seguire una dieta equilibrata. Una volta che il danno è fatto e si hanno varici conclamate delle vene safene (grande e piccola) oppure complicanze come flebiti, tromboflebiti, ulcere, spesso non resta che ricorrere al bisturi».

Le varici vengono generate principalmente da:
aumento della pressione intraluminale venosa (causata ad es. da compressione dei vasi)
trombosi delle vene profonde
insufficienza delle valvole venose
Esiste una predisposizione genetica alla costituzione della debolezza delle pareti venose, oltre a fattori a rischio tipicamente femminili e alla posizione eretta che agevolano la patologia. Le vene, diversamente dalle arterie, non posseggono uno strato muscolare molto sviluppato, quindi la vena si dilata quando la parete tende a rilasciarsi, a causa di una quantità di sangue transitante superiore alla norma oppure per un suo rallentamento. Questo processo può essere contrastato dai muscoli che circondano la vena, ma se la loro spinta è insufficiente allora la dilatazione può divenire costante. L'evoluzione della malattia varicosa nella maggioranza dei casi è ascendente dal basso verso l'alto. La gravidanza, l'età e l'obesità rappresentano fattori di rischio specifici per le donne.

Prima che appaiano i tipici cordoni bluastri, è buona norma accorgersi dei campanelli di allarme quali i crampi notturni ed i gonfiori ai piedi e alle caviglie, pesantezza o dolore, formicolii agli arti ed ai piedi, raffreddamento di alcune zone delle gambe, colorazione giallo grigiastro della pelle, presenza di piccoli noduli sottopelle, facilità all'ematoma, pelle secca e lucida con comparsa di eczemi.

La sede di maggior presenza di varici è rappresentata dagli arti inferiori, specificatamente in individui con lunga permanenza eretta. Si presentano anche a livello faringe, dell'esofago, della vagina, della vulva, utero e testicoli.

La vena safena grande parte dal malleolo interno e raggiunge la cresta iliaca. La piccola vena safena e i suoi rami laterali si trova a livello dei polpacci.

Assicura il 90% del drenaggio venoso, soprattutto grazie alla pompa muscolare ma anche a quella articolare.

Permette il passaggio del sangue dalla rete superficiale a quella profonda. È suddivisibile in tre gruppi
gruppo DODD: faccia mediale della coscia, terzo medio
gruppo BOYD: faccia mediale della gamba, immediatamente sotto il ginocchio
gruppo COCKETT: tre vene perforanti sulla faccia mediale della gamba, nel terzo inferiore, a circa 7, 14, 18 centimetri dalla pianta del piede.

Le indicazioni principali risiedono nella postura non eretta e nell'utilizzo di calze elastiche. Beneficio sembra poter derivare anche dall'assunzione di dobesilato o tribenoside, applicabile localmente anche nella forma farmaceutica di crema. Nella forma radicale si ricorre all'intervento diretto sulla vena interessata attraverso iniezioni sclerosanti (scleroterapia) o l'utilizzo di eparinoide che tende a migliorare il microcircolo. In alcuni casi è necessario ricorrere alla tecnica chirurgica chiamata "stripping" per eliminare le vene malate.



La crossectomia consiste nella legatura della safena interna a raso della vena femorale comune e nella legatura di tutte le affluenti dell’arco safenico. La stessa cosa si può fare per la piccola safena effettuando la legatura a raso della vena poplitea. Questo intervento può essere eseguito da solo o associato allo stripping.
Lo stripping lungo consiste nell’eseguire una legatura della safena interna (o grande safena) o esterna (o piccola safena)  alla cross (crossectomia) e successivamente asportare l’asse safenico fino al malleolo.
Lo stripping corto si esegue per la safena interna. Consiste nell’asportazione della vena dall’inguine fino al ginocchio.
La scleroterapia consiste nella iniezione nella vena di una sostanza capace di innescare una flebite chimica e successivamente di obliterare la vena. L’obliterazione della vena ha gli stessi effetti della sua asportazione.
La laserterapia consiste nell’inserire nella vena una sonda Laser e successivamente bruciarla in modo da ottenerne una obliterazione simile a quella della scleroterapia.

Le norme igieniche più importanti da seguire per prevenire o limitare l'insorgenza della malattia varicosa, sono:
Camminare almeno un'ora al giorno;
Chi è costretto a prolungate posizioni in piedi, dovrebbe eseguire periodicamente esercizi ginnici di "allungamento";
Chi invece assume a lungo una posizione seduta, dovrebbe ogni tanto sgranchire le gambe;
Evitare la lunga esposizione al caldo;
Evitare bagni con acqua troppo calda;
Evitare di indossare calzature strette;
Indossare calze elastiche;
Dormire mantenendo una posizione dei piedi più alta rispetto alla testa;
Mantenere un peso corporeo nella norma;
Adottare una dieta ricca di Vitamina C e di fibre.
Esami:
Doppler per diagnosticare l'insufficienza venosa;
Ecocolordoppler per diagnosticare il flusso venoso profondo;
Manovra di Trendelenburg per esaminare la gamba e il flusso sanguigno dal circolo superficiale a quello profondo;
Pletismografia per verificare l'efficienza del sistema venoso;
Videocapillaroscopia per localizzare anche il più piccolo disturbo del sistema venoso;
Flebografia per diagnosticare una eventuale trombosi all'interno di un vaso sanguigno.
Fattori di rischio:
Ereditarietà che compare spesso nell'ambito della famiglia affetta da questo disturbo;
Sesso visto che le varici sono più frequenti nelle donne;
Età che è direttamente collegata con l'incidenza della malattia;
Difetti del piede e della postura
Utilizzo per almeno un periodo superiore a 5 anni di anticoncezionali orali
Obesità che provoca una modifica del ritorno venoso;
Stitichezza che ostacola il ritorno venoso;
Caldo che causa vasodilatazione;
Attività occupazionali che prevedono il mantenimento della stazione eretta per tempi prolungati;
Gravidanza a causa della variazioni ormonali.

Esse rappresentano una patologia frequente ma generalmente ben sopportata, per cui comunemente il paziente adotta spontaneamente rimedi come il riposo con gambe sopraelevate, calze elastiche, massaggi con opportune pomate. Solo in rari casi quindi le vene varicose giungono all'attenzione del medico.
Solamente l'1,1% dei maschi ed il 2,2% delle femmine vengono ricoverati per intervento chirurgico alle varici degli arti inferiori. Le sedi più frequentemente colpite sono rappresentate dalle vene superficiali degli arti inferiori.

Nella popolazione generale la malattia varicosa ha una frequenza del 15-30%, se si considera unicamente la degenerazione dei sistemi della vena Safena e delle sue collaterali; qualora si voglia estendere il concetto anche alle modeste varicosità di rilevanza solamente estetica, tale cifra arriva al 35%. Esiste una notevole differenza fra i vari Paesi: la malattia è molto più frequente in Europa che non in Africa o in Asia, dove si riscontra una prevalenza 10 volte inferiore.



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LE ADERENZE ADDOMINALI



Le aderenze addominali sono zone di tessuto che si formano tra i tessuti e gli organi addominali; normalmente i tessuti e gli organi interni hanno una superficie scivolosa, che permette loro di muoversi facilmente seguendo i movimenti del corpo, le aderenze fanno invece incollare i tessuti e gli organi tra loro.

Di solito le aderenze non provocano sintomi né problemi, però in alcuni casi possono causare dolore addominale o pelvico cronico; le aderenze inoltre sono una delle cause principali delle ostruzioni intestinali e dell’infertilità femminile.

La causa più frequente delle aderenze addominali sono gli interventi chirurgici: quasi tutti i pazienti che si sottopongono a un intervento nella zona addominale soffriranno di aderenze, tuttavia il rischio è maggiore in seguito ad interventi sulla parte bassa dell’addome e sulla zona pelvica (ad esempio gli interventi all’intestino e gli interventi ginecologici).

Con l’andare del tempo le aderenze possono ingrandirsi e indurirsi, causando problemi anche ad anni di distanza dall’operazione.

Tra le cause chirurgiche delle aderenze addominali:
incisioni dei tessuti, soprattutto quelli degli organi interni,
manipolazione degli organi interni,
asciugamento dei tessuti e degli organi interni,
contatto dei tessuti interni con corpi estranei, come garze, guanti chirurgici e punti di sutura,
sangue o coaguli non perfettamente puliti durante l’intervento.
Tra le cause meno frequenti delle aderenze addominali ricordiamo l’infiammazione dovuta a cause non collegate all’intervento chirurgico; ad esempio:
appendicite, e in particolare rottura dell’appendice,
radioterapia,
infezioni ginecologiche,
infezioni addominali.
In rari casi le aderenze addominali si formano senza un motivo apparente.

Nella maggior parte dei casi le aderenze addominali sono asintomatiche, ma il sintomo più frequente è il dolore addominale o pelvico cronico, che spesso assomiglia a quello provocato da altri disturbi come l’appendicite, l’endometriosi e la diverticolite.

Le aderenze intestinali possono spostare l’intestino od esercitare pressione su di esso, causando un’ostruzione intestinale. L’ostruzione intestinale impedisce completamente o parzialmente il movimento degli alimenti o delle feci nell’intestino, è una situazione pericolosissima per la quale è necessario ricorrere immediatamente al medico e spesso anche all’intervento chirurgico.

Tra i sintomi dell’ostruzione intestinale:
dolore o crampi addominali severi,
vomito,
sensazione di gonfiore o di “aria ferma” nella pancia,
pancia che brontola,
gonfiore addominale,
costipazione.
Chi soffre di questi sintomi dovrebbe rivolgersi immediatamente al medico.

Le aderenze intestinali causano l’infertilità femminile perché impediscono agli ovuli fecondati di raggiungere l’utero, dove dovrebbe svilupparsi il feto. Le aderenze possono far torcere o spostare le tube (i tubicini che permettono il passaggio degli ovuli dall’ovaio, dove vengono conservati, all’utero).

Per diagnosticare le aderenze purtroppo non esiste alcun esame specifico: le aderenze, infatti, non possono essere diagnosticate con gli esami tradizionali come le radiografie o le ecografie.

Nella maggior parte dei casi vengono scoperte durante l’intervento chirurgico; le ostruzioni intestinali, tuttavia, possono essere diagnosticate con le radiografie.

La maggior parte delle aderenze addominali non causa alcun problema e quindi non richiede alcuna terapia.

L’intervento chirurgico attualmente è l’unico modo per eliminare le aderenze che provocano dolore, ostruzioni intestinali o problemi di fertilità, però fa aumentare il rischio di formazione di nuove aderenze e quindi dovrebbe essere evitato a meno di assoluta necessità.

Per l’ostruzione intestinale completa normalmente è necessario un intervento chirurgico d’urgenza; l’ostruzione parziale, in alcuni casi, può essere alleviata ricorrendo a una dieta liquida o povera di scorie. La dieta povera di scorie è povera di latte e derivati e fibre, e composta principalmente da alimenti facilmente digeribili.

È molto difficile prevenire le aderenze addominali, tuttavia alcune tecniche chirurgiche sono in grado di minimizzare il rischio.

La laparoscopia è una tecnica chirurgica che evita di praticare incisioni vistose sull’addome, l’addome viene gonfiato con un gas, mentre gli strumenti chirurgici e la videocamera vengono inseriti attraverso alcune piccole incisioni. Il gas serve per gonfiare l’addome e per aumentare lo spazio di manovra del chirurgo.

Se invece si deve procedere con un intervento tradizionale, alla fine dell’operazione può essere inserita una sorta di pellicola tra gli organi oppure tra gli organi interni e l’incisione addominale. La pellicola, simile alla carta oleata, verrà riassorbita dall’organismo nel giro di una settimana.

Per diminuire il rischio di aderenze durante gli interventi chirurgici è anche possibile:
usare guanti senza amido né lattice,
maneggiare con prudenza i tessuti e gli organi,
diminuire la durata dell’intervento,
non permettere ai tessuti di disseccarsi.

Le aderenze sono il risultato di normali processi di riparazione dei tessuti a seguito di un trauma meccanico, di processi infettivi, infiammatori che portano alla formazione di fibrina nell’area della lesione e quindi ad una reazione cicatriziale massiva di tessuto fibroso. Questa reazione porta all’accollamento dei tessuti e di alcuni organi pelvici tra loro come intestino, utero, ovaie, tube, retto ed altro.

Tra i fattori infiammatori che possono creare aderenze gioca un ruolo molto importante l’endometriosi. Questa è una malattia endocrina, su base infiammatoria, dovuta alla presenza di tessuto endometriale, cioè della mucosa che generalmente ricopre l'interno dell'utero, in zone diverse dalla cavità uterina. Lo stesso problema si definisce adenomiosi se il tessuto endometriale si ritrova nello spessore del muscolo uterino.

Al di fuori dell’utero colpisce le ovaie sotto forma di cisti, mentre provoca nell’intestino, nella vescica, nelle tube e nel peritoneo noduli bluastri, lesioni rosse (red flame) o anche lesioni madreperlacee quasi invisibili.

Questo accade perché una parte dell’endometrio (lo strato interno dell’utero) durante la mestruazione passa attraverso le tube e va in addome dove invece di riassorbirsi si solidifica formando come dei gettoni che sanguinano ad ogni ciclo (come succede all’endometrio) e danneggiano i tessuti così da formare aderenze, dolore pelvico e sterilità.



Queste aderenze alterano la posizione di alcuni organi pelvici ed in particolare delle tube che possono essere distorte o anche strozzate lungo il loro decorso. Ciò può impedire agli spermatozoi ed agli ovociti di muoversi e quindi di incontrarsi all’interno delle tube. In effetti si calcola che il 40% dei casi di sterilità sia dovuto proprio alla presenza di aderenze pelviche.

L’endometriosi in particolare può causare infertilità anche perché l’endometrio, che passa attraverso le tube ad ogni mestruazione, essendo ricco di sostanze infiammatorie, può alterare la funzionalità delle ciglia interne alla tuba e quindi bloccare il trasporto degli ovociti o anche creare delle vere e proprie reazioni cicatriziali che occludono le tube.

La Sindrome di Asherman, o aderenze intrauterine o sinechie, è una patologia intrauterina acquisita, caratterizzata dalla formazione di aderenze (tessuto cicatriziale) nell’utero. In molti casi le pareti anteriore e posteriore dell’utero si accollano l’una all’altra. In altri casi le aderenze si formano solo in una piccola parte dell’utero. L’estensione delle aderenze determina se il caso è lieve, moderato o grave. Le aderenze possono essere sottili o spesse, possono essere localizzate solo in alcune zone o possono essere confluenti. Sono generalmente non vascolarizzate, un elemento importante che aiuta nel trattamento.

La maggior parte delle pazienti con la Sindrome di Asherman hanno mestruazioni molto scarse o assenti (amenorrea) ma altre hanno cicli normali. Alcune pazienti non hanno mestruazioni ma avvertono dolori ogni mese in corrispondenza del periodo in cui il loro ciclo dovrebbe normalmente arrivare. Il dolore potrebbe indicare che la mestruazione sta avvenendo ma che il ciclo è impossibilitato ad uscire a causa delle aderenze che bloccano la cervice. Anche poliabortività e infertilità potrebbero essere considerati come altri sintomi.
La Sindrome di Asherman si verifica quando un trauma all’endometrio impedisce il normale processo di risanamento facendo sì che le aree danneggiate si fondano insieme. Generalmente le aderenze intrauterine ricorrono dopo una revisione strumentale della cavità uterina (raschiamento) effettuata a causa di un aborto ritenuto o incompleto o a causa di una ritenzione placentare, con o senza emorragia dopo un parto, o a seguito di un aborto elettivo. Le revisioni legate ad una gravidanza costituiscono il 90% dei casi di Asherman. A volte le aderenze si formano a seguito di altri tipi di interventi chirurgici all’utero come un taglio cesareo, interventi per rimuovere fibromi o polipi, o nei paesi in via di sviluppo, come risultato di infezioni come una tubercolosi genitale e schistosomia. Il rischio di sviluppare l’Asherman da una revisione è del 25% se effettuato tra la seconda e la quarta settimana post parto. Allo stesso modo le revisioni portano a sviluppare l’Asherman nel 30,9% delle procedure effettuate per aborto ritenuto e nel 6,4% per aborto incompleto. Il rischio di sviluppare l’Aherman è maggiore in rapporto al numero di revisioni effettuate; dopo una sola revisione il rischio è il 16% mentre dopo 3 o più revisioni il rischio sale al 32%. Ogni caso di Sindrome di Asherman è diverso dagli altri e la causa deve quindi essere determinata su base individuale. In alcuni casi, l’Asherman potrebbe essere stato causato da una revisione troppo aggressiva. Tuttavia si considera che questo spesso non sia il caso. La placenta potrebbe essersi attaccata in maniera molto profonda all’endometrio oppure potrebbe esserci stata un’attività fibrotica dei prodotti ritenuti del concepimento, in entrambi i casi potrebbe essere difficile rimuovere i tessuti ritenuti senza causare danni allo strato basale dell’endometrio.

Esiste una variante della Sindrome di Asherman molto più difficile da trattare. Si tratta della cosiddetta “unstuck Asherman” o sclerosi endometriale. In questa situazione, che potrebbe coesistere con la presenza di aderenze, le pareti dell’utero non aderiscono tra loro ma purtroppo l’endometrio è stato denudato. Sebbene una revisione possa causare questa condizione, ciò avviene generalmente dopo un intervento chirurgico all’utero, come una miectomia. In questi casi l’endometrio, o comunque il suo strato basale, è stato rimosso o distrutto.

Si ritiene che i casi Sindrome di Asherman siano sottostimati a causa della quasi impossibilità di diagnosticarla con le più comuni procedure come l’esame ecografico. Si stima che questa condizione affligga 1,5% delle donne che si sottopongono ad isterosalpingografia, tra il 5 e il 39% delle donne con aborti ricorrenti, e fino al 40% delle pazienti che sono state sottoposte a revisione a causa della ritenzione di prodotti del concepimento a seguito di un parto o di un aborto incompleto.

L’isteroscopia, con la diretta visualizzazione dell’utero, rappresenta il metodo più affidabile di diagnosi. Altri metodi sono la sonoisterografia (SIS) e l’isterosalpingografia (ISG).

Idealmente la prevenzione sarebbe la miglior soluzione. E’ stato suggerito sin dal 1993  che l’incidenza delle aderenze intrauterine IUA potrebbe essere più bassa utilizzando lo svuotamento medico dell’utero, evitando così l’utilizzo di strumenti all’interno dell’utero. Oggi, uno studio supporta questo idea, mostrando che le donne trattate per aborto ritenuto con misoprostol non sviluppano aderenze, mentre il 7,7% di quelle sottoposte a revisione sviluppano IUA. Il vantaggio è che può essere usato per lo svuotamento non solo a seguito di aborti, ma anche a seguito di una nascita in caso di placenta ritenuta o di emorragia. In alternativa, la revisione potrebbe essere eseguita sotto controllo ecografico piuttosto che alla cieca. Ciò consentirebbe al chirurgo di smettere di raschiare l’endometrio quando tutti i tessuti ritenuti sono stati rimossi evitando danni. Il monitoraggio precoce della gravidanza per identificare aborti può prevenire lo sviluppo di, o se del caso evitare la ricorrenza, dell’Asherman, visto che più lungo è il periodo che intercorre tra la morte fetale e la revisione e maggiore è il rischio che si sviluppino aderenze. Quindi lo svuotamento immediato a seguito della morte fetale potrebbe prevenire le IUA. Non ci sono prove che suggeriscano che la revisione con isterosuzione possa avere minori probabilità di far sviluppare l’Asherman rispetto alla revisione tradizionale con currette. Sono stati riportati casi di Asherman anche a seguito di suzione-aspirazione manuale e il tasso di casi di Asherman non è sceso dallì’introduzione della revisione con isterosuzione.

La Sindrome di Asherman dovrebbe essere trattata per via isteroscopica (a volte assistita per via laparoscopica) da parte di un chirurgo molto esperto. I pochi chirurghi sufficientemente esperti da trattare i casi gravi di Sindrome di Asherman raccomandano di evitare l’uso di fonti di energia all’interno dell’utero (ciò significa che la rimozione delle aderenze dovrebbe avvenire con l’uso di forbici piuttosto che con strumenti che generano energia come resettoscopi e lasers, sebbene non tutti i chirurghi siano d’accordo su questo). Le aderenze hanno la tendenza a riformarsi specie nei casi più gravi. Esistono diversi metodi per prevenire la riformazione di aderenze dopo un intervento correttivo per la Sindrome di Asherman. Molti chirurghi prescrivono una supplementazione di estrogeni per stimolare il risanamento dell’utero e la crescita dell’endometrio e inseriscono un dispositivo per prevenire il contatto tra le pareti dell’utero nell’immediata fase post-operatoria di recupero. Altri chirurghi raccomandano isteroscopie ambulatoriali con cadenza settimanale dopo l’intervento principale per rimuovere ogni nuova aderenza che si formi dopo l’intervento principale. Al momento non esistono studi che confermino quale metodo di trattamento abbia maggiori probabilità di avere successo, cioè di fare rimanere l’utero o la cervice libera da aderenze e ripristinare la fertilità.


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