Il paracetamolo fu sintetizzato per la prima volta nel 1878 da Harmon Northrop Morse per riduzione di p-nitrofenolo con stagno in acido acetico glaciale, secondo la seguente reazione:
2 HO-C6H4-NO2 + 2 CH3COOH + 3 Sn ? 2 HO-C6H4-NH-COCH3 + 3 SnO2 (insolubile)
dove l'azione riducente di metallo e acido converte il p-nitrofenolo a p-amminofenolo, che viene immediatamente acetilato. Si iniziò a utilizzarlo per fini medici solo a partire dagli anni cinquanta del XX secolo.
Inizialmente si usavano acetanilide e fenacetina, derivati dell'anilina, come antipiretici di elezione, ma essi avevano forti conseguenze tossiche sul paziente. In realtà, molti anni dopo si scoprì che i benefici effetti prodotti dall'assunzione di acetanilide o di fenacetina erano determinati dal fatto che l'organismo trasformava entrambe queste molecole in paracetamolo. Era quindi il paracetamolo la sostanza che realmente determinava l'analgesia e il calo della temperatura. Quando una sostanza farmacologicamente attiva si origina, come nel caso del paracetamolo, in seguito all'assunzione di un altro prodotto (l'acetanilide o la fenacetina), questo prodotto viene indicato come precursore, mentre la sostanza che si forma viene detta metabolita attivo. Il paracetamolo era dunque il metabolita attivo sia dell'acetanilide, sia della fenacetina.
Rispetto ai suoi precursori, oggi non più usati in farmacologia, il paracetamolo presentava due vantaggi importanti: 1) non è tossico; 2) è più facile da sintetizzare.
Rispetto ai FANS, inoltre, non presenta gastrolesività e nefrotossicità.
Dal 1949 il paracetamolo ha iniziato ad essere usato come farmaco. Oggi è l'unico analgesico derivato dall'anilina che si continui ad usare in clinica.
Il paracetamolo può essere somministrato attraverso diverse vie e presenta una elevata biodisponibilità, che non subisce importanti cambiamenti, eccezion fatta per i casi di epatopatia cronica. A livello del fegato, infatti, la molecola viene trasformata in un metabolita che si è rivelato tossico per il tessuto epatico. Alle dosi comunemente impiegate, tuttavia, i rischi di epatotossicità sono nulli, tanto che l'utilizzo di paracetamolo non è controindicato in età pediatrica, né in gravidanza.
E' l'analgesico più amato dagli italiani e svetta al primo posto con oltre 2,8 mln di confezioni tra i farmaci di automedicazione più venduti in Italia. Il paracetamolo è stato da sempre considerato un principio attivo economico, sicuro ed efficace. Ma ultimamente diversi studi lo hanno messo sul banco degli imputati, indagando sui rischi correlati al suo utilizzo sopratutto per periodi prolungati e per le donne in gravidanza. Una ricerca dell'Università di Edimburgo, pubblicata di recente su 'Science Translational Medicine reports', ha evidenziato che le donne incinte che assumono il popolare antidolorifico potrebbero mettere a repentaglio la salute del feto, se è maschio, aumentando il rischio che in futuro possa sviluppare malattie come l'infertilità o il cancro.
Purtroppo le persone spesso non leggono le indicazioni sul bugiardino - afferma Andrew Moore, ricercatore dell'Università di Oxford University - La dose massima infatti nelle 24 ore è di 4 grammi, perché superare i 5 grammi può causare alcune gravi complicazioni al fegato". Il successo del paracetamolo nasce nel 1960, sulla scia dei timori che l'aspirina e altri farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) potessero causare ulcere e procurare altri gravi effetti collaterali all'intestino.
Mentre il farmaco acquistava sempre più mercato, alcuni scienziati ne indagavano diversi aspetti. Nel 2011, Michael Doherty, un reumatologo all'Università di Nottingham, pubblica uno studio su circa 900 pazienti (over 40) abituali consumatori di paracetamolo, ibuprofene o una combinazione di entrambi per combattere il dolore cronico al ginocchio. Confrontando i dati dei partecipanti dopo 13 settimane, nota che un paziente su cinque che aveva assunto ibuprofene aveva perso una unità di sangue per una emorragia interna. Ma la vera sopresa è scoprire che la stessa cosa era accaduta nei pazienti che assumevano paracetamolo.
"Il paracetamolo può effettivamente essere una farmaco molto pericoloso - spiega John Dickson, ex medico di famiglia in pensione di Northallerton (North Yorkshire) - Può causare problemi ai reni e al fegato, e sanguinamento gastrointestinale, come accade con i Fans". Nel 2013 la Food and drug administration (Fda) ha stabilito che l'assunzione di paracetamolo può, in alcuni rari casi, provocare una malattia della pelle, potenzialmente fatale, chiamata sindrome di Stevens-Johnson.
Vale la pena allora prendere il paracetamolo? Una revisione del 2006 della Cochrane Collaboration su 7 studi che hanno confrontato la molecola con il placebo, ha evidenziato che in due ricerche non c'era nessuna differenza quando veniva somministrato l'uno o l'altro. Mentre gli altri studi hanno provato un miglioramento in media del 5% in chi aveva preso paracetamolo. "Per la maggior parte delle persone è un placebo", osserva Dickson.
Molti medici di base sottovalutano i rischi di effetti collaterali quando prescrivono il paracetamolo. È la conclusione derivante dai risultati di uno studio osservazionale condotto dalla School of Medicine della Università di Leeds, in Inghilterra. “Abbiamo motivo di credere che l’incidenza di effetti indesiderati derivanti dall’uso di paracetamolo sia sottovalutata, in particolare in relazione al rischio gastrointestinale, renale e cardiocircolatorio“, ha dichiarato Philip Coneghan, coordinatore del team che ha eseguito lo studio, pur sottolineando al tempo stesso la necessità di indagini più approfondite e di un monitoraggio costante della efficacia e della tollerabilità del farmaco, proprio in considerazione della sua enorme diffusione.
Considerato meno tossico dei FANS, il paracetamolo trova un ampio utilizzo: è il solo analgesico prescritto alle donne durante la gravidanza e viene somministrato come antipiretico anche ai bambini per l’impatto ridotto dei suoi effetti collaterali. I riscontri più recenti però inducono gli estimatori del paracetamolo a rallentare, se non proprio a frenare bruscamente.
L’analisi è stata realizzata dai ricercatori del Chapleton Hospital, che hanno eseguito una revisione sistematica di otto studi, selezionati tra gli oltre 1800 pubblicati alla data del 1 maggio 2013 sui database Medline e Embase, riguardanti gli effetti a lungo termine del paracetamolo sulla salute generale dei pazienti (più di 600mila quelli esaminati).
Dei due studi che mettevano in rapporto l’assunzione del paracetamolo e la mortalità, uno registrava un aumento medio del tasso relativo di mortalità (da 0.95 a 1.62) fra i consumatori e i non-consumatori. A fornire i dati più allarmanti sono state però le ricerche sulle complicazioni a livello renale, cardiovascolare e gastrointestinale potenzialmente causate dall’uso massivo e prolungato del medicinale.
Tutti e quattro gli studi che prendevano in considerazione l’impatto sull’apparato cardiovascolare mostravano infatti un aumento medio significativo (da 1.19 a 1.68) del tasso di rischio in rapporto alle dosi assunte; uno studio metteva in relazione diretta l’uso di paracetamolo con l’aumento del tasso di rischio di eventi indesiderati e emorragie a livello gastrointestinale (da 1.11 a 1.49); tre dei quattro studi sui reni infine evidenziavano il rischio di complicanze anche severe, in particolare la riduzione (=30%) della filtrazione glomerulare (aumento del tasso di rischio medio da 1.40 a 2.19).
Un quadro del genere fa senz’altro riflettere sulle possibili conseguenze dell’uso di un farmaco da bancone assai diffuso, disponibile in farmacia (e in molti paesi anche nei supermercati) senza bisogno di ricetta medica, che ognuno di noi ha assunto o assume con una certa regolarità.
Va ora precisato che questi dati potrebbero risultare fuiorvianti in mancanza di una interpretazione accurata e di un approfondimento. Come lo stesso professor Coneghan, coordinatore dello studio, non manca di sottolineare, il margine di errore che accomuna gli studi oggetto di analisi, nei quali venivano presi in considerazione pazienti che avevano avuto bisogno di una somministrazione prolungata di dosi elevate di paracetamolo, ossia soggetti spesso anziani e già affetti da altre patologie, il cui stato di salute generale era già compromesso e destinato a peggiorare, con ogni probabilità, indipendentemente dall’assunzione di paracetamolo.
Una considerazione cui fa eco il parere di Francesco Scaglione, docente di farmacologia clinica nella facoltà di Medicina della Università di Milano. “Lo studio è interessante, ma il campione è costituito da persone già affette da patologie di base, sottoposte a trattamenti per lunghi periodi e ad alti dosaggi”. “Il paracetamolo” aggiunge Scaglione “potrebbe agire come concausa dei rischi illustrati, che potrebbero però derivare direttamente dalle patologie concomitanti. Va detto anche che altri farmaci come i FANS comportano sicuramente rischi maggiori di effetti collaterali anche più gravi”.
Quello degli esperti inglesi è solo il più recente di una serie di studi che negli ultimi anni hanno messo in discussione la “reputazione” del paracetamolo, il farmaco da bancone più venduto in Italia, considerato unanimemente uno degli analgesici più efficaci e sicuri ma spesso associato a episodi di tossicità renale e gastrointestinale nei consumatori abituali, soprattutto quelli che utilizzano dosaggi elevati. Già nel 2013 il NICE (National Institute for Health and Care Excellence), ente britannico con compiti di supervisione sulla sanità nazionale, aveva reso pubblico un appello – ribadito di recente – in cui si richiamavano i medici di base a usare maggiore cautela nel prescrivere il paracetamolo.
Il paracetamolo (N-acetil-para-amminofenolo) è un farmaco ad azione analgesica e antipiretica, che trova largo impiego sia da solo che in associazione con altri farmaci nel trattamento di diverse patologie – dolore acuto e cronico di varia natura, affezioni virali e batteriche. Tecnicamente non viene incluso tra i FANS perché non ha dimostrato azione antinfiammatoria; tuttavia con questa categoria di farmaci mantiene numerose analogie. Unisce la rapidità di azione (poco più di 10 minuti) a una emivita breve (massimo 4 ore) ed è quindi spesso somministrato più volte durante il giorno in dosi da 500 o 1000 mg. La dose massima consentita è di norma pari a 4 grammi al giorno. In Italia è commercializzato sia con nomi commerciali molto noti sia sotto forma di farmaco equivalente.
Viene utilizzato per stati febbrili o algici di varia natura, dalla comune cefalea al dolore osteoarticolare o gastrico, è normalmente ben tollerato dall’organismo e presenta perciò poche controindicazioni, fra cui patologie renali o epatiche già esistenti o la concomitante assunzione di alcool. Gli effetti collaterali più noti includono una generale tossicità epatica e renale, comunque minore rispetto a FANS come l’ibuprofene.
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