giovedì 9 giugno 2016

LE LISTE DI ATTESA



Aspettare di prendere la linea al centro di prenotazione telefonico, se c'è, o aspettare che scorra la coda allo sportello. Va poi dato il tempo all'operatore di trovare una struttura disponibile a fare la visita o l'esame, sincerarsi che non sia troppo distante da casa e iniziare a fare i calcoli.
La sanità italiana non si libera delle liste di attesa. Tagli, organizzazione carente, macchinari utilizzati poco, impediscono alla risposta del servizio pubblico di stare dietro alla domanda. Che ci mette del suo a far allungare ancora di più le liste, tra richieste inappropriate e medicina difensiva. Se si aggiunge il ticket, talvolta molto alto, il gioco è fatto: tanti preferiscono i privati. Che sanno di essere appetibili e abbassano pure i prezzi. Loro, tanto, attese non ne hanno.

Il dato rilevante, nella ricerca di Censis-Rbm Assicurazione Salute ”Dalla fotografia dell’evoluzione della sanità italiana alle soluzioni in campo”, è che cresce ulteriormente il numero di italiani che ha dovuto rinunciare o rinviare prestazioni sanitarie in un anno: erano 9 milioni nel 2012 sono diventati oltre 11 milioni nel 2016 (+2 milioni). Meno sanità pubblica, più sanità privata e anche meno sanità e quindi anche meno salute per chi ha difficoltà economiche o comunque non riesce a pagare di tasca propria le prestazioni nel privato o in intramoenia. È l’universo della sanità negata che non accenna a prosciugarsi e anzi tende a dilatarsi, di fronte ad una nuova geografia della sanità fatta anche di alte barriere e nuovi confini nell’accesso al pubblico e obbligo di fatto di comprare prestazioni sanitarie. Ampia è ormai l’area sociale che semplicemente non riesce a finanziarsi le prestazioni di cui avrebbe bisogno. Boom, quindi, della spesa sanitaria privata che nel 2015 sale a 34,5 miliardi di euro con un aumento reale di +3,2% rispetto al 2013, praticamente il doppio della spesa totale per consumi. L’incremento di spesa sanitaria privata è tanto più impressionante se si considera la dinamica deflattiva che, nel caso di alcuni prodotti e servizi sanitari è rilevante. Del resto pensando ai consumi sanitari e non alla spesa il 37,0% degli italiani dichiara che sono aumentati negli ultimi anni, il 56,7% che sono rimasti inalterati e solo il 6,3% che sono diminuiti.

Si è generalizzata tra gli italiani l’esperienza di ticket sanitari per singola prestazione di poco superiori o uguali alla tariffa intera praticata nelle strutture private (45,4%, +5,6% rispetto al 2013). D’altro canto, non è alta la quota dei cittadini che dichiara di avere percepito la contrazione dei prezzi praticati nelle strutture private. In buona sostanza, i cittadini riscontrano più l’incremento del valore dei ticket che la tendenza alla riduzione delle tariffe nel privato. Il trade-off pubblico-privato è cambiato perché le esigenze di bilancio hanno spostato sulle famiglie una parte significativa del costo delle prestazioni sanitarie erogate dal pubblico. In estrema sintesi, si può che dire che vince l’incubo delle liste di attesa troppo lunghe che sono il perno esplicativo dei comportamenti sanitari degli italiani di questi anni, che obbligano i cittadini ad usare il privato e l’intramoenia come porta di accesso accelerato alla cura. Per avere prestazioni nel pubblico devi aspettare a lungo, e quando hai accesso comunque devi affrontare costi che non sono sempre lontanissimi da quelli con i quali accedi al privato: ecco il nuovo frame in cui si collocano le scelte sanitarie degli italiani.

Come spesso in sanità, il sud è indietro ma ci sono difficoltà un po’ ovunque. Il record ce l’hanno le mammografie asintomatiche, cioè fuori dagli screening e neppure legate a sospetti diagnostici, che quando ci sono abbattono quasi ovunque le attese. Il tetto di 478 giorni del Cardarelli di Napoli è di poco superiore ai 441 delle Molinette di Torino. Ma vanno male anche Roma e Bari. L'esame è molto richiesto nelle zone dove gli screening per il cancro alla mammella sono poco diffusi. Altra prestazione a rischio è la risonanza alla colonna, cioè alla schiena. Per averla si possono aspettare 180 giorni al Civico di Palermo o 289 al Galliera di Genova. Ma anche attese più contenute possono causare disagi, come gli 87 giorni per un’ecografia all'addome al San Paolo di Milano. Anche al di fuori delle prestazioni che abbiamo scelto, ci sono problemi. Come i 330 giorni per una tac addominale a Lecce o 196 giorni per una eco ginecologica a Palermo. Cittadinanzattiva segnala attese per gli interventi: 306 giorni per operarsi alle tonsille agli Spedali Civili di Brescia e 2 anni per una day surgery proctologica al San Camillo di Roma.

Può succedere che nella stessa città ci siano attese molto diverse tra strutture. Di solito, quando ci sono Centri di prenotazione unici come in Emilia e Toscana, gli ambulatori della Asl sono in grado di rispondere rapidamente. Nei policlinici, e vale per tutta Italia, invece i tempi sono più lunghi. Questo avviene perché queste strutture lavorano soprattutto per pazienti interni, magari già operati, o persone che hanno già problemi. Gli altri aspettano.



La capitale spicca per una caratteristica: i tre ospedali presi in considerazione spesso non sono in grado di dare un appuntamento. È come aver a che fare con una super lista, che non concede nemmeno la possibilità di infuriarsi per i tempi ai cittadini, i quali sono costretti a ritelefonare per sapere se le agende sono state riaperte. I dati di Milano invece sono inaspettatamente alti. Le strutture cittadine infatti sono in grado di rispondere rapidamente a chi sulla ricetta ha indicata una priorità, perché il medico ritiene che l'esame vada fatto entro 72 ore o 10 giorni, ma hanno problemi con chi chiede un accertamento senza avere una patologia o senza che ci sia già un sospetto importante. Il sistema delle priorità è stato reso obbligatorio dal ministero alla Sanità che ha dato anche altri due classi di attese massime: 30/60 giorni per visite e accertamenti differibili e nessun limite per prestazioni programmate. È considerato uno degli strumenti chiave per risolvere il problema attese, in particolare per chi ha problemi seri e deve far presto, ma ancora non funziona ovunque. Il ministero con le Regioni è intervenuto anche sulle richieste inappropriate, con un criticato decreto che contiene una lista di oltre 200 esami che vengono passati dal sistema sanitario solo in certe condizioni cliniche.

La regione che negli ultimi mesi è migliorata di più in fatto di liste di attesa è l'Emilia-Romagna. Appena eletto il governatore Stefano Bonacini ha chiesto di investire per risollevare il sistema. "Meno della metà delle prestazioni veniva erogata nei tempi richiesti dalle priorità, adesso siamo al 97% - dice l’assessore alla Sanità Sergio Venturi – Come abbiamo fatto? Abbiamo riorganizzato il settore nelle Asl e investito 10 milioni per assumere 150 professionisti nei settori che erano in difficoltà". Venturi risponde a chi dice che in sanità le liste di attesa sono comunque ingovernabili, ad esempio perché l'offerta genera la domanda. "È una posizione snob. Noi abbiamo investito, unificato i sistemi informativi delle aziende, detto ai direttori generali che vengono valutati in base a come vanno le liste, e disposto nei momenti di crisi aperture serali e al sabato e alla domenica. E le cose ora vanno bene".

«È chiaro che il Sistema Sanitario deve fare i conti con la grave crisi economica che le famiglie stanno vivendo e che questa indagine Censis ci conferma la necessità di difendere l’aumento previsto del Fondo Sanitario per il 2017-18 (che dovrebbe essere di 113 miliardi di euro, 2 in più rispetto a quest’anno, ndr), che intendiamo utilizzare tra l’altro per sbloccare il turn over e stabilizzare il personale sanitario precario, rifinanziare il Fondo per l’epatite C, coprire i costi dei nuovi farmaci oncologici e garantire a tutti i cittadini accesso gratuito alle cure. Deve essere chiaro a tutti che non si possono fare le nozze con i fichi secchi» ha commentato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Quello degli italiani che rinunciano alle cure, aggiunge il ministro, «è un problema conosciuto, per la cui soluzione stiamo operando da tempo con il Ministero dell’Economia, le Regioni e i professionisti del Servizio sanitario nazionale».
La soluzione, prosegue, «passa da una profonda riorganizzazione del sistema delle liste di attesa, soprattutto in alcune regioni. L’obiettivo è quello di uniformare l’intero territorio su standard elevati, così da permettere a ciascun cittadino di ottenere in tempi rapidi le prestazioni sanitarie di qualità». Il problema delle liste d’attesa potrebbe essere legato alle nomine in ambito sanitario: «Ho intenzione di proporre l’inserimento nel mio decreto legislativo sulla nomina dei Direttori Generali delle aziende sanitarie di una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d’attesa» ha spiegato Lorenzin. Un altro provvedimento che faciliterà l’accesso alla sanità pubblica è quello legato ai nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), «con l’ingresso nel Servizio sanitario nazionale di nuove prestazioni gratuite che si attendono da quindici anni». Un obiettivo, ricorda il ministro, per il quale «ho fatto stanziare in Legge di stabilità 800 milioni di euro all’anno. Da molte settimane il provvedimento è all’esame della Ragioneria Generale dello Stato, da cui sto attendendo il via libera».

Secondo il rapporto Censis-Rbm, in due anni è aumentata di 80 euro a persona la spesa “out of pocket” destinata alla sanità, ovvero quella pagata dagli italiani di tasca propria e non rimborsata dal Servizio sanitario nazionale. Dal 2013 al 2015 si è passati infatti da 485 a 569 euro procapite mentre, nello stesso arco di tempo, è salita a quota 34,5 miliardi di euro la spesa sanitaria privata, con un incremento del 3,2%: il doppio dell’aumento della spesa complessiva per i consumi delle famiglie nello stesso periodo (pari a +1,7%). Negli ultimi 12 mesi 7,1 milioni di italiani hanno fatto ricorso all’intramoenia (libera professione all’interno degli ospedali), il 66,4% per evitare le lunghe liste d’attesa. Il 30,2% si è invece rivolto alla sanità a pagamento anche perché i laboratori, gli ambulatori e gli studi medici sono aperti anche di sera e nei weekend. Ma a pesare è anche lo scadimento della qualità del servizio sanitario pubblico. Per il 45,1% degli italiani nella propria regione è peggiorata: lo pensa il 39,4% dei residenti nel Nord-Ovest, il 35,4% nel Nord-Est, il 49% al Centro, il 52,8% al Sud. Per il 41,4% è rimasta inalterata e solo per il 13,5% è migliorata.

Restando in tema di qualità sanitaria, 5,4 milioni di italiani nell’ultimo anno hanno ricevuto prescrizioni di farmaci, visite o accertamenti diagnostici che si sono rivelati inutili. Tuttavia, oltre il 51,3% si dichiara contrario a sanzionare i medici per questo motivo (ma l’ipotesi delle sanzioni non è mai diventata realtà). Il decreto sull’appropriatezza (che vuole appunto eliminare le prescrizioni inutili), si legge nel rapporto, «incontra l’ostilità dei cittadini, che sostengono la piena autonomia decisionale del medico nello stabilire le terapie, anche come baluardo contro i tagli nel sistema pubblico». Il 64% degli italiani è contrario alla norma: il 50,7% perché ritiene che solo il medico può decidere se la prestazione è effettivamente necessaria e il 13,3% perché giudica che le leggi sono motivate solo dalla logica dei tagli. Prevale quindi la sfiducia nelle reali finalità dell’“operazione appropriatezza”, interpretato dagli italiani come «uno strumento per accelerare i tagli alla sanità e trasferire sui cittadini il costo delle prestazioni».

Anche il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, a margine dell’assemblea Fp Cgil, punta l’indice contro i tagli alla sanità: «I dati del Censis che parlano di 11 milioni di italiani che non si curano rappresentano una quota impressionante, credo che sia la dimostrazione che aver progressivamente ridotto gli investimenti nel Servizio sanitario mette le persone in condizione di non curarsi, è la logica dei commissariamenti e dei tagli. Serve un grande investimento pubblico per cure e prevenzione». L’Anaao Assomed (associazione sindacale dei medici dirigenti) denuncia «la progressiva, e non più silenziosa, diminuzione del perimetro della tutela pubblica della salute e il conseguente incremento del welfare privato». Anche i deputati del Movimento 5 Stelle, in commissione Affari Sociali, hanno affrontato la questione: «La frana del nostro sistema sanitario si è già trasformata in una valanga e ad essere responsabili, intenzionalmente, di questa demolizione sono il ministro della Salute e tutto il governo, che sta mettendo il coltello alla gola dei cittadini ai quali dice “noi in sanità non investiamo più, se puoi e vuoi curarti vai dal privato”. Quello che va fatto per fermare questa valanga è del tutto evidente: per prima cosa il finanziamento del Ssn deve tornare a salire e nel 2019 deve essere riportato almeno al 7% del Pil».



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