La persona transessuale, per la scienza medica odierna, soffre di "Disturbo dell'Identità di Genere" (D.I.G.), patologia psichiatrica secondo il DSM IV edizione, ovvero il Manuale di Classificazione dei Disturbi Mentali, redatto dall'Associazione Americana degli Psichiatri, ed anche secondo l'ICD 10 edizione a cura dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in questo caso sotto il nome di "Disforia di Genere".
L’identità di genere è una delle componenti fondamentali del processo di costruzione dell’identità. Il termine, coniato da Money e Ehrhardt (1972), si riferisce al vissuto di appartenenza ad un genere o all’altro, maschile o femminile, o in modo ambivalente ad entrambi. Tale appartenenza può esprimersi quindi con vissuti e comportamenti corrispondenti o non corrispondenti al sesso biologico. Il soggetto può vivere la non corrispondenza in modo ambiguo, ambivalente o lineare al punto da non riconoscersi appartenente al proprio sesso biologico e/o riconoscersi e desiderare di appartenere all’altro sesso. Ciò che differenzia la persona transessuale dagli altri è, però, il desiderio profondo ed incoercibile di modificare alcune caratteristiche corporee e di cambiare i propri dati anagrafici (nome proprio e sesso anagrafico alla nascita) adeguandoli al genere cui sente di appartenere in modo definitivo.
I dati del famoso rapporto Kinsey evidenziarono, su un campione di ventimila soggetti, un’incidenza dell’omosessualità del 10% e che almeno il 37% della popolazione maschile e il 13% di quella femminile aveva avuto qualche esperienza omosessuale tra la pubertà e la vecchiaia: a fronte di queste cifre la dicotomia omosessualità ed eterosessualità ha poco senso. La conclusione a cui si giunge è che l’omosessualità e l’eterosessualità funzionano sessualmente allo stesso modo e possono sviluppare le stesse disfunzioni sessuali. Una prima distinzione deve essere fatta tra transessualismo “Primario” cioè esistente fin dalla fanciullezza e “Secondario” cioè che compare in epoca post-puberale. È inoltre importante differenziare i disturbi dell’identità di genere, dall’omosessualità , dal travestitismo , dal feticismo, dal travestitismo e dalla bisessualità.
Nell’omosessualità l’individuo, pur manifestando comportamenti caratteristici del sesso opposto, non ha il desiderio né la convinzione di appartenere al sesso opposto né ha alcuna intenzione di intervenire per modificare i propri caratteri ed attributi sessuali. Su invito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 1974 i membri dell’American Psychiatric Association (A.P.A.) hanno deciso di eliminare l’omosessualità dall’elenco dei disordini mentali e tale termine è stato eliminato anche dal Manuale Diagnostico e Statistico dei disordini Mentali a partire dalla terza edizione (DSM III, 1980).
Nel travestitismo o transvestismo non vi è alcun serio tentativo di acquisire identità o comportamento del sesso opposto, ma solo il piacere di apparire come persona dell’altro sesso.
Ancora diverso è il feticismo da travestimento in cui un individuo, solitamente maschio, prova eccitazione sessuale in un rapporto eterosessuale manipolando o indossando indumenti tipici dell’altro sesso e limitandosi esclusivamente a tali situazioni. In questo caso, quindi, l’uomo non sta cercando una persona dello stesso sesso, non è quindi omosessuale (ma può essere bisessuale) e, contrariamente al transessuale, sente come “congruente” la sua sessualità con quella derivante dalla sua anatomia; il travestirsi, insomma, è messo in atto al solo scopo di procurarsi eccitazione sessuale.
La bisessualità , infine, è intesa come un complesso delle caratteristiche personali e dei fenomeni relativi alla scelta di vivere relazioni affettive, di intimità e sessuali con partner sia del proprio che dell’altro sesso biologico. La bisessualità non coinvolge l’identità di genere; la persona vive in modo soddisfacente la propria appartenenza al genere maschile o femminile e non ha alcuna intenzione di intervenire per modificare i propri caratteri e attributi sessuali.
In Italia oggi si contano circa 2.000 transessuali, cioè uomini e donne infelici di appartenere al sesso donatogli geneticamente, ossia circa 1 uomo su 40.000 e 1 donna su 50.000. Si tratta di persone del tutto normali sotto il profilo biologico ed anatomico, ma che vivono con la convinzione di appartenere al sesso opposto. In genere, si definiscono “prigionieri in un corpo sbagliato”.
Cercando nel passato il primo caso ufficiale di transessualismo vediamo che questo fu descritto da Frankel nel 1853, anche se si aspettò fino al 1949 perché entrasse in uso il termine “transessuale”.
In seguito il termine fu ripreso da Benjamin nel 1953 ed ampliato successivamente nel suo trattato “Il fenomeno transessuale” del 1966, con il quale indicò una sindrome quasi sconosciuta, distinta da altri disturbi dell’orientamento sessuale. Solo nel 1971, quindi, Laub e Fisk introdussero il termine “disforia di genere” che si riferiva a tutti i soggetti con problemi legati all’identità sessuale.
Da un punto di vista psicologico questi soggetti riferiscono di prendere coscienza del disagio durante il periodo dell’adolescenza, e con la presa di coscienza, in genere, iniziano anche i conflitti interiori e con i genitori, ancor prima che con il mondo esterno. In genere è con la comparsa dei caratteri sessuali secondari che il soggetto inizia a nascondere i propri istinti, trovandosi di fronte alla drammatica certezza della differenza tra identità somatica e quella psicologica. La tendenza in queste persone è di usare abbigliamento diverso da quello della propria appartenenza sessuale anagrafica (indossando i vestiti e le scarpe della mamma o del papà) e svolgere attività consone non all’identità genetica, ma a quella sentita, provocando spesso alterazioni dello sviluppo della personalità e generando vissuti di autosvalutazione, ansia ed infine depressione.
Al di là di ogni classificazione la “disforia di genere” comunque non si presenta in modo unitario per tutti, ma relativamente alla propria storia di vita, al proprio contesto familiare ed al proprio vissuto. Ciò che spesso però accomuna i soggetti è un iter di sofferenza psichica, emarginazione e di estenuanti attese burocratiche.
Ad oggi, in Italia, il cambiamento di sesso è regolamentato da un'apposita legge. "Il Tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza.", art.3 della legge n.164 del 1982. La Ri-attribuzione chirurgica di sesso (RCS) o "Sex Reassignment Surgery-SRS", deve essere autorizzata con sentenza in quanto comporta l’asportazione degli organi della riproduzione che, in assenza di patologie organiche che la giustifichino, è vietata nell’ordinamento giuridico italiano perché lesiva dell’integrità della persona. La domanda deve essere presentata al Presidente del Tribunale di residenza il quale a sua volta designa il giudice istruttore. Quando la persona presenta al Tribunale di residenza domanda di "rettificazione di attribuzione di sesso", secondo la legge 164/82, il giudice istruttore può disporre una "consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato" (art. 2, comma 4ä).
Il Giudice può quindi nominare un consulente tecnico d’ufficio (C.T.U.) che effettua alcuni incontri con la persona che ha richiesto la rettificazione e svolge una serie di indagini per rispondere ad uno o più quesiti posti dal giudice, nei tempi stabiliti dal Tribunale. Al termine del lavoro il C.T.U. prepara una relazione (generalmente scritta) in cui riporta i risultati delle attività svolte e risponde ai quesiti posti dal giudice.
La persona che ha richiesto la rettificazione, al momento della nomina del consulente tecnico d’ufficio, può a sua volta scegliere un proprio consulente tecnico di parte (C.T.P.), che dopo aver ottenuto il permesso dal giudice, assiste alle operazioni peritali, partecipa alle udienze ed è ammesso alla Camera di consiglio con funzione di sostegno delle esigenze del richiedente.
Pur non specificato dalla legge 164/82, l’iter psicologico è ritenuto essenziale dalle strutture nazionali che hanno approvato e recepito gli Standard italiani sui percorsi di adeguamento dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere e dalle maggiori organizzazioni internazionali tra cui The Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association Inc.-HBIGDA.
Questa fase del percorso psicologico prevede colloqui psicologici e test finalizzati a raccogliere la storia della persona e a delinearne il profilo psicologico. La relazione risultante dall’elaborazione dei dati derivanti dalle consultazioni, dagli accertamenti di laboratorio e dai test psicologici è oggetto di valutazione interdisciplinare di eleggibilità nell’iter psicofisiologico di adeguamento e viene consegnata all’utente con il quale si concorda un percorso individualizzato che corrisponda alle sue effettive esigenze.
Il cambiamento può avvenire già in precedenza, in parte anche mediante la terapia endocrinologica (somministrazione di ormoni) per la quale, come ribadito dal Tribunale ordinario di Torino (sentenza n.6673 - 06/10/1997), non è necessaria l’autorizzazione. La terapia ormonale deve avvenire comunque secondo le procedure previste dagli Standard per il percorso di adeguamento di sesso adottati dall’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere. Gli effetti della terapia ormonale da una parte possono procurare sollievo e dall’altra possono, però, procurare scompensi anche gravi negli organi deputati al loro metabolismo (ad esempio, al fegato). D’altra parte i cambiamenti somatici, pur tanto desiderati, non creano quel benessere immaginato se la persona non è sostenuta in un processo di elaborazione e assimilazione profonda non solo dei cambiamenti stessi, ma anche del nuovo stile di vita che inevitabilmente essi comportano. Nell’adeguamento Femmina-Maschio (FtM) entrambi gli obiettivi possono essere ottenuti con l’uso del solo ormone mascolinizzante (testosterone), mentre nell’adeguamento Maschio-Femmina (MtF) è quasi sempre necessario unire agli estrogeni femminilizzanti almeno un farmaco antiandroginico.
La legge n.164/1982 regola anche ciò che viene definito come "rettificazione di attribuzione di sesso" che avviene con la modifica dei dati personali, nome proprio e sesso attribuito alla nascita, nei registri dell’anagrafe a cui si è iscritti. L’ufficiale di stato civile effettua la rettifica su ordinanza del Tribunale dopo che quest’ultimo ha l’avvenuto adeguamento medico-chirurgico dei caratteri sessuali. La variazione risulta solo nell’atto di nascita integrale. Tutti gli altri certificati, usualmente richiesti per concorsi, passaporto etc..., riportano esclusivamente i nuovi dati personali.
L’iter consiste, secondo le linee guida dell’ONIG, nella sorveglianza per 6 mesi dell’individuo (facoltativo in altri paesi), durante il quale dovrà sottoporsi a colloqui di indagine psichiatrica ed indagini ormonali. L’indagine psichiatrica serve per la valutazione dell’assenza o dell’eventuale presenza di patologie psichiatriche. A questi seguirà un anno di “test di vitra reale” , così definita, durante il quale vengono somministrati gli ormoni. Va specificato che anche se si inizia il percorso sancito dalla legge, il Servizio Sanitario Nazionale non dispensa i suddetti farmaci. Qualora saranno ritenuti necessari dal giudice istruttore, saranno richiesti anche la perizia, del consulente tecnico d’ufficio e del consulente tecnico di parte.
L’iter chirurgico maschio-femmina consiste in vari interventi chirurgici iniziando, in genere, da una mammoplastica additiva.
Quest’intervento può essere effettuato per integrare l’azione della terapia ormonale molto spesso insoddisfacente in quanto quest’ultima, pur influenzandone il volume, non permette di ottenere un aumento della dimensione della mammella soddisfacente per la persona.
La mammoplastica additiva è un intervento che prevede l’introduzione di una protesi (in genere un involucro che contiene un gel di silicone) attraverso un’incisione effettuata nella piega sottomammaria o nella zona periareolare o nella zona ascellare, nei punti dove si nota meno la cicatrice che è, di solito, di 3 o 4 centimetri. Attraverso questa incisione, la protesi viene introdotta dietro la ghiandola mammaria o alcune volte, se necessario, dietro il muscolo pettorale.
La vaginoplastica. L’intervento dura circa tre ore e mezzo. Si asportano testicoli e corpi cavernosi del pene. Utilizzando lo scroto (la sacca che racchiude i testicoli), si fanno grandi e piccole labbra. Quindi si ricava una cavità tra retto e vescica dove, introflettendo la pelle del pene, si ottiene una vagina. Il clitoride si costruisce con una parte del glande (l’estremità del pene). Le complicazioni sono abbastanza rare: infezioni localizzate, fistole tra neovagina e retto o vescica, necrosi di parti del tessuto.
La riabilitazione. Una sorta di palloncino va lasciato in sede per i primi 15 giorni e poi va inserito durante la notte e tre volte al giorno per tre mesi. Il primo rapporto sessuale si può avere due mesi dopo l’intervento.
I rapporti sessuali possono essere ripresi mediamente dopo due mesi. In genere sono soddisfacenti, se non si sono verificate complicanze rilevanti e nel 70-80% dei casi permettono il raggiungimento dell’orgasmo.
Ulteriori interventi consistono nella riduzione del pomo d’adamo ed eliminazione della barba con elettrolisi (ago) o Laser. Ancora, si può ricorrere anche all’asportazione delle ultime due costole per donare una forma più sinuosa al giro vita.
Il percorso verso la virilizzazione inizia con l’assunzione di testosterone, che permette l’acquisizione di aspetti maschili come l’irsutismo e, fra l’altro, aumenta anche le dimensioni del clitoride, facendolo diventare un piccolissimo pene.
Attraverso un intervento di falloplastica, viene costruito un organo simile al pene, di forma cilindrica. La pelle per costruire il neopene la si prende da altre aree del corpo, come la schiena o le braccia. L’organo ricostruito permetterà di fare la pipì in piedi, come fanno i maschi, dal momento che garantisce la funzione urinaria, tramite la costruzione di una neouretra che permette la fuoriuscita dell’urina. Il neopene però non sarà capace di erezioni. A questo si rimedia utilizzando una protesi peniena (che consiste in una sorta di pompetta interna).
L’intervento è molto complesso: le arterie, le vene e i nervi del lembo di pelle preso in altra parte del corpo devono essere collegati ai vasi e ai nervi della regione inguinale, per assicurare nutrimento e una certa sensibilità all’organo, anche se esclusivamente di tipo tattile (sentirsi toccare). La sensibilità erogena infatti, presente nel clitoride, non può essere trasferita nel neofallo e dunque, se non si vuole rinunciare completamente al piacere sessuale, l’organo del piacere femminile dovrà essere lasciato dove si trova, alla base del nuovo pene.
L’intervento lascia delle cicatrici nelle aree del corpo dove viene prelevata la pelle. Ancor più grave però potrebbe essere la necrosi totale dell’organo costruito se i vasi collegati si ostruiscono ed il sangue non raggiunge i tessuti trapiantati. I tessuti trapiantati inoltre potrebbero mal sopportare il passaggio dell’urina e si potrebbero produrre stenosi (restringimenti) nella neouretra, un canale ricostruito di oltre venti centimetri, oppure fistole (aperture non volute, dalle quali può uscire l’urina). Le complicanze post operatorie richiedono interventi secondari, impegnativi e ripetuti. La protesi inoltre, che nell’uomo viene inserita senza particolari problemi nei corpi cavernosi del pene, in questo caso sarebbe invece a contatto con i tessuti, sottoponendoli ad un traumatismo continuo e ripetuto: essa potrebbe lacerare i tessuti ed infettarsi.
Molto più facile e utilizzato è l’intervento di metoidioplastica (o metaoidioplastica, termine che significa “cambiamento chirurgico verso il maschio”), la quale permette di valorizzare al massimo le modificazioni ottenute sul clitoride con la terapia ormonale. Il piccolo fallo ottenuto con l’assunzione di ormoni viene infatti liberato dai tessuti che lo circondano e spostato in avanti. Al fine di farlo sembrare un pene vero e proprio, viene asportata e tirata della pelle presente sul pube. L’intervento consiste inoltre nella costruzione di una neouretra tra il meato originario e l’apice del piccolo glande. Questo intervento ha il vantaggio di realizzare un neofallo di forma molto naturale e di sensibilità inalterata, anche se di dimensioni ridotte e non adeguate alla penetrazione.
Naturalmente poi c’è la scrotoplastica: un intervento semplice che prevede l’introduzione di due protesi testicolari all’interno di cavità ricavate dentro i tessuti delle grandi labbra.
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