martedì 28 giugno 2016

PERDERE PELI E CAPELLI



L’alopecia significa caduta dei capelli e dei peli dove normalmente dovrebbero essere presenti. L’alopecia può essere generale o parziale, colpire uomini e donne, in età giovane o matura. Ci sono alopecie cicatriziali, in cui per diverse cause come alcune infezioni, patologie immunitarie, ecc. si assiste a una distruzione del follicolo pilifero. Le alopecie non cicatriziali invece possono regredire:

Alopecia androgenetica è la forma più diffusa, quella che chiamiamo calvizie. La stempiatura non è un preludio obbligato all'alopecia androgenetica. Infatti, non di rado alcuni calvi conservano inalterata la linea di attaccatura frontale e viceversa.
Alopecia areata è generalmente caratterizzata da una o più chiazze, di diametro di 3-4 cm, prive di capelli o di peli, soprattutto al cuoio capelluto, nella regione della barba, senza alterazioni cutanee, con follicoli piliferi conservati, ma talvolta invisibili a occhio nudo.
Alopecia post partum si manifesta 2-3 mesi dopo il parto, ma solitamente si risolve spontaneamente ed è dovuta alla brusca caduta degli estrogeni circolanti e all'azione della prolattina,associate allo stress del momento.
Alopecia da radiazioni può essere transitoria o cronica e colpisce soggetti sottoposti a trattamenti come la chemioterapia.
Alopecia da trazione è abbastanza frequente nelle donne ed è causata da continue manipolazioni dei capelli: spazzolature eccessive e maniacali, pettinature, come trecce, l’uso di bigodini, messa in piega, permanenti, ecc. Di solito questa alopecia è di modesta entità
Alopecia da traumi fisici dovuti a scottature o lesioni.
Alopecie post infettive che compaiono durante o dopo malattie caratterizzate da alti stati febbrili, tifo, sifilide secondaria, epatite virale, ecc.
Alopecie da denutrizione dovute a diete troppo rigide e mal equilibrate che colpiscono soprattutto le donne, carenze di ferro, ecc.
Alopecia da farmaci, diffusa e spesso intensa, ma che si risolve spontaneamente una volta cessata la terapia con alcuni farmaci.

L'alopecia areata, chiamata in passato Area Celsi, è una patologia in cui la repentina caduta dei capelli, o di altri peli del corpo, si manifesta tipicamente a chiazze glabre o aree, da cui il nome. Solitamente le prime chiazze si manifestano nel cuoio capelluto e, nella maggior parte dei casi, si risolve spontaneamente, senza mostrare segni di cicatrici. Nell'1% circa dei casi la patologia può estendersi all'intero cuoio capelluto (alopecia totale, AT) o a tutto il corpo (alopecia universale, AU) con la totale perdita di tutti i peli del corpo. Questa patologia era già conosciuta ai tempi degli antichi egizi.

La malattia, una delle più diffuse al mondo, interessa tutta la popolazione soprattutto prima della quarta decade anche se si sono registrati casi in tutte le età, anche in bambini da 0 ai 5 anni. Per quanto riguarda la sua incidenza è stato ipotizzato che l'1,7% della popolazione abbia avuto un caso di alopecia areata nella propria vita, la malattia non mostra preferenze per quanto riguarda il sesso, inoltre costituisce un fattore di rischio la sindrome di Down. La malattia mostra anche familiarità, ovvero il fatto che un genitore abbia avuto in passato un caso di alopecia areata aumenta la possibilità nel figlio di avere tale patologia.

La difficoltà di una valutazione epidemiologica corretta è principalmente dovuta ad un naturale istinto del paziente di "nascondersi" o di non manifestare comunque la patologia da cui è affetto.

Secondo gli ultimi dati disponibili (2012) l'alopecia areata totale ha una diffusione di 10,5 casi su 100.000 mentre l'alopecia areata universale è di 25 casi su 100.000 pertanto sono da considerare malattie rare ed anche malattie croniche recidivanti. Al momento, però, non sono ancora iscritte nell'elenco delle malattie rare del SSN Italiano.

In base alle sue manifestazioni:
Alopecia Areata monolocularis: è una AA che si manifesta in un unico punto del cuoio capelluto.
Alopecia Areata multilocularis: è una AA che si manifesta in zone multiple del cuoio capelluto.
Alopecia Totale: è una AA che si manifesta su tutta l'area del cuoio capelluto.
Alopecia Universale: è una AA che si manifesta su tutto il corpo, compreso zone pubiche, ascelle, ciglia, sopracciglia e altre, raramente risponde alle terapie.
Alopecia Barbae: è una AA che si manifesta limitatamente alla barba
Alopecia Areata Ophiasis: è una forma di AA limitata a regioni periferiche del cuoio capelluto, cioè la zona posteriore del capo da orecchio a orecchio e/o la regione occipitale e temporale. Il termine Ophiasis indica la forma sinuosa di questa tipologia di AA e deriva dal latino "serpente". Cornelius Celsus ha coniato il termine nel 30 a.C.
Esistono diversi altri svariati nomi per indicare la stessa patologia, che prende forme leggermente diverse, e che nei secoli sono serviti anche per coprire sia la mancanza di conoscenza medica che per colpire ed impressionare il paziente. Infatti la parola alopecia indica la pura mancanza di peli dove dovrebbero esserci.

In base alla eziopatogenesi:
Tipo comune: insorge in giovane età, infanzia o adolescenza. Non è associata ad altre patologie ed è guaribile.
Tipo autoimmune: insorge dopo i 40 di età, in associazione con malattie autoimmuni.
Tipo ipertensivo: insorge in giovani adulti con diatesi ipertensiva. Evoluzione verso la alopecia totale.
Tipo atopico: ad insorgenza infantile con associazione ad atopie. Prognosi sfavorevole ed evoluzione verso la alopecia totale.

La malattia era conosciuta già ai tempi del medico greco Ippocrate e del romano Aulo Cornelio Celso che descrisse due forme di alopecia areata. In seguito passarono molti anni prima che il termine venisse di nuovo utilizzato, le possibili cause furono studiate solo a partire dal ventesimo secolo.

Secondo la teoria più accreditata si tratterebbe di una componente immunopatologica (dovuta spesso all'attacco degli anticorpi IgE, quelli specifici allergici, o più generalmente degli antigeni dei leucociti umani di seconda classe e linfociti T); in sostanza si produrrebbe una reazione immunitaria anomala in grado di danneggiare, transitoriamente e localmente, i follicoli piliferi.
Inoltre si collegherebbe alla genetica, infatti tale condizione sembra colpire le persone che hanno una predisposizione a livello genetico, e in questa direzione si sta orientando la sperimentazione clinica più moderna.
Un'altra ipotesi riguarda la quantità di ferro presente nel corpo umano, anche se i dati non risultano sufficienti per valutare quanto la mancanza di ferro, e in genere la malnutrizione, abbia un ruolo nell'alopecia areata, ciò porta nella ricerca medica a risultati contrastanti.
Lo stress psicologico non è mai la causa ma, tuttalpiù, viene visto come un elemento che peggiora la patologia, pochi studi sono stati fatti per comprendere quale sia l'esatta correlazione. L'alopecia al contrario può certamente essere la causa dello stress psicologico.
In un articolo pubblicato su "Nature" è stata confermata l'origine genetica della Alopecia Areata e risultano implicati ben otto geni di cui alcuni anche responsabili di altre patologie autoimmuni fra cui l'artrite reumatoide, il diabete di tipo 1 e la celiachia. Secondo la Dott.sa Christiano sarà possibile determinare attraverso un test genetico la gravità della malattia usando come "marker" il numero di geni associati alla malattia e presenti in una persona colpita da AA. Questa scoperta di malattia plurigenica potrebbe anche spiegare il comportamento così vario fra paziente e paziente con la patologia.



Non è contagiosa ma può essere ereditaria e si sono registrati dei casi in cui la prole è soggetta ad AA come uno od entrambi i genitori. In altri numerosi casi la patologia non è presente nella prole di genitore AU grave.

Solitamente una corretta diagnosi è facile da effettuare, basandosi semplicemente sull'esame clinico (esame obiettivo, più complesso è comprendere di quale delle varie forme si tratti. Si osservano diverse manifestazioni dermatologiche chiare nei punti sospetti: si osservano chiazze glabre (dove si conservano i follicoli e il cuoio capelluto) o capelli cortissimi nelle zone periferiche della chiazza (si parla di misure inferiori ai 10 mm).

Una semplice tecnica diagnostica di primo livello, valutabile da medici professionisti ed esperti in AA, è il così detto "pulling" che consiste nel tirare delicatamente una ciocca di capelli, che sarebbero caduti in ogni caso in breve termine, prossima al bordo di un'area colpita presumibilmente da AA. In presenza di capelli sani solo pochissimi capelli resteranno nelle dita dello specialista mentre in caso di AA moltissimi capelli cadranno, specialmente da zone vicine alle chiazze alopeciche in cui i follicoli sono stati attaccati dagli anticorpi mentre i peli più lontani dall'area sono ancora sani. Il pulling va effettuato una sola volta.

Il metodo diagnostico più efficace, ma solo in rari casi necessario, è una biopsia del cuoio capelluto che dovrà essere eseguita specialmente nei casi di diagnosi differenziale con altre condizioni alopecizzanti locali. La biopsia lascia inevitabilmente un esito cicatriziale.

Per quanto riguarda gli esami diagnostici viene utilizzato il tricogramma.

La AA non è la "normale" caduta dei capelli di cui molti, in particolare gli uomini, sono portatori di manifestazioni evidenti. Quel tipo di Alopecia è l'alopecia androgenetica che ha diversa eziologia, cura e prognosi. Sono due le differenze fondamentali: il tempo di caduta dei capelli e il possibile recupero: nella alopecia areata i tempi sono a volte rapidissimi, mentre nell'alopecia androgenetica la caduta di un capello difficilmente potrà assistere ad una sua rinascita perché, in questo caso, il bulbo si atrofizza progressivamente.

Nella diagnosi differenziale dell'alopecia areata si devono escludere altre patologie che si manifestano in modi simili, quali:
Tinea capitis (una forma di micosi, patologia causata da funghi) che è una infezione dovuta a diversi funghi (microsporum o trycophiticum). Essa a differenza della AA è estremamente contagiosa ma, oggi grazie ai farmaci antimicotici, perfettamente curabile ed eradicabile, in quanto dà luogo ad un'alopecia solo temporanea.
Tricotillomania, è questa una manifestazione psichiatrica nella quale cui il soggetto si strappa più o meno inconsciamente ciuffi di peli, si osservano infatti, zone di capelli rotti o sfibrati in prossimità dalla base.
Lupus eritematoso discoide
Sifilide secondaria
Alopecia androgenica
Sindrome dell'anagen lasso
Forme di masse tumorali che interessano le cute

I primi segni dell'alopecia areata sono rappresentati dalla comparsa di una o più piccole aree glabre in zone del corpo normalmente pilifere che possono prendere qualsiasi forma ma, più frequentemente, una forma circolare delle dimensioni di una moneta.

Interessa prevalentemente il cuoio capelluto ma può interessare qualsiasi parte del corpo e può anche presentarsi con chiazze in estensione ed in regressione (o ricrescita) in differenti punti del cuoio capelluto o del corpo. In molti casi si ha la spontanea scomparsa della patologia per un certo periodo o, addirittura, per sempre. (Questo "fenomeno" naturale ha fatto la fortuna di molti "stregoni" che, approfittando del momento di sconforto e di panico del paziente, millantavano poteri straordinari delle loro carissime e preziosissime cure).

Poiché nella malattia il follicolo non muore ma è solo "bloccato" probabilmente da autoanticorpi, generalmente una "non cura" non pregiudica una efficace terapia successiva. gli anticorpi Poiché molte delle terapie adottate sono a base di ormoni, generalmente cortisonici, è sconsigliabile in pazienti giovani o giovanissimi di adottare queste terapie, preferendo metodi di "attesa" o non ormonali.

Nei casi più severi di alopecia areata si possono manifestare delle forme di distrofie ungueali: unghie fragili e sottili, desquamate in superficie e prive della "lunetta" con addirittura la perdita di consistenza e una igroscopicità notevole, tali da pregiudicare le capacità e potenzialità manuali del paziente; anche se, più comunemente le unghie non hanno problemi manifesti, se non qualche depressione puntiforme della lamina.

Una caratteristica molto significativa della alopecia areata in fase evolutiva è la presenza di capelli "a punto esclamativo". Questi capelli hanno la caratteristica di apparire assottigliati verso la base, assomigliando quindi ad un punto esclamativo.

L'alopecia areata si manifesta a volte in modo repentino (uno o due mesi dalla prima manifestazione alle forma universale o totale) e questo può causare gravi turbe del paziente quali perdita dell'identità, perdita dell'autostima, depressione psicologica profonda fino all'autolesionismo estremo.

I problemi principali della AA sono di tipo psicologico (perdita dell'immagine di se stessi dovuto alla perdita dei capelli). Paradossalmente, la speranza oggettivamente reale di riottenere i propri capelli causa spesso un'ansia di attesa insoddisfatta che aggrava fortemente il già minato aspetto psicologico.

Ci sono, comunque, alcune patologie che più spesso si accompagnano in pazienti con AA quali allergia alimentare o topiche e, non raro, l'Ipertiroidismo e la Tiroidite di Hashimoto. Altre volte l'AA è accompagnata o preceduta da fenomeni patologici come la Psoriasi o il Lupus.

Altri problemi minori sono, ad esempio, il maggior rischio di scottature solari sul cuoio capelluto nudo, alcuni problemi causati dalla mancanza di peli del naso, come le allergie e, d'inverno, lo sgocciolamento del naso.

La mancanza di ciglia è spesso causa di arrossamenti degli occhi per la limitata capacità di evitare al pulviscolo o a qualsiasi materiale microscopico nell'aria di colpire la cornea.

La mancanza di sopracciglia causa, nel caso di sudorazione abbondante, lo sgocciolamento del sudore negli occhi e, quindi, un fortissimo bruciore e, momentaneamente, l'incapacità di vedere.

La mancanza di peluria all'inguine può, nei primi anni della forma universale, provocare arrossamenti della pelle non più protetta dalla azione dei peli.

La mancanza di capelli, quali difesa naturale del capo, può aggravare notevolmente i traumi dovuti ad urti contro oggetti sospesi o, comunque, su cui accidentalmente il paziente cozza con il capo perché, oltre che all'azione meccanica di protezione e di cuscinetto, manca l'azione di "preavviso" (e relativo riflesso di reazione) all'approssimarsi dell'ostacolo.

Nei casi molto gravi di AA, in cui anche le unghie vengono interessate, possono intervenire gravi problemi di manipolazione (raccogliere un piccolo oggetto, premere con forza con un dito, stringere i pugni, manipolare tessuti, togliere un'etichetta ecc.) tali da causare crisi profonde a livello psicologico.

In caso di AA non è possibile eseguire dei rinfoltimenti tipo autotrapianto perché c'è un'altissima probabilità che i bulbi trapiantati vengano colpiti dai linfociti cannibali; questo metodo è invece possibile nel caso di Alopecia Cicatriziale di limitata estensione.

In caso di AA non grave è possibile usare delle tecniche di camouflage per coprire le chiazze prive di capelli o, nel caso di AT, AU o AA grave, l'uso di una parrucca, specie per una donna, può permettere di superare il disagio relazionale e sociale.

Nel caso di AT o AU è possibile rivolgersi a centri specializzati per farsi eseguire un tatuaggio estetico correttivo semipermanente di sopracciglia e del "linear" delle ciglia con ottimi risultati estetici e psicologici per una ritrovata immagine più naturale.

Attualmente non esiste una cura definitiva e certa per la AA, le terapie attuali mostrano effetti temporanei e al cessare della terapia, cessano anche gli effetti, questo è dovuto anche ad una mancanza di studi a lungo termine, infatti spesso non si tiene conto delle recidive.

Una volta scelta una terapia con un professionista dermatologo esperto in AA, questa dovrà essere seguita scrupolosamente per alcuni mesi prima di poter determinare l'efficacia o meno del trattamento.

È opportuno anche ricordare che durante una terapia si possono manifestare delle ricadute parziali che possono minare la fiducia del paziente nella terapia (recidive).

È bene tener presente che fattori come un'assunzione eccessiva di alcolici e il fumo possono aumentare il problema nel quadro clinico e incidere negativamente durante l'attuazione di determinate terapie.

La patologia, anche se sovente mostra una prognosi benigna, causa effetti devastanti sulla psicologia dell'individuo.

Poiché la perdita repentina dei capelli conduce a cambiamenti significativi dell'aspetto, i pazienti affetti possono avvertire problemi di fobie (paura di spazi ampi e di posti affollati), ansia, depressione sociale, perdita dell'identità, scoraggiamento per un futuro non conforme alle aspettative precedenti alla patologia.

Nei casi severi, dove la probabilità di ricrescita dei capelli è scarsa, gli individui faticano ad adattarsi alla circostanza, psicologicamente inaccettabile, con la conseguente ricerca di una cura "ad ogni costo".

L'uso di una protesi estetica (parrucca) adeguata può aiutare la persona affetta dalla patologia a superare una parte dei problemi che derivano dal cambiamento estetico. Il problema psicologico ed estetico è maggiormente sentito dalle donne piuttosto che dagli uomini. Nei gruppi di auto-aiuto e nelle associazioni la presenza è per oltre il 90% femminile.

Per quanto riguarda i preadolescenti che sviluppano casi di alopecia areata, risulta importante l'appoggio familiare, mentre spesso viene considerato utile l'approccio con uno specialista.

Nell'adolescenza la malattia è vissuta in modo completamente diverso, i ragazzi si sentono quasi abbandonati dalla società, soprattutto in relazione ai rapporti con i coetanei, a volte evitandoli, in altri casi sfociando in reazioni di bullismo sia passivo che attivo. Spesso risultano utili gruppi di supporto, dove vengono coinvolti ragazzi con la stessa patologia e i loro parenti: i ragazzi in questo modo riescono a conoscere la propria malattia, con la possibilità di una convivenza più serena con essa.

Si è constatato che è possibile ottenere ottimi risultati quando il minore non tende a nascondere caparbiamente il problema ma, anzi, ne parla apertamente anche "acculturando" coetanei, genitori ed insegnanti sulla realtà del problema. L'ignoranza su questa malattia, assolutamente non contagiosa, fa sì che i genitori dei coetanei tendano a isolare il piccolo dai propri figli per un eccesso di prudenza. Soprattutto nell'ambiente scolastico, un colloquio chiarificatore tra gli insegnanti e i genitori dei coetanei aiuta moltissimo a risolvere le incomprensioni.

Un altro problema piuttosto frequente è l'eccessiva protezione dei genitori nei confronti del minore affetto da alopecia areata. È importante invece avere un comportamento normale verso il figlio e assolutamente non iperprotettivo. Si sono raccolte testimonianze di persone affette dalla malattia che, arrivate alla maturità, lamentavano di aver subito da piccoli una costante pressione dai genitori che ricordavano loro continuamente la presenza del problema.



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lunedì 27 giugno 2016

IL LUPUS



Il lupus eritematoso sistemico è una malattia cronica di natura autoimmune, che può colpire diversi organi e tessuti del corpo. Come accade nelle altre malattie autoimmuni, il sistema immunitario produce autoanticorpi che, invece di proteggere il corpo da virus, batteri e agenti estranei, aggrediscono cellule e componenti del corpo stesso, causando infiammazione e danno tissutale. Il meccanismo patogenetico è un'ipersensibilità di III tipo, caratterizzata dalla formazione di immunocomplessi.

La prevalenza del lupus eritematoso sistemico varia considerevolmente a seconda del paese, dell'etnia e del genere. Negli Stati Uniti è stimata in 53 per 100.000 abitanti, per un totale di 159.000 malati. Nel Nord dell'Europa il tasso è stato stimato in 40 ogni 100.000 abitanti. Il Lupus è stato riscontrato più frequentemente e con maggiore gravità negli individui di etnia non caucasica; in particolare la prevalenza è stata stimata in 159 ogni 100.000 abitanti di discendenza afro-caraibica. Inoltre, come è comune del caso di malattie autoimmuni, esso colpisce prevalentemente le donne, con un rapporto di 9 a 1 rispetto al sesso maschile. Negli uomini con la sindrome di Klinefelter, caratterizzata dalla presenza di un genotipo 47,XXY, la prevalenza è simile a quella nel sesso femminile, suggerendo un possibile coinvolgimento del cromosoma X nella patogenesi della malattia.

Da notare come l'incidenza della malattia negli Stati Uniti sia passata da 1.0 nel 1955 al 7.6 ogni 100.000 abitanti nel 1974. Tuttavia non si sa se si può attribuire questa variazione a una migliore capacità diagnostica oppure se vi sia stato un reale incremento della frequenza.

Il nome lupus eritematoso sistemico risale all'inizio del XIX secolo, tuttavia alcuni autori fanno risalire la prima descrizione a Ippocrate, che descriveva una malattia, denominata herpes esthiomenos, caratterizzata da ulcere cutanee.

Lupus è la parola latina che significa lupo, e si riferisce alla caratteristica eruzione cutanea a forma di farfalla riscontrata sul viso di molti pazienti affetti da Lupus, che ricordava ai medici i contrassegni bianchi presenti sul muso dei lupi. Secondo altri invece le lesioni cicatriziali successive al rash assomigliavano a quelle lasciate dai morsi o graffi dei lupi.

La vicenda storica della malattia può essere divisa in tre periodi: classico, neoclassico e moderno. Il primo periodo si riferisce alla prima descrizione delle manifestazioni dermatologiche avvenuta durante il medioevo. L'attribuzione del termine lupus è riferita al medico del XII secolo Rogerio Frugardi, che lo usò per descrivere la classica manifestazione cutanea. Il periodo neoclassico si riferisce all'identificazione, da parte di Moritz Kaposi nel 1872, delle manifestazioni sistemiche della malattia. Il periodo moderno comincia invece nel 1948 con la scoperta delle cellule LE, granulociti neutrofili caratteristici della malattia, ed è caratterizzato dalla descrizione dei meccanismi fisiopatogenetici, dalla creazione di nuovi test clinici e di laboratorio e dall'impostazione di un trattamento terapeutico.

Il primo farmaco a essersi dimostrato efficace nel trattamento del lupus eritematoso sistemico fu il chinino, scoperto nel 1894, associato dal 1898 ad acido salicilico. Questa associazione rimase la terapia di riferimento fino a metà del XX secolo, quando venne dimostrata l'efficacia dei corticosteroidi nel trattamento della malattia.

Non esiste una singola causa specifica per l'insorgenza del Lupus; tuttavia sono stati descritti dei fattori di rischio eziologici ambientali e genetici.

Le ricerche effettuate indicano che esiste predisposizione genetica, tuttavia non è stato identificato un gene causale unico. Sembra, invece, che numerosi geni possano influenzare lo sviluppo del Lupus in conseguenza delle esposizione a fattori ambientali. I geni più importanti sono localizzati nella regione del cromosoma 6 che codifica per il sistema HLA, dove possono presentarsi mutazioni sporadiche (de novo) oppure ereditate.

Altri geni coinvolti sono IRF5, PTPN22, STAT4, CDKN1A, ITGAM, BLK, TNFSF4 e BANK1. Alcune mutazioni sono specifiche per determinate popolazioni.

Si ipotizza che i fattori ambientali non siano soltanto attivatori della malattia, ma anche fattori causali. È stata ricercata la connessione con determinati agenti infettivi, virali e batterici, ma in nessun caso si è riscontrata una relazione costante. Tra i vari fattori sospettati di avere un ruolo nella patogenesi della malattia sono compresi fattori chimico-fisici, quali l'esposizione ad ammine aromatiche, al fumo di tabacco, a coloranti per capelli e alla luce ultravioletta, fattori dietetici, come l'assunzione di canavanina e alte dosi di acidi grassi saturi, e fattori ormonali, in particolare estrogenici e progestinici. Alcuni ricercatori hanno rilevato la presenza di autoanticorpi diretti contro il collagene in donne sottoposte a mastoplastica con protesi mammarie a base di silicone; tuttavia, studi successivi hanno dimostrato che non vi è correlazione tra la presenza di questi e l'insorgenza di connettiviti quali il lupus.

Il lupus eritematoso indotto da farmaci, anche detto lupus iatrogeno, è una condizione generalmente reversibile che si manifesta in pazienti trattati per malattie croniche e simula il lupus eritematoso sistemico. I sintomi generalmente scompaiono con la sospensione del farmaco. Tra i 38 farmaci che possono causare questa condizione i più comuni sono procainamide, isoniazide, idralazina, chinidina e fenitoina.

Nel lupus il sistema immunitario produce anticorpi rivolti contro antigeni propri del corpo, in particolare contro proteine del nucleo. Tuttavia i fattori ambientali che originano questa reazione sono sconosciuti. Durante lo sviluppo della risposta immunitaria, il corpo produce anticorpi verso fattori esogeni, come batteri, virus, allergeni e farmaci, iniziando una reazione che porta all'apoptosi di cellule del corpo stesso e all'esposizione di strutture intracellulare di solito nascoste ai meccanismi immunitari, come il DNA, gli istoni e altre proteine nucleari. Questa esposizione porta i linfociti B a produrre autoanticorpi verso tali molecole, che finiscono per legarsi all'endotelio vascolare, scatenando il processo autoimmunitario in aree critiche, quali, per esempio, i glomeruli renali. È presente, inoltre, un'iperattività linfocitaria, testimoniata dall'aumento di molecole di superficie, quali HLA-D e CD40L.

Il meccanismo che si suppone sia alla base dell'infiammazione cronica presente nel lupus è un'ipersensibilità di III tipo, con un potenziale coinvolgimento di quella di II tipo. La livedo reticolare presente come possibile manifestazione clinica della malattia potrebbe invece derivare dagli alti livelli plasmatici di anticorpi anti-cardiolipina o essere un effetto secondario della terapia.

Il lupus eritematoso sistemico è una delle malattie conosciute nei paesi anglosassoni come il grande imitatore (the great imitator) perché spesso simula o viene scambiato per altre patologie. Il Lupus rientra molto spesso in diagnosi differenziale con altre malattie, a causa dei suoi segni e sintomi estremamente variabili e imprevedibili. Si manifesta nelle fasi iniziali tipicamente con febbre, malessere generale, artralgia, mialgia, affaticamento e deficit temporaneo di capacità cognitive. Essendo questi segni e sintomi comuni a numerose altre malattie, essi non vengono considerati tra i criteri diagnostici di lupus. Tuttavia, in compresenza con quelli descritti più avanti, possono risultare indicativi. La stanchezza ha probabilmente una genesi multifattoriale, correlata alla malattia e alle sue complicanze, ma anche al dolore, a episodi depressivi, a una scarsa qualità del sonno, a una scarsa forma fisica e alla percezione di abbandono sociale.

Il 30% dei pazienti manifesta segni dermatologici e, di questi, una percentuale compresa tra il 30% e il 50% presenta il tipico eritema a farfalla. Possono essere presenti alopecia, ulcerazioni della mucosa orale, nasale, urinaria e genitale e altre lesioni cutanee. Piccoli strappi possono presentarsi nella mucosa periorbitaria dell'occhio, anche dopo un minimo sfregamento.

Il sintomo clinico per cui il paziente si rivolge al medico è spesso l'artralgia, soprattutto localizzata alle piccole articolazioni della mano e del polso, sebbene tutte le articolazioni siano a rischio. Si stima che durante la propria vita il 90% degli individui affetti manifesti almeno un episodio di artralgia o mialgia. A differenza dell'artrite reumatoide, l'artrite lupica risulta essere meno debilitante e solitamente non causa seri danni alla cartilagine articolare. Tuttavia meno del 10% dei pazienti sviluppa un'artrite deformante delle mani e dei piedi. È stata suggerita una correlazione tra artrite reumatoide e lupus, il quale pare inoltre essere correlato a un maggior rischio di frattura ossea nelle giovani donne. Il LES, inoltre, aumenta il rischio di sviluppare tubercolosi osteoarticolare.



Il 50% dei pazienti sviluppa anemia. Piastrinopenia e leucopenia possono essere presenti come segno della malattia o come effetto collaterale della terapia; può essere presente deficit da consumo del sistema del complemento. Può esserci compresenza di sindrome da anticorpi antifosfolipidi, un disordine trombotico caratterizzato da autoanticorpi contro i fosfolipidi nel siero. Gli esami di laboratorio rivelano un allungamento paradossale del tempo di tromboplastina parziale, caratteristico normalmente dei disordini emorragici e un ricerca positiva degli anticorpi antifosfolipidi. Di frequente riscontro nel LES sono gli anticorpi anticardiolipina, che possono portare a evidenziare falsi positivi nei test diagnostici per la sifilide.

Nel paziente affetto da Lupus possono manifestarsi malattie infiammatorie a livello del cuore, quali pericardite, miocardite ed endocardite. L'endocardite in corso di lupus, denominata endocardite di Libman-Sacks, è di origine non infettiva e può coinvolgere le valvole mitrale e tricuspide. In questi pazienti, inoltre, l'aterosclerosi è più frequente ed è caratterizzata da una progressione clinica più rapida. L'infiammazione dei polmoni e della pleura può invece essere causa di pleurite, versamento pleurico, pneumopatia cronica interstiziale, ipertensione polmonare, embolia polmonare, ed emorragie.

A livello renale, spesso, le uniche alterazioni presenti sono ematuria o proteinuria asintomatiche. Esse possono costituire la prima o l'unica manifestazione della nefrite lupica, ovvero il quadro clinico e patologico causato dal Lupus a livello renale. La nefrite si manifesta in una proporzione variabile dal 30 a 90% dei pazienti nei vari studi; tuttavia anomalie urinarie, come proteinuria e microematuria, sono presenti nel 50% dei pazienti già al momento della diagnosi e nel 75% dei pazienti nel corso della malattia. La nefrite lupica può portare a insufficienza renale acuta o cronica. Gli aspetti istologici sono estremamente variegati, potendo simulare molte glomerulonefriti primitive come la glomerulosclerosi segmentaria e focale e la glomerulonefrite membranosa. La classificazione attualmente utilizzata è quella proposta nel 2004 da un gruppo internazionale di nefrologi e patologi.

La clinica neurologica e psichiatrica contribuisce in modo significativo alla prognosi della malattia e per questo viene studiata con il fine di ridurne morbilità e mortalità. Tali manifestazioni vengono definite "lupus eritematoso sistemico neuropsichiatrico"  e sono spesso caratterizzate da un grave danno alla barriera emato-encefalica. L'American College of Rheumatology ha descritto 19 sindromi neuropsichiatriche che possono essere presenti in pazienti affetti da lupus, la cui diagnosi è estremamente difficile, per l'ampia variabilità di presentazioni cliniche, che possono essere scambiate come segno di malattie infettive o ictus. La più comune è la cefalea, sebbene l'esistenza di una specifica cefalea lupica e l'approccio terapeutico rimangano dibattuti. Altre manifestazioni comuni sono: delirio, disturbi dell'umore, malattie cerebrovascolari, convulsioni, polineuropatia, ansia, psicosi e disturbi della personalità. Raramente può presentarsi ipertensione endocranica, con papilledema, cefalea e paralisi del nervo abducente, in assenza di lesioni occupanti spazio e di idrocefalo e con analisi del liquido cefalorachidiano nella norma. Raramente si possono presentare sindrome di Guillain-Barré, meningite asettica, neuropatia autonomica, mononeuropatia, disordini del movimento (soprattutto corea) e miastenia gravis. Una sindrome depressiva viene riscontrata nel 60% delle donne affette dalla malattia.

Il lupus è associato a un aumentato rischio di aborto spontaneo e il tasso di gravidanze a termine con neonati vivi è stato stimato al 72%. La prognosi è peggiore per le donne che sviluppano la malattia durante la gravidanza rispetto a quelle già precedentemente malate. Il lupus neonatale è un'entità clinica caratterizzata dalla presenza di sintomi correlati a Lupus in un neonato da madre affetta, consistenti tipicamente in un rash simile a quello del lupus discoide. Talvolta si manifesta con epatosplenomegalia e blocco elettrico del cuore. Il lupus neonatale è generalmente benigno e autolimitante.

Le lesioni istologiche sono presenti in tutti gli organi del corpo umano, tuttavia sono le lesioni renali e cutanee a godere della maggior importanza diagnostica e prognostica.

La nefrite lupica è suddivisa in sei stadi istologici, secondo la classificazione dell'OMS del 1982, poi aggiornata nel 1995.

La presenza di cellule LE è stata lungamente utilizzata per la diagnosi, ma è caduto in disuso come criterio diagnostico in quanto rilevabile solo nel 50–75% dei casi di Lupus, ma presente anche nei pazienti con artrite reumatoide, sclerodermia e sensibilità ai farmaci, assumendo un significato puramente storico.

I criteri diagnostici descritti dall'American College of Rheumatology (ACR) sono stati descritti nel 1982 e rivisti nel 1997. Tali criteri non sono stati creati per la diagnosi individuale, bensì per valutare l'inserimento negli studi clinici, con la presenza di almeno 4 di essi simultaneamente o consequenzialmente in due separate verifiche.

Alcuni individui, soprattutto quelli con sindrome da anticorpi antifosfolipidi, possono essere affetti da Lupus anche senza positività a 4 dei criteri; inoltre il lupus può presentarsi con entità cliniche non presenti nella lista precedente. Per la diagnosi individuale sono stati proposti criteri alternativi o si è pensato a una diversa interpretazione dei criteri precedenti, diagnosticando il Lupus in individui con compresenza di eritema a farfalla e disordini immunologici (sensibilità del 92% e specificità del 92%) o portando a sei il numero di criteri positivi richiesti (sensibilità del 97% e specificità del 95%).

Il trattamento del Lupus consiste nella prevenzione delle riacutizzazioni e nella riduzione della loro durata ed entità quando si presentano; le forme lievi o remittenti possono non necessitare di alcun trattamento. Questo include l'uso di farmaci antinfiammatori, come FANS o corticosteroidi, e di farmaci antimalarici. In certi stadi della nefrite lupica, come nella proliferativa diffusa, è necessario utilizzare chemioterapici come ciclofosfamide, micofenolato mofetile o tacrolimus.

L'idrossiclorochina (HCQ) è stata approvata nella terapia del lupus dalla FDA nel 1955, mentre molti altri farmaci sono utilizzati nel trattamento secondo indicazioni Off-label. Nel marzo del 2011 è stato approvato l'utilizzo del belimumab, un anticorpo monoclonale, per il trattamento del dolore e delle riacutizzazioni del LES; sono inoltre in corso numerosi studi clinici per la sperimentazione di nuovi farmaci e nuovi schemi terapeutici. È stato inoltre proposto l'utilizzo del deidroepiandrosterone (DHEA) per il trattamento del LES lieve-moderato e una sperimentazione è in corso all'Università di Stanford.

I farmaci antireumatici modificanti la malattia vengono utilizzati nella prevenzione degli episodi di riacutizzazione, della progressione della malattia e per ridurre l'uso di farmaci steroidei. Quando si manifesta la riacutizzazione questa viene trattata tramite corticosteroidi, tuttavia questi non sono esenti da effetti collaterali: i pazienti trattati possono sviluppare sindrome di Cushing iatrogena, diabete mellito, osteoporosi e, a lungo termine, ipertensione e cataratta. I farmaci normalmente utilizzati sono antimalarici, come l'idrossiclorochina, e immunosoppressori, come il metotrexato e l'azatioprina.

L'uso dell'idrossiclorochina è indicato per le manifestazioni cutanee e articolari del Lupus. È caratterizzata da una bassa incidenza di effetti collaterali e garantisce un aumento della sopravvivenza degli individui affetti.

La ciclofosfamide è utilizzata nelle glomerulonefriti gravi e nel danno d'organo. Il micofenolato è anch'esso utilizzato nel trattamento della nefrite lupica, ma fuori dalle indicazioni approvate; sembra possa essere associato a difetti neonatali quando utilizzato in donne gravide. Il trapianto renale rappresenta, invece, il trattamento di scelta per i pazienti con malattia renale cronica, una delle complicanze della nefrite lupica presente in fino al 30% dei pazienti. Data la possibile presenza di comorbilità, tali pazienti devono essere sottoposti a un adeguato screening cardiovascolare prima del trapianto; devono inoltre essere valutati gli anticorpi antifosfolipidi, possibili responsabili di trombosi nel rene trapiantato. Il rischio di recidiva della nefrite lupica nei trapiantati è compreso tra il 2 e il 30%, mentre il rigetto è raro se i pazienti sono sottoposti ad un adeguato regime immunosoppressivo.

Un gran numero di malati di Lupus sviluppano dolore cronico secondariamente alla malattia e vengono trattati tramite farmaci analgesici. I FANS non garantiscono una risposta efficiente e costante, e i farmaci più potenti, come indometacina e diclofenac sono controindicati in quanto aumentano il rischio di insufficienza renale e cardiaca.

La somministrazione endovenosa di immunoglobuline (IVIG) può essere utilizzata per controllare il coinvolgimento degli organi e le vasculiti. Si ritiene che riduca la produzione di anticorpi e promuova la rimozione degli immunocomplessi dai tessuti, tuttavia il meccanismo d'azione non è stato ancora chiarito. A differenza di corticosteroidi e immunosoppressori, le immunoglobuline endovena non sopprimono il sistema immune, quindi riducono il rischio di infezioni opportunistiche.

La sindrome da anticorpi antifosfolipidi è correlata con l'esordio dei sintomi neurologici del Lupus e si manifesta con episodi trombotici ed embolici, talvolta a livello cerebrale con ictus. In caso di sospetto è indicata l'esecuzione di una TC o di una RM cerebrali e, nel caso di conferma, è necessario instaurare una terapia anticoagulante. Sono spesso utilizzate a questo proposito terapie a base di acido acetilsalicilico a basso dosaggio e, in caso di trombosi, terapia anticoagulante orale a base di warfarin.

Il lupus eritematoso sistemico è una malattia considerata incurabile, ma ben trattabile. Negli anni cinquanta la maggior parte delle persone con diagnosi di lupus sopravviveva meno di cinque anni; il miglioramento della diagnostica e della terapia hanno aumentato drasticamente la sopravvivenza, tanto che più del 90% dei pazienti sopravvive per più di dieci anni, e molti con una qualità di vita buona e un decorso relativamente asintomatico. Questa statistica si riferisce agli studi clinici documentati, e non rappresenta un dato medio di sopravvivenza, tanto che la maggioranza dei pazienti può aspettarsi di vivere una quantità di anni nella media della popolazione sana.

La prognosi è generalmente peggiore in uomini e bambini; inoltre, qualora i sintomi si presentino dopo i 60 anni, la malattia tende ad avere un decorso benigno. La mortalità precoce, entro i cinque anni, è dovuta a insufficienze d'organo e a infezioni opportunistiche, che possono essere evitate da una diagnosi e un trattamento precoci. Il tasso di mortalità negli stadi avanzati è cinque volte quello della popolazione sana, soprattutto per cause cardiovascolari secondarie a terapia corticosteroidea.

Per ridurre il rischio di accidenti cardiovascolari, è necessaria la prevenzione e il trattamento aggressivo di ipertensione arteriosa e ipercolesterolemia. Gli steroidi devono essere utilizzati al dosaggio più basso e per il minor tempo possibile, mentre gli altri farmaci sintomatici devono essere utilizzati ogni volta sia possibile. Ipercreatininemia, ipertensione, sindrome nefrosica, anemia e ipoalbuminemia sono fattori prognostici negativi.

Gli anticorpi antinucleo sono il test di screening più sensibile per la diagnosi, mentre gli anti-Sm sono i più specifici. Gli anti-dsDNA sono abbastanza specifici e fluttuano spesso in correlazione con lo stato di attività della malattia; possono quindi essere utilizzati per valutare indicativamente le riacutizzazioni della malattia e la risposta alla terapia.

Il lupus eritematoso sistemico non è stato ancora studiato abbastanza da poterne descrivere la prevenzione, tuttavia, una volta sviluppata la malattia, la prevenzione degli episodi acuti può migliorare la qualità di vita. I segnali di allarme di una riacutizzazione includono affaticamento, dolore e malessere addominale, rash cutanei, febbre, cefalea e vertigini.

Con l'aumento della sopravvivenza dei malati di lupus, è aumentata l'incidenza di complicanze cardiovascolari, infettive, osteoporotiche e neoplastiche, dovute sia alla malattia, sia al suo trattamento, che devono essere riconosciute monitorate tramite un accurato follow-up.

Cambiamenti nello stile di vita sono consigliati per ridurre il rischio di riacutizzazioni e di complicanze del lupus. Evitare la luce solare è il primo cambiamento necessario nei pazienti, in quanto essa è riconosciuta come un fattore esacerbante la malattia, così come lo sono gli effetti dell'affaticamento eccessivo. I farmaci non correlati alla terapia del lupus devono essere somministrati solo se non sono riconosciuti come eventuali fattori causali. La riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare incide positivamente sulla prognosi della malattia: in particolare il controllo dell'ipertensione arteriosa e del diabete e la riduzione del peso corporeo e dei valori di colesterolemia sono correlati a un minor rischio di malattia coronarica.

Il paziente deve inoltre evitare l'esposizione occupazionale a silice, fitofarmaci e mercurio, che possono peggiorare il decorso della malattia.

Mentre la maggior parte dei neonati da madri con lupus sono sani, le donne gravide affette da Lupus devono essere strettamente monitorate fino al parto. Il lupus neonatale è un'evenienza rara, ma l'identificazione delle madri ad alto rischio di complicanze permette di impostare un trattamento medico sia prima, sia dopo la nascita. Il Lupus può inoltre riacutizzarsi durante la gravidanza e deve essere prontamente trattato. Le donne gravide con positività degli anticorpi anti-Ro o anti-La spesso necessitano di ecocardiogrammi alla 16ª e 30ª settimana per monitorare il cuore e le strutture vascolari circostanti.

La gravidanza deve essere possibilmente programmata per i periodi di remissione della malattia e può essere prevenuta tramite metodi contraccettivi, tra i quali anche i contraccettivi orali.

Vista la natura incurabile del lupus, la ricerca scientifica è orientata a investigare possibili cause della malattia e a identificare sia una cura definitiva, sia trattamenti più efficaci nel garantire un'alta qualità di vita nei pazienti. Nuovi farmaci che stanno venendo sperimentati sono l'atacicept e il rigerimod ed è in corso, inoltre, la sperimentazione di un vaccino.

In numerose pubblicazioni è discussa l'importanza della presenza di anticorpi localizzati a livello cerebrale e prodotti esclusivamente nei pazienti lupici. Nel siero di tali pazienti è stata notata un'inibizione della proliferazione degli astrociti. Questi sono cellule gliali, presenti a livello cerebrale, che normalmente concorrono a garantire il supporto fisico ai neuroni e a formare la barriera emato-encefalica, provvedendo anche agli scambi di nutrienti ed elettroliti con i neuroni stessi e mantenendo l'omeostasi. Questo studio, basato sullo studio, tramite immunofluorescenza, degli anticorpi anticardiolipina a livello del corpo calloso, ha mostrato come tali anticorpi abbiano un effetto inibitorio sulle cellule cerebrali e facilitino la formazione di trombi, che potrebbero avere un ruolo nella genesi delle manifestazioni neuropsichiatriche del lupus.

La maggior parte delle pubblicazioni si focalizza nello studio dell'integrità della barriera emato-encefalica, considerando che il 20–70% dei pazienti con lupus eritematoso sistemico mostrano segni di un coinvolgimento cerebrale. Tra le metodiche di studio della barriera vengono utilizzate numerose tecniche di imaging biomedico, così come l'analisi del liquido cefalorachidiano prelevato tramite puntura lombare.

Il possibile danno alla barriera emato-encefalica può essere studiato valutando il contenuto di albumina nel tessuto cerebrale. L'albumina è una proteina che può essere trasportata attraverso la barriera tramite proteine di trasporto: qualora la sua concentrazione a livello cerebrale fosse superiore di quella a livello plasmatico, ciò starebbe a significare la presenza di una barriera danneggiata, che potrebbe essere in parte responsabile dell'insorgenza e dell'intensità di manifestazioni cliniche del lupus.

Attualmente in Italia i malati di Lupus sono circa 50.000, con un numero di circa 1.500-2.000 nuovi casi diagnosticati ogni anno. Sembrano colpite maggiormente persone che vivono nei grandi centri urbani. Colpisce in prevalenza il sesso femminile, in età fertile, con un rapporto di 8:1, ma esiste anche una forma di Lupus pediatrico. Il sesso maschile è colpito con un picco di incidenza intorno ai 50 anni. Sono stati presi in considerazione quali possibili cause, o concause, dell'insorgenza della malattia, anche aspetti psicologici che possono scatenare il Lupus come quelli legati allo stress, con coinvolgimento  dell'asse ipotalamo ipofisario surrenale, come del resto rilevato per altre malattie autoimmuni. Altri fattori scatenanti possono essere delle infezioni virali o alcuni farmaci e i raggi ultravioletti.

Il Lupus neuro-psichiatrico rappresenta una delle 11 categorie presenti nell'elenco delle manifestazioni di questa malattia  questa categoria si suddivide a sua colta in 19 tipi di patologie neurologiche e psichiatriche.

Questo è l'aspetto più interessante della malattia perché apre nuovi orizzonti nell'interpretazione dei disturbi che tutte le altre malattie autoimmuni possono dare a livello del sistema nervoso. E' ormai evidente che gli autoanticorpi in questa malattia e in altre della stessa famiglia raggiungono il cervello alterandone le funzioni, in molti casi in una forma subdola e poco evidente che spesso viene confusa con stati ansiosi e depressivi secondari alla malattia stessa, ma che invece sono un vero e proprio danno ai neuroni. Se ciò avviene in questa grave patologia si può ipotizzare che anche le altre numerose malattie autoimmuni generino danni nervosi e quindi bisognerebbe valutare se alla base di tutti i disturbi psicologici, psichiatrici e neurologici non vi sia un origine anticorpale del danno. Questa ipotesi apre nuove strade a tutte le patologie funzionali del cervello in cui agli aspetti comportamentali, sociali, ambientali potrebbero, in molti casi, avere solo un effetto secondario. Non dimentichiamo però che l'effetto scatenante di una malattia autoimmune spesso è una sregolazione dell'asse ipotalamo-ipofisi surrene, spesso innescata da un evento stressogeno. La dimostrazione che la causa del Lupus psichiatrico è anticorpale e non "psicologica" è evidente nei recenti lavori di Ballok e colleghi in cui si è studiato un topo affetto da lupus che manifestava disturbi affettivi, comportamentali e di apprendimento. Chiaramente l'animale non sa di essere malato e quindi la sua depressione è dipendente dal danno neuronale che i suoi autoanticorpi hanno prodotto nel suo cervello.

In un recente lavoro del 2004 di Ballok e colleghi, si è condotto un amplissimo studio su un modello animale murino che sviluppa spontaneamente il Lupus e si è dimostrando che la malattia è accompagnata da diminuzione del catabolismo dopaminergico, con aumento di dopamina, che ha come conseguenza danno neuronale con degenerazione dei terminali assonici nel mesencefalo. Sono stati studiati aspetti comportamentali, anatomopatologici e di  quantificazione dei valori di catabolismo dei neurotrasmettitori. Dal punto di vista comportamentale i topi MRL-lpr (topi proni allo sviluppo di LES) hanno dimostrato deficit delle performaces nei tests di:
comportamento motivato
reattività emozionale
nelle capacità di apprendimento
nelle capacità mnemoniche
Tali risultati si sono ottenuti con il test della preferenza allo zucchero che è indice di anedonia e depressione, con il test sull'iperattività motoria e con il test da nuoto. Un altro interessante risultato di questa ricerca è stato ottenuto utilizzando il liquor dei topi ammalati su culture di neuroni, infatti è risultato più tossico che non il siero ottenuto dagli stessi animali. Sono stati studiati i livelli di ANA e il peso della milza aumentati entrambi. Si sono anche cercati i neuroni positivi per la produzione di Tirosina Idrossilasi (TH) che ha permesso di dimostrare aree cerebrali con diminuito numero di cellule dopaminergiche del mesencefalo. Tutti gli esperimenti sono stati comparati con i dati ottenuti con topi singenici non affetti e con topi affetti e trattati con terapia immunosoppressiva con ciclofosfammide. Il lavoro conclude dicendo che in questo modello animale di Lupus si ha un danno al sistema dopaminergico prodotto da un difettoso catabolismo dei neurotrasmettitori innescato dalla reazione infiammatoria prodotta dagli autoanticorpi.

Le donne, pur avendo un sistema immunitario migliore rispetto ai maschi, sono più predisposte alle patologie autoimmuni, così come gli uomini sono più colpiti dalla sindrome di Klinefelter, malattia genetica per cui un individuo di sesso maschile possiede un doppio cromosoma X. Ora uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science e realizzato dai ricercatori della Pennsylvania University fa luce su un meccanismo nuovo e focalizza la ricerca proprio sul cromosoma X, lasciando intravedere una possibilità di individuare un bio-marcatore del lupus e di altre malattie autoimmuni, attualmente non disponibile (ovvero un tracciante, la cui misurazione è utile per predire l’insorgenza di una patologia specifica).

I ricercatori si sono concentrati in particolare sul meccanismo di inattivazione del cromosoma X, detto anche effetto Lyon o lyonizzazione, normale processo biologico che interessa tutte le femmine di mammifero e che consiste nella disattivazione (perdita di funzione) di uno dei due cromosomi sessuali X presenti nelle loro cellule (XCI o X chromosome inactivation). Ogni donna infatti possiede due cromosomi X, ma solo uno viene utilizzato interamente, mentre l’altro - pur contenendo una grande quantità di informazioni - non verrà “letto” in alcun modo. Il fattore chiave alla base del “silenziamento” di uno dei due cromosomi X nelle cellule dei soggetti di sesso femminile è un gene chiamato Xist. Nel corso della ricerca, che ha preso in esame linfociti T e B di topi e umani sani, è emerso che, sebbene il gene Xist fosse presente all’interno delle cellule, questo non si trovava nella posizione idonea al totale silenziamento del cromosoma X, che pertanto risultava parzialmente attivo. Questa scoperta ha sorpreso i ricercatori, poiché normalmente l’inattivazione del cromosoma X avviene a livello embrionale. Ora lo stesso team di esperti sta esaminando le cellule di pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico, per il quale non esiste un bio-marcatore. Qualora nella ricerca venissero riscontrati specifici modelli di disposizione del Xist in persone affette da malattie autoimmuni, gli studiosi sarebbero molto vicini a individuare un bio-marcatore attendibile.



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LA LEGIONELLA



Il nome “legionella” ha origine da un famoso convegno di legionari, ex combattenti della guerra del Vietnam, tenutosi al Bellevue-Stratforf Hotel di Philadelphia nell'estate del 1976: in quell'anno, 221 Legionnaires - tra i 4.000 presenti - furono colpiti da una strana infiammazione polmonare e, per 34 di questi, l'esito fu fatale. Di primo acchito, vennero accusati i Russi dell'ipotetico attacco biologico, ma l'anno successivo si scoprirono i reali motivi che causarono la malattia: nell'impianto di areazione dell'albergo, si individuò un nuovo battere, chiamato successivamente Legionella pneumophila proprio in ricordo del tragico evento.

La legionella è un genere di batteri gram-negativi aerobi di cui sono state identificate più di 50 specie, suddivise in 71 sierotipi. Quella più pericolosa, a cui sono stati collegati circa il 90% dei casi di legionellosi, è L. pneumophila.

Le legionelle sono presenti negli ambienti acquatici naturali e artificiali: si riscontrano nelle sorgenti, comprese quelle termali, nei fiumi, laghi, vapori, terreni. Da questi ambienti esse risalgono a quelli artificiali come le condotte cittadine e gli impianti idrici degli edifici, come i serbatoi, le tubature, le fontane e le piscine (sono state rilevate anche in fanghi di fiume o torrente, o argilla per manufatti in terracotta).

Le condizioni più favorevoli alla proliferazione sono:
condizioni di stagnazione;
presenza di incrostazioni e sedimenti;
biofilm;
presenza di amebe.
I batteri, inoltre, possono sopravvivere con una temperatura dell'acqua compresa tra i 5,7 e i 55 °C, mentre hanno il massimo sviluppo con una temperatura dell'acqua compresa tra i 25 e i 42 °C. Da evidenziare la loro capacità di sopravvivenza in ambienti sia acidi, sia alcalini, sopportando valori di pH compresi tra 5,5 e 8,1.

L'uomo contrae l'infezione attraverso aerosol, cioè quando inala acqua in piccole goccioline (1-5 micron) contaminata da una sufficiente quantità di batteri; quando questa entra a contatto con i polmoni di soggetti a rischio, insorge l'infezione polmonare. Finora non è stata dimostrata la trasmissione interumana diretta. L'infezione da legionella può dare luogo a due distinti quadri clinici: la febbre di Pontiac e la legionellosi. La febbre di Pontiac ha un periodo di incubazione di 24-48 ore e si risolve in 2-5 giorni. È accompagnata da malessere generale e cefalee seguiti da febbre. La legionellosi ha un periodo di incubazione medio di 5-6 giorni ed è molto più grave: oltre a malessere, cefalee e tosse, possono essere presenti sintomi gastrointestinali, neurologici e cardiaci e complicanze varie; nei casi più gravi può addirittura essere letale. Una polmonite da legionella non si distingue da altre forme atipiche o batteriche di polmonite, ma è riconoscibile dalle modalità di coinvolgimento degli organi extrapolmonari. I principali fattori di rischio che favoriscono l'acquisizione della legionellosi sono:
età avanzata
il fumo
immunodeficienza
sesso maschile
patologie cronico-degenerative
In Italia sono stati registrati mediamente qualche centinaio di casi di legionellosi ogni anno ma si ritiene che tale numero sia in realtà sottostimato, anche perché a volte la malattia non viene diagnosticata. La malattia è letale nel 5-15% dei casi.

Le installazioni che producono acqua nebulizzata, come gli impianti di condizionamento, le reti di ricircolo acqua calda negli impianti idrico-sanitari, costituiscono dei siti favorevoli per la diffusione del batterio. Considerato che l'intervallo di proliferazione del batterio va dai 15 °C a 50 °C (fino a 22 °C il batterio esiste ma è inattivo), esistono delle zone critiche negli impianti idrosanitari: all'interno delle tubazioni, specialmente se obsolete e con depositi all'interno, o anche in tratti chiusi, nei serbatoi di accumulo, nei bollitori, nei soffioni della doccia e nei terminali di distribuzione; anche i sistemi idrici di emergenza, come le docce di decontaminazione, le stazioni di lavaggio per gli occhi e i sistemi sprinkler antincendio possono essere luogo di proliferazione. La legionella è stata rilevata anche in vasche e piscine per idromassaggio. Questi impianti usano acqua calda (in genere tra 32 e 40 °C) e iniettano getti di acqua o aria a grande velocità: i batteri possono essere rilasciati nell'aria dalle bolle che risalgono o con un fine aerosol. Alcuni casi di legionellosi sono stati associati alla presenza di fontane decorative in cui acqua viene spruzzata in aria o fatta ricadere su una base. Le fontane che funzionano a intermittenza presentano un rischio più elevato di contaminazione. Gli altri impianti dove il rischio legionella è elevato sono le torri di raffreddamento a circuito aperto e a circuito chiuso, laddove nelle vicinanze ci sia la presenza di canalizzazioni di ripresa o aspirazione d'aria. Da considerare anche gli impianti di condizionamento dell'aria, come gli umidificatori/raffrescatori a pacco bagnato, i nebulizzatori, i sistemi a spruzzamento, il raffreddamento adiabatico. Un'ulteriore fonte di rischio sono gli accumulatori, normalmente presenti negli impianti solari per la produzione di ACS (acqua calda sanitaria), la cui temperatura normale di esercizio si aggira attorno ai 50 °C. La nebulizzazione avviene nei miscelatori di erogazione presenti all'interno della casa, ad esempio quelli della doccia o del bagno. In alternativa è possibile utilizzare una Fresh Water Unit che non consente un contatto diretto tra acqua accumulata e quella utilizzata. Da tenere presente, infine, è che, nel febbraio 2012, The Lancet ha riportato il caso di un'anziana, deceduta nell'ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, la quale aveva contratto la legionellosi attraverso l'apparecchio di nebulizzazione di un dentista.



Le strategie per combattere la proliferazione della legionella nascono innanzitutto dalla prevenzione da effettuarsi in sede di progetto e da una gestione/manutenzione adeguata al rischio e professionale. Il Rischio Legionella è contemplato nel Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro, (Elenco degli agenti biologici I), inoltre sono state pubblicate Linee-guida per la prevenzione e il controllo della legionellosi, negli impianti idrico sanitari e negli impianti di climatizzazione, approvate dalla Conferenza Permanente Stato/Regioni, essendo la salute e sicurezza materia concorrente. Una corretta progettazione, installazione e manutenzione è descritta nella norma tecnica UNI 9182. Per quanto riguarda gli impianti idrici, si raccomanda di:
evitare tubazioni con terminali ciechi o senza circolazione;
evitare formazione di ristagni;
evitare lunghezze eccessive di tubazioni;
evitare contatti tra acqua e aria o accumuli in serbatoi non sigillati;
prevedere una periodica e facile pulizia;
scegliere con cura i materiali (è stato rilevato che le tubazioni di rame riducono la proliferazione della legionella);
evitare la scelta impiantistica di torri evaporative in favore di soluzioni alternative, come i sistemi water spray system, pozzi geotermici;
prevenire la formazione di biofilm e incrostazioni.
I trattamenti da effettuare, tenuto conto che bisogna rimuovere le cause, cioè i biofilm e le incrostazioni, una volta constatata la proliferazione vanno valutati caso per caso; in genere i più comuni sono:
Trattamento termico, in cui si mantiene l'acqua a una temperatura superiore ai 60 °C, condizione in cui si inattiva la legionella;
Shock termico: si eleva la temperatura dell'acqua, generalmente per mezzo di scambiatori di calore, fino a 70-80 °C per almeno 30 minuti al giorno per tre giorni, fino ai rubinetti;
Iperclorazione continua: si introduce cloro nell'impianto sotto forma di ipoclorito di calcio o di sodio, fino a che la concentrazione residua del disinfettante sia compresa tra 1 e 3 mg/l;
Iperclorazione shock: si mantiene una concentrazione di 50 mg/l per un'ora oppure 20 mg/l per due ore;
Biossido di cloro: consente una disinfezione continua, con valori modesti di cloro residuo, mantenendo la potabilità dell'acqua, rimuove il biofilm (habitat naturale della legionella) e costituisce un'azione molto prolungata sia nel tempo sia nella distanza dal punto di iniezione; i valori consigliati sono di 0,2-0,4 mg/l; non produce sottoprodotti (tipo i THM), viene prodotto in loco con appositi generatori con capacità di produzione adeguate all'impianto da disinfettare; con le concentrazioni sopra dette non produce aggressioni alle tubazioni;
monoclorammina: le monoclorammine sono più stabili del cloro libero, hanno un maggior potere residuo, non danno origine a trialometani e penetrano meglio nel biofilm. Dosaggi ottimali per l'eradicazione della legionella sono 2–3 mg/l;
Raggi ultravioletti: la luce UV (254 nm), generata da speciali lampade, uccide i batteri;
Ionizzazione rame-argento: si producono ioni generati elettroliticamente fino a una concentrazione di 0,02-0,08 mg/l di Ag e 0,2-0,08 mg/l di Cu;
Colloidi rame-argento: a differenza della ionizzazione, molto instabile, si utilizzano nano particelle ognuna delle quali ha oltre 6 milioni di ioni in superficie, che sono i veri biocidi;
Perossido di idrogeno e argento: si sfrutta l'azione battericida e sinergica tra l'argento e una soluzione concentrata di perossido di idrogeno (acqua ossigenata).
Ozono: L'attività germicida dell'ozono si fonda sulla elevata capacità di ossidante diretto; grazie a questa qualità, tutte le strutture macromolecolari delle cellule (muffe, batteri acetici, eterolattici, lieviti apiculari, ecc.) vengono profondamente alterate e inattivate;
Filtri terminali: applicati direttamente al punto di prelievo, formano una barriera meccanica (0,2 µm) al batterio ma devono essere sostituiti con una certa periodicità. Solitamente vengono applicati in abbinata al biossido di cloro, nei punti ad altissimo rischio (docce per grandi ustionati, docce per neonatologia, ecc.).
Tutti i trattamenti sopra descritti sono più o meno utili e funzionanti, ma tutti concordano che il massimo risultato si ottiene con l'eliminazione del biofilm. Sulla base della normativa esistente, il rischio legionella deve essere contenuto nel Documento di Valutazione dei Rischi che ogni Datore di Lavoro ha l'obbligo di redigere.

Se in natura è raro imbattersi in concentrazioni sufficientemente elevate da causare un possibile contagio, quando il batterio riesce a colonizzare serbatoi artificiali (per esempio per la distribuzione di acqua potabile) la proliferazione rende più probabile la manifestazione della malattia nell’uomo. Per questo motivo molto spesso i casi rilevati sono inquadrati in piccole comunità, servite da un unico serbatoio o da tubature comuni (alberghi, ospedali, navi da crociera, …).

In passato si riteneva che gli impianti di raffreddamento fossero la causa più frequente di contagio, ma in realtà negli ultimi anni questa ipotesi ha perso parte della sua importanza, in particolare da quanto si è scoperto che la colonizzazione poteva avvenire negli impianti dell’acqua potabile.

In alcuni casi possono sorgere complicazioni extrapolmonari, a causa della diffusione del batterio a partire dalla porta d’ingresso (polmoni).

Le segnalazioni più comuni riguardano il cuore (miocardite, pericardite, …), ma ad essere colpiti possono essere anche linfonodi, milza, fegati e reni.





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domenica 26 giugno 2016

LA CAMERA IPERBARICA



La camera di decompressione, così come è oggi concepita e in grado di essere facilmente trasportata e collocata a bordo di imbarcazioni e navi, venne inventata nel 1916 da Alberto Gianni, noto palombaro della SO.RI.MA., dopo una grave embolia, e soprattutto stanco di dover fare le lunghe soste di decompressione in acqua, alla quale erano costretti tutti i palombari all'epoca dopo avere superato i limiti di non decompressione. Inizialmente l'inventore la chiamò cassa disazotatrice, in seguito venne chiamata cassa di decompressione e poi assunse il nome definitivo attuale. La società Draeger, una delle prime aziende produttrici di attrezzature e sistemi di respirazione e di sicurezza per l'industria mineraria e poi subacquea in seguito presentò il primo modello di serie.

Consiste in un involucro cilindrico generalmente di metallo, ma anche in materiale acrilico trasparente o tessuto, e resistente a seconda delle tipologie alle medie o alte pressioni, chiuso da portelli ermetici e collegato a bombole di aria compressa respirabile e ossigeno ed eventualmente altro gas, (elio), che viene immesso per generare una pressione differente da quella atmosferica e per permettere la respirazione all'interno. I modelli utilizzati presso i centri iperbarici sono in grado di ospitare numerose persone e hanno ambienti separati ma collegati, per consentire il passaggio di pazienti e/o personale medico dall'interno verso l'esterno e viceversa permettendo la compensazione degli ambienti. Sono quindi stazioni fisse e di grandi dimensioni e con strumentazione di gestione e monitoraggio molto sofisticata, che comprende sistemi di comunicazione audio video. In certi casi può essere allestita una vera e propria sala operatoria, per delicati e particolari interventi, e nel caso si tratti di intervenire su un embolizzato con traumi e ferite causate durante una immersione.

Vi sono poi modelli portatili monoposto o a due posti che trovano sistemazione a bordo di imbarcazioni, furgoni, elicotteri e aerei, alcune sono direttamente equipaggiate con sistema di traino omologato e quindi carrellabili e trainabili dai mezzi di soccorso e/o ambulanze che permettono il recupero di embolizzati e il relativo trasporto presso il centro e successivamente il trasbordo nella camera iperbarica principale del centro tramite le flangiature di connessione e successiva compensazione della pressione. Sono stati costruiti e sono attualmente commercializzati anche modelli di camera di decompressione flessibili e portatili, realizzate con tessuti non traspiranti ad altissima resistenza, e chiusura con cerniera stagna del tutto simile a quelle delle mute subacquee speciali. Molto utili per essere trasportate ovunque, vengono utilizzate per poter effettuare terapie iperbariche a domicilio e talvolta per immersioni esplorative in ambienti carsici molto vasti e poco accessibili. Queste ultime hanno un prezzo molto competitivo e sono una soluzione alternativa molto valida soprattutto nel caso di emergenze dove non vi siano centri iperbarici o non sia possibile trasportare il paziente.

Spesso i termini camera di decompressione, camera di ricompressione o camera per terapia iperbarica o camera iperbarica sono usati a seconda dell'utilizzo che di queste ne viene fatto:

una camera di compressione viene utilizzata per trattare, ad esempio, la malattia da decompressione dei subacquei;
una camera per terapia iperbarica viene utilizzata negli ospedali o nei centri iperbarici per trattare i pazienti che possono trarre giovamento da questa terapia particolare.
Nel caso dei subacquei sportivi o sommozzatori professionisti, la camera iperbarica viene usata a seguito di permanenze subacquee oltre i limiti di non decompressione, per eseguire ricompressioni e successive decompressioni, atte a evitare rischi e complicazioni relative nel caso di mancato rispetto dei tempi limite di immersione, ed eventuali terapie iperbariche nel caso si siano verificati sintomi di malattia da decompressione e sia necessario sottoporre i subacquei colpiti da embolia gassosa arteriosa e/o traumatica (sovradistenzione ed enfisema polmonare), e comunque nei casi in cui sia richiesta una pressione differente da quella atmosferica. Consente quindi di eliminare i disagi e i rischi di una lunga decompressione subacquea in acqua, in casi di pericolo o di situazioni estreme quali quelle necessarie per immersioni professionali o attività esplorative soprattutto in acque fredde. Creata inizialmente per solo uso subacqueo, per i particolari vantaggi terapeutici, dati dalla maggior vascolarità e distribuzione di ossigeno nei tessuti in iperbaria, viene prevalentemente utilizzata ora presso strutture ospedaliere e ambulatoriali per prestazione di terapie di vario genere quali l'ossigenoterapia iperbarica.

Per usare una camera iperbarica in ambito sportivo e professionale per l'effettuazione di decompressioni standard non ci sono particolari limitazioni, tutte le grandi aziende di lavori subacquei, i corallari, alcuni centri di immersione e talvolta navi da crociera per turismo subacqueo operanti in località distanti dai centri iperbarici ne possiedono una. In ambito terapeutico e ospedaliero le norme sono molto esplicative ed è necessaria la presenza di un medico esperto in terapia iperbarica, con almeno cinque anni di esperienza documentata nella specialità. La direzione dell'impianto deve essere affidata a uno specialista in Anestesia e Rianimazione o a uno specialista in Medicina del Nuoto e delle Attività Subacquee, per la conduzione terapeutica è necessario anche un tecnico iperbarico abilitato; è quindi evidente che l'esecuzione di terapie iperbariche è demandata esclusivamente a personale fornito dei requisiti previsti dalla legge, proprio per la particolarità della branca specialistica e la tipologia dei pazienti che a essa afferiscono.

Nel caso di insorgenza di patologia da Decompressione (PDD) dopo una immersione è opportuno contattare il centro Iperbarico più vicino, avendo cura di idratare l'infortunato (se cosciente far bere almeno 2 - 3 litri di acqua) e somministrargli ossigeno normobarico a flussi elevati (almeno 10 litri/minuto), sino al raggiungimento della Camera Iperbarica. Nel caso di trasporto presso il centro iperbarico con mezzo aereo, il volo deve essere tenuto a bassa quota, per la diminuzione progressiva di pressione atmosferica verso le alte quote e relativo rischio di accelerazione dell'insorgere di embolie. Nel caso di sospetto di patologia da decompressione, in attesa di raggiungere il più vicino centro iperbarico o di arrivo dei soccorsi, deve essere posizionato in decubito laterale sinistro evitando assolutamente di sollevare le gambe del paziente per il grave rischio di embolizzazione massiva dei territori cerebrali.

Le prime camere erano state ideate per permettere la decompressione del sommozzatore in ambiente confortevole, soprattutto in seguito a delle lunghe immersioni.

Attualmente nel caso di immersioni subacquee professionali e militari, le camere iperbariche sono ospitate a bordo dei mezzi navali addetti alle attività. I sommozzatori dopo le immersioni le usano per poter effettuare le lunghe soste di decompressione, e nel caso per ottenere eventuali trattamenti di ricompressione direttamente sul posto. La presenza della camera iperbarica in questi casi è indispensabile soprattutto considerando la lontananza o la inesistenza di centri iperbarici presso i luoghi di operazione. Vengono usate le tabelle di decompressione che stabiliscono una esatta e specifica tempistica di sosta e permanenza alle varie quote per un determinato periodo di tempo e pressione a seconda del tempo di permanenza sul fondo e di profondità massima raggiunta. Generalmente nelle immersioni lavorative per scopi civili o militari è prevista per legge la presenza di un impianto iperbarico sul mezzo appoggio, che oltre a eventuali scopi terapeutici ha la finalità di diminuire i tempi di decompressione degli Operatori Tecnici Subacquei (OTS). Da un punto di vista classificativo si distinguono due tipologie di immersioni a seconda della profondità operativa: basso fondale se svolte entro la fascia dei -50 m, alto fondale se svolte oltre la fascia dei -50 m, In Italia le camere iperbariche, per legge, debbono essere tutte multiposto con camera di equilibrio, al fine di consentire l'ingresso di personale in qualsiasi momento del trattamento, collegate a bombole e compressori ad aria compressa respirabile adeguati e scorte accessorie di gas relativi, ossigeno ed elio. La gestione delle operazioni a bordo e tenuta da personale specializzato, spesso gli stessi sommozzatori, con monitoraggio e gradi di allerta elevati e costanti quando i sommozzatori sono in immersione durante le operazioni, e in seguito all'interno della camera durante la soste decompressive.



Con il progresso tecnologico nel campo delle immersioni professionali, essa ha trovato largo utilizzo nelle immersioni in saturazione. Con questa tecnica il sub è in grado di lavorare per diversi giorni a profondità notevoli e utilizzare la camera da decompressione, o meglio la stazione iperbarica, dotata dei vari necessari comfort, come abitazione, solitamente sistemata sulla nave appoggio e collegabile con campana presurizzabile di trasporto verso il fondo marino, ed effettuare una sola decompressione alla fine del ciclo di operazioni.

L'ossigenoterapia iperbarica viene prescritta dai medici per svariate patologie per alcune delle quali rappresenta colpa grave il mancato ricorso alla Terapia Iperbarica; l'elenco completo delle patologie trattabili in ambiente iperbarico è stato stilato dalla SIMSI e recepito dal Ministero della Sanità; vi sono alcune patologie che vengono trattate in fase sperimentale.

Nel 2006 una commissione mista, formata da rappresentanti delle società scientifiche, Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI), Società Italiana di Medicina Subacquea e Iperbarica (SIMSI) e di categoria, Associazione Nazionale Centri Iperbarici Privati (ANCIP), ha rivisto le Linee Guida sulle indicazioni all'Ossigenoterapia Iperbarica, alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche e seguendo le regole della medicina basata sull'evidenza (EBM). Ne sono nate le linee guida italiane sull'uso dell'Ossigenoterapia Iperbarica (OTI).

Nonostante una serie di utili benefici c'è da considerarne anche la potenziale pericolosità: ci sono stati infatti negli anni diversi incidenti. L'incidente più grave in Italia è avvenuto il 31 ottobre 1997 presso l'ospedale privato Galeazzi di Milano, quando a causa del malfunzionamento del sistema antincendio della camera ben 11 persone furono arse vive e morirono intrappolate all'interno.

La pericolosità delle camere iperbariche è data dalla presenza di ossigeno in alte concentrazioni in un ambiente iperbarico. Essendo comburente rende la combustione dei materiali combustibili molto più facile. Un evento di questo tipo nello spazio ristretto della camera e l'impossibilità spesso di aprire rapidamente il portello, tenuto bloccato dalla pressione interna, rende questi incidenti spesso mortali.

Normalmente la camera iperbarica, sia per questioni di sicurezza sia di costi, non viene riempita con ossigeno puro, ma con normale aria compressa. L'ossigeno, se somministrato, viene fornito solo tramite mascherine o erogatori a richiesta molto simili a quelli dei subacquei. Nelle moderne camere iperbariche esiste un sistema di recupero dell'espirato che permette di eliminare al di fuori della camera l'ossigeno espirato in modo da non alterare l'aria interna.

Esistono tuttavia anche camere monoposto, utilizzate per particolari patologie, che utilizzano un'atmosfera arricchita in ossigeno. Si tratta di camere intrinsecamente meno sicure per via della presenza di ossigeno compresso in tutto il volume della camera.

Sono stati fatti diversi studi sulla casistica degli incidenti avvenuti nelle camere iperbariche. Fino agli anni sessanta venivano utilizzati all'interno della camera tessuti infiammabili, seggiolini in legno, lampade a incandescenza, non esistevano sistemi antincendio e l'olio dei compressori entrava nella camera sotto forma di aerosol e si depositava sulle pareti. Prima del 1980 più di metà degli incidenti era causato da problemi elettrici, ma da allora in Europa e Nordamerica sono state prese tutte le precauzioni necessarie tanto che il problema è stato praticamente eliminato.

Attualmente tutte le camere iperbariche devono soddisfare norme severissime e anche le attrezzature mediche eventualmente da utilizzare (defibrillatori, elettrocardiografi, rianimatori, ecc) devono essere dedicate e progettate in modo da non produrre scintille. Il sistema di illuminazione è all'esterno e la luce viene portata all'interno da speciali oblò. L'umidità dell'aria viene mantenuta alta per ridurre l'accumulo di cariche elettrostatiche.

Il pericolo maggiore, in particolare nelle camere monoposto che utilizzano un'atmosfera di ossigeno, rimane l'introduzione di oggetti in grado di generare fiamme o scintille. È sufficiente anche indossare abiti o copertine fatte in materiale sintetico che per sfregamento generano elettrostaticità e quindi fiamme. Tristemente famoso fu il caso di Salvatore Iannelli, un bimbo di quattro anni di Napoli sottoposto a trattamento in una camera a ossigeno puro morto in seguito a un incendio causato da un giocattolo in grado di generare scintille che gli era stato lasciato per farlo stare buono.

Proprio in seguito a questi incidenti si sono sviluppate una serie di procedure in grado di ridurre qualsiasi rischio di incendio: da un lato si cerca di ridurre al minimo la quantità di ossigeno nella camera, dall'altro si è migliorato il controllo degli oggetti introdotti dai pazienti, anche attraverso sofisticate tecniche di analisi dell'aria in grado di individuare tracce anche minime di prodotti di combustione. Ai pazienti è assolutamente vietato indossare abbigliamento sintetico e portare con sé qualunque tipo di oggetto che produca o possa produrre una combustione come ad esempio accendini e scaldamani a carbonella. Inoltre a scopo precauzionale si fanno depositare all'esterno anche cellulari, orologi non subacquei, chiavi, torce e i dispositivi a batteria in genere.

Allo scopo di individuare sul nascere qualunque tipo di combustione in alcune camere è installato un sensibilissimo sistema di rilevazione di fumo che attraverso appositi condotti analizza costantemente l'aria della camera iperbarica.

Un grave incidente è avvenuto negli Stati Uniti, a Lauderdale by the Sea il 1º maggio 2009, presso l'OHNC della Florida, Centro di terapia iperbarica neurologico del Dr. Neubauer's, per un incendio verificatosi all'interno della camera iperbarica, e ha coinvolto due cittadini italiani: Francesco Pio Martinisi, di soli 4 anni, rimasto ustionato sul 90% del corpo e deceduto l'11 giugno e la nonna, Vincenza Pesce, che lo assisteva, anche lei è morta in seguito alle gravissime ustioni riportate. Il fatto ha destato notevole scalpore poiché per il bambino, affetto da una particolare disfunzione neurologica, era stata creata una petizione di raccolta fondi con relativo sito e blog, e per cui si era interessato anche l'ex-presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

L’ossigenoterapia iperbarica, o terapia con la camera iperbarica, utilizza una stanza stagna in cui la pressione atmosferica viene portata a livelli più alti rispetto alla norma. Solitamente è usata per la decompressione dai sub o per l’intossicazione da monossido di carbonio, ma può essere di grande aiuto per alcune malattie delle ossa. In particolare per l’osteonecrosi, cioè la morte delle cellule ossee per un insufficiente afflusso di sangue e quindi di ossigeno. Questa patologia può essere dovuta a diverse cause (terapia protratta con cortisonici, obesità, traumi), ma a volte ha un’origine sconosciuta.

I pazienti si siedono in una cabina (la camera iperbarica), dove respirano ossigeno puro attraverso una mascherina. Durante la seduta, di circa un’ora e mezzo, possono leggere un libro o un giornale. Da una centrale di controllo, i medici e i tecnici aumentano la pressione all’interno della camera iperbarica, portandola fino all’equivalente di quella presente a 14 metri sotto il mare.

In queste condizioni, l’ossigeno si scioglie nel plasma, la parte liquida del sangue, raggiungendo più facilmente e in grande quantità ogni cellula dell’organismo, anche quelle in cui l’apporto di ossigeno garantito dall’emoglobina dei globuli rossi non è sufficiente. Si è calcolato che, all’interno della camera iperbarica, la quantità di ossigeno nel sangue può raggiungere un livello superiore di 15 volte rispetto allo standard. Tutto questo permette all’ossigeno di nutrire anche le zone danneggiate dall’osteonecrosi e di rivitalizzarle.

Nel caso dell’osteonecrosi, in genere occorrono dalle 20 alle 40 sedute di ossigenoterapia iperbarica, che vengono rimborsate dal Servizio sanitario nazionale (Ssn).

In ambito ortopedico, oltre all’osteonecrosi, con la camera iperbarica si curano le osteomieliti (infezioni dell’osso), le sindromi algodistrofiche (distrofie dolorose dell’osso) e i ritardi di consolidamento delle fratture.

Non possono entrare nella camera iperbarica solo le persone con gravi scompensi cardiaci, gli epilettici e chi soffre di claustrofobia. La terapia è adatta anche ai bambini e agli anziani, purché siano in grado di compensare la pressione che si esercita sulle orecchie, con la deglutizione e altre tecniche.



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IL VERME SOLITARIO



La Taenia solium, o verme solitario è un parassita della famiglia dei tenidi (platelminti cestodi).

Come tutti i cestodi ciclofillidi, la Taenia solium ha quattro ventose sul suo scolice ("testa"). La Taenia solium ha anche due file di uncini. La Taenia solium ha un ciclo vitale biologico molto simile alla Taenia saginata, il "verme solitario del bue", con alcune piccole differenze. Le uova possono essere diagnosticate soltanto a livello di famiglia, ma se un utero della proglottide è colorato con inchiostro cinese, il numero delle ramificazioni uterine visibili può aiutare nell'identificare la specie: diversamente dall'utero della Taenia saginata, l'utero della Taenia solium ha soltanto da cinque a dieci ramificazioni uterine su ogni lato.

Taenia solium è diffusa in tutto il mondo. Poiché il maiale è l'ospite intermedio del parassita, il completamento del ciclo vitale avviene nelle regioni in cui l'uomo vive a stretto contatto con il maiale e mangia la sua carne non cotta. È comunque importante notare che la cisticercosi umana si acquisisce con l'ingestione delle larve, dette cisticerchi, presenti nelle carni degli ospiti intermedi crude o poco cotte, e raramente (solo per T.solium), per ingestione diretta di uova, presenti nelle feci umane o comunque in cibi contaminati da feci umane. La seconda infezione genera una cisticercosi nell'uomo che in questi rari casi, funge da ospite intermedio, pur essendo la specie umana albergatrice della forma adulta e quindi da considerarsi ospite definitivo. Quest'ultima forma invasiva, rara, genera una patologia nota con il termine di Neurocisticercosi. Concludendo, la forma infettiva più frequente è da attribuirsi all'ingestione di carni infette dalle forme larvali del parassita, poco cotte o crude, che una volta giunte nell'apparato gastro enterico, si ancorano all epitelio del lume duodenale, e qui si accrescono fino alla forma adulta, che si sviluppa in un paio di mesi. Di solito si riscontra un solo esemplare di taenia solium in un uomo parassitato.

La prevalenza delle malattie causate da Taenia solium interessa in modo rilevante il maiale e l'uomo in Asia, Africa, nelle Filippine, in America Latina, alcune zone dell'Europa Meridionale ed in alcune sacche del Nord America, mentre nei paesi di religione musulmana e in Israele è molto ridotta, a causa delle restrizioni alimentari imposte dalla religione.

Per comprendere bene il ciclo vitale di questo parassita, è bene partire seguendo alcuni passi fondamentali che prima di tutto ci portano alla forma adulta del cestode (3-5 metri lunghezza), cioè alla forma in grado di replicarsi ed emettere uova, la quale è albergata a livello intestinale nell'uomo parassitato. In questo distretto corporeo, il parassita si nutre assumendo per osmosi le sostanze nutritive presenti nel lume enterico. Questo cestode rilascia nell'intestino dalle 3 alle 4 proglottidi (segmenti gravidici), le quali sono espulse all'esterno con le feci dall'uomo infetto. Ogni proglottide è in grado di contenere fino a 250.000 uova, che possono resistere nell'ambiente per alcuni mesi. Il ciclo prevede la presenza di un ospite intermedio, ovvero di un ospite che faccia sviluppare le forme larvali del cestode, che in questo caso è rappresentato dai maiali. I suini infatti si infettano assumendo cibo contaminato da materiale fecale contenente uova, o comunque ingerendo uova del cestode escrete insieme a feci di uomo infetto che abbiano contaminato l'ambiente e che siano venute al cospetto del suino.



Le uova, una volta ingerite dal suino (ospite intermedio), si schiudono liberando un'oncosfera, ovvero la forma larvale prematura, che attraverso il circolo ematico raggiunge i muscoli (soprattutto masticatori), la lingua ed il cuore dell'animale, sviluppandosi nella forma larvale secondaria, che è il cisticerco. Il cisticerco può resistere vitale anche per alcuni anni in questi distretti corporei del suino. Il ciclo si conclude quando un uomo ingerisce queste larve contenute nella carne di maiale infetta non sufficientemente cotta o addirittura cruda (nel caso sia cotta bene, le larve muoiono): il parassita, giunto nell'intestino umano, si ancora, e come su detto cresce per ricominciare da capo il ciclo. Questa è la caratteristica biologica della Taenia solium; ma raramente l'uomo può contaminarsi ingerendo le uova (di solito non infettanti per la specie umana) e non con le larve come previsto dal ciclo vitale. In questo caso, è l'uomo stesso a comportarsi da ospite intermedio sviluppando i cisticerchi all'interno dello stomaco.

Il ciclo vitale del parassita si completa, come nell'infezione da verme solitario, quando l'uomo ingerisce carne di maiale non cotta contenente cisticerchi. Le cisti si estroflettono e attaccano l'intestino tenue con i loro scolici.

Sebbene l'uomo normalmente è da considerarsi ospite definitivo, mangiando carne infetta, allevando vermi solitari adulti nell'intestino e con il passaggio di uova attraverso le feci, a volte un cisticerco (o una larva chiamata anche "verme vescicolare") può svilupparsi nell'uomo e con tali comportamenti diventare ospite intermedio. Ciò accade se le uova raggiungono lo stomaco, generalmente a causa di mani sporche, ma anche per vomito. I cisticerchi spesso possono annidarsi nel sistema nervoso centrale, in cui possono causare gravi problemi neurologici come l'epilessia e perfino la morte. La presenza di cisticerchi nel corpo di una persona è chiamata cisticercosi.

La cisticercosi da Taenia solium può svilupparsi anche nell'uomo in seguito all'ingestione accidentale delle uova contenenti l'oncosfera o a fenomeni di peristalsi inversa che portino le uova a risalire il tubo digerente fino allo stomaco dove si schiuderanno per azione dei succhi gastrici.

Il decorso può provocare una sintomatologia più o meno grave dipendentemente della localizzazione delle cisti. In particolare grave è quella a livello cerebrale che può dar luogo a disturbi mentali, epilessia e segni legati all'aumento della pressione intracranica. La sede intraoculare può provocare la perdita permanente della vista.

L'infezione da Taenia solium adulta è trattata con niclosamide, che è uno dei farmaci più comuni nel trattamento delle infezioni da verme solitario adulto, così come nelle distomatosi epatiche. Dal momento che il rischio di manifestare una cisticercosi è piuttosto grave, è importante lavarsi le mani prima di mangiare ed evitare il vomito in un paziente portatore di Taenia solium, onde evitare l'insorgere di tale patologia.

Dal primo contagio al completo sviluppo passano in media 60 giorni.

La patologia resta asintomatica per molto tempo, talvolta anche qualche mese: il primo segnale della malattia è la perdita di peso marcata nonostante non vi sia un evidente cambio di dieta o stile di vita. La condizione è associata ad astenia, dovuta essenzialmente all’instaurarsi di carenze vitaminiche e nutritive in senso generale. Non sono rari nausea, vomito e mal di pancia.
La malattia può diventare molto grave. Succede quando le larve riescono a raggiungere il sistema nervoso centrale: i sintomi di questa condizione diventano di natura neurologica.

La presenza della tenia viene accertata con l’esame delle feci e la prescrizione di tale indagine è di competenza del medico, che potrà sospettare la presenza del verme solitario dopo una prima visita e dalla valutazione complessiva dei sintomi e delle abitudini del paziente.

La prevenzione della tenia si basa sul consumo di carni ben cotte e sull'abolizione dei fattori di rischio (va posta particolare attenzione alla carne consumata in Paesi sottosviluppati o di origine artigianale, come quella acquistata dal contadino ed offerta alle sagre di Paese).
Oltre alla cottura, anche la surgelazione della carne (almeno -10°C per una settimana) abbatte il rischio di venire infestati dal verme solitario.


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