sabato 23 aprile 2016

LA SINDROME DI KAWASAKI



Il termine “malattia di Kawasaki” deriva dal suo scopritore: intorno al 1960, il Dott. Tomisaku Kawasaki studiò un caso di un bambino di 4 anni che lamentava febbre da oltre 15 giorni, labbra arrossate, lingua a fragola, iperemia orofaringea, eritema diffuso con desquamazione di mani e piedi, e linfadenopatia. Pochi anni più tardi, in Giappone furono osservati altri casi simili, diagnosticati con il nome Sindrome Mucocutanea Linfonodale.

Il morbo di Kawasaki è attualmente diffuso in tutto il mondo; in particolare, colpisce gli Asiatici (soprattutto di origine giapponese), ma tutte le razze umane sono possibili target della malattia. Il rischio di contrarre il morbo di Kawasaki è comunque scarso, quasi nullo, tra la razza negra e caucasica.
Considerata la diffusione della malattia in tutto il mondo, si parla di morbo di Kawasaki endemico; inoltre, si ritiene che la malattia tenda a ripresentarsi ogni 2 o 3 anni, soprattutto durante la primavera e l'inverno.
Si è osservato che il morbo di Kawasaki colpisce soprattutto i maschi; ad ogni modo, si è registrata un'evidente predilezione della malattia per i bambini al di sotto dei 4 anni, in particolare di età compresa tra i 9 e gli 11 mesi. 
Dalle statistiche mediche recenti, si è evidenziato che:
L'80% dei pazienti colpiti dal morbo di Kawasaki ha meno di 4 anni
Il 50% dei soggetti affetti dal morbo di Kawasaki ha un'età inferiore ai 2 anni
Il 2-10% dei malati dal morbo di Kawasaki contrae la malattia prima dei 6 mesi di vita
Il morbo di Kawasaki viene considerato la seconda infiammazione delle arterie che colpisce gli infanti, dopo la porpora di Schonlein-Henoch.

Si suppone una eziologia tossinfettiva e immunomediata che coinvolga superantigeni streptococcici e stafilococcici con successiva attivazione linfocitaria. Spesso la sindrome di Kawasaki esordisce dopo patologie virali non gravi.

La clinica è caratterizzata da tre fasi principali di malattia:

Fase acuta febbrile (7-14 giorni)
Può durare fino a 3-4 settimane nei casi non trattati ed è caratterizzata da febbre elevata, aspetto sofferente, settico, anoressia, irritabilità, una presentazione atipica comprende il versamento pleurico. Dopo 8-10 giorni dall'inizio della febbre compare un rash polimorfo maculopapuloso morbilliforme o scarlattiniforme pruriginoso ed esteso a tutto il corpo. Segue iperemia congiuntivale non essudativa, lesioni della mucosa orale (lesioni crostose, lingua a fragola, eritema), cheiliti, presenza di linfonodi cervicali palpabili o dolenti, edema duro al dorso delle mani e dei piedi, tumefazioni fusiformi delle dita, eritema palmare e plantare rosso porpora.
Fase subacuta (2-4 settimane)
Caratterizzata da desquamazione a larghe lamelle e talvolta, da piastrinosi
Fase convalescenziale (3 mesi)
Risoluzione della malattia con scomparsa dei segni clinici, normalizzazione della VES e presenza dei solchi ungueali trasversi caratteristici (linee di Beau).
Non essendo disponibili test di laboratorio specifici, la sindrome di Kawasaki viene diagnosticata in base ai criteri clinici e, se presenti, all'osservazione degli aneurismi coronarici mediante ecocardiografia o angiografia coronarica.



Generalmente la sindrome si risolve in maniera spontanea. Tuttavia, il 5-10% dei pazienti sviluppa complicanze gravi e l'1% è afflitto da complicanze letali.

Nella prima fase si possono osservare miocardite e pericardite.

Successivamente, possono comparire infarto del miocardio e rottura di aneurismi delle coronarie.

Altre complicanze comprendono: uretrite, artropatie, meningite asettica, ittero ostruttivo.

Il trattamento consiste in un unico ciclo di immunoglobuline per via endovenosa e aspirina.

Se avviato durante la fase acuta della malattia, il trattamento riduce la frequenza delle lesioni alle arterie coronariche a meno del 5%. Alcuni pazienti che non rispondono alla terapia standard possono essere trattati alternativamente con Infliximab.

Il tasso di mortalità è dello 0,1% con la terapia adeguata; senza terapia, la mortalità può raggiungere l'1%. Le morti sono più frequentemente conseguenza di complicanze cardiache, ma possono essere improvvise e imprevedibili; più del  > 50% dei decessi si verifica entro 1 mese dall'inizio, il 75% entro 2 mesi e il 95% entro 6 mesi ma può verificarsi fino a 10 anni dopo. Una terapia efficace riduce i sintomi acuti e, più importante, riduce l'incidenza degli aneurismi coronarici dal 20% a meno del 5%. In assenza di alterazioni coronariche, la prognosi per una completa guarigione è eccellente. Circa i 2/3 degli aneurismi coronarici regredisce entro 1 anno, benché non si sappia se residuino stenosi coronariche. Gli aneurismi coronarici giganti (diametro interno > 8 mm all'ecocardiogramma) regrediscono meno frequentemente e richiedono un follow-up e una terapia più intensivi.




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IL GOZZO



Il gozzo o struma è l'aumento di volume della tiroide, di consistenza dura, quasi lignea, sclerotizzata, tale per cui l'epitelio ghiandolare è stato completamente sostituito da tessuto fibroso cicatriziale. È uno stato tipico degli stadi tardivi delle patologie tiroidee.
La causa più comune del gozzo è la mancanza di iodio. Questo elemento è infatti necessario per la sintesi degli ormoni tiroidei tiroxina e triiodotironina; bassi livelli di questo ormone spingono l'ipofisi a rilasciare un particolare ormone, ormone tireostimolante o TSH (thyroid stimulating hormone). Questo ormone, che in condizioni normali stimola la produzione di tiroxina e triiodotiroxina, causa in assenza di iodio la crescita smodata della ghiandola tiroidea come meccanismo di compensazione.

In popolazioni che conducono una dieta povera di iodio il gozzo è una patologia largamente diffusa, e per questo chiamato appunto gozzo endemico.

Fino a tempi recenti, il gozzo endemico era largamente diffuso tra le popolazioni di aree povere di iodio, impossibilitate ad assumere questo minerale attraverso la dieta. Nei paesi più sviluppati, tuttavia, l'introduzione di alimenti ricchi di iodio e l'aggiunta di esso nell'acqua potabile, come conseguenza di più accorte politiche di gestione della salute pubblica, hanno permesso di sradicare quasi del tutto questo problema.

Ad ogni modo il gozzo endemico è tuttora presente in nazioni economicamente depresse come l'India e diversi paesi dell'Asia centrale e dell'Africa, o nelle regioni povere distanti dal mare (da dove proviene lo iodio).

Il gozzo interessa maggiormente le donne, e può anche comparire in periodi di maggior lavoro della tiroide (es. pubertà o gravidanza).

Gozzo multinodulare rappresenta l’evoluzione naturale di un gozzo semplice. La cronica stimolazione della ghiandola a crescere determinata dalla carenza iodica o dalle sostanze gozzigene alla fine seleziona gruppi di cellule all’interno della tiroide che iniziano a svilupparsi in modo accelerato e formano noduli. Laddove i noduli producano alterazioni estetiche o fenomeni compressivi il gozzo multinodulare viene trattato chirurgicamente.

Gozzo uninodulare tossico, piuttosto raro, è determinato dalla presenza di un tumore benigno all’interno della tiroide che cresce e produce ormoni tiroidei in modo autonomo. Non sempre porta a ipertiroidismo. Il problema è spesso asintomatico, rendendo difficile e casuale la diagnosi.

Il gozzo multinodulare tossico presenta al suo interno uno o più noduli in grado di crescere e produrre ormoni tiroidei in modo autonomo e che a distanza di tempo può portare all’ipertiroidismo. In effetti si tratta della causa più frequente di ipertiroidismo nelle aree iodio-carenti. Sia il gozzo uninodulare che quello multinodulare tossico vengono trattati con la somministrazione di iodio radioattivo oppure chirurgicamente.

Gozzo diffuso tossico (morbo di Basedow) è una malattia autoimmune (ovvero dovuta dovuto a un’anomalia del sistema immunitario che in pratica “agisce” contro il soggetto) è la causa più frequente di ipertiroidismo nelle aree iodio-sufficienti: può svilupparsi a qualsiasi età ed è molto più frequente nelle donne rispetto agli uomini (circa 10 volte).
A causa dell’ipertiroidismo, tra i primi sintomi della malattia vi sono astenia, instabilità emotiva, ipersensibilità al caldo, insonnia, calo di peso e alterazioni della pelle, oltre all’aumento di dimensioni della tiroide e agli occhi sporgenti.
Tra le varie possibili cause della risposta immunitaria scorretta che determina la malattia: una gravidanza, terapie che alterano la risposta immunitaria o infezioni virali e batteriche. Il trattamento della patologia è rivolto principalmente al controllo dell’ipertiroidismo con terapia farmacologica tireostatica, radiometabolica oppure chirurgica.

Dovuto ad una malattia nota come morbo di Plummer, caratterizzata dalla comparsa di un gozzo tossico nodulare; tossico perché associato ad ipertiroidismo e nodulare per l'ingrossamento circoscritto di una o più zone della tiroide (noduli ipersecretivi, che pur non essendo maligni, sono indipendenti dal controllo ipofisario).

Tiroidite di Hashimoto, nota anche come tiroidite cronica linfocitaria, è una comune causa di ipotiroidismo, in cui l'attività endocrina della tiroide risulta insufficiente per un processo infiammatorio con infiltrazione massiccia di linfociti. Anche la tiroidite di Hashimoto ha origini autoimmuni e si manifesta con gozzo tiroideo dovuto ad ipersecrezione ipofisaria di TSH, a sua volta causata da un meccanismo compensatorio mirato ad incrementare la secrezione ormonale tiroidea.

I tumori della tiroide si manifestano in genere con un nodulo, anche se nella maggior parte dei casi queste neoformazioni sono benigne. Di conseguenza, il cancro alla tiroide può rendersi evidente con un ingrossamento asimmetrico della ghiandola, in genere circoscritto ad uno dei due lobi.



Durante la gestazione viene prodotto un ormone, noto come gonadotropina corionica umana (HCG), che può provocare un lieve ed uniforme ingrossamento della tiroide. Si tratta di un gozzo diffuso, transitorio ed eumetabolico.

La presenza del gozzo è generalmente ben tollerata; eventuali problemi sono strettamente di natura meccanica per compressione degli organi vicini alla tiroide ingrossata. Il sintomo più caratteristico, rappresentato dal rigonfiamento più o meno evidente e simmetrico del collo, può quindi accompagnarsi a dispnea e disfagia (difficoltà respiratoria e deglutitoria per compressione e deviazione della trachea e dell'esofago), cefalea, disfonia (alterata emissione dei suoni) ed esoftalmo (protrusione patologica del bulbo oculare). I disturbi possono essere particolarmente gravi in presenza di gozzi retrosternali e intratoracici, per i quali è richiesto l'intervento di asportazione chirurgica.
Questi sintomi generali possono essere affiancati da segni specifici e caratteristici della malattia responsabile del gozzo:

Ipersudorazione, tremori, intolleranza al calore e magrezza eccessiva, cute calda, gozzo, astenia (debolezza muscolare), capelli fragili e sottili, frequente alopecia, nervosismo, agitazione e insonnia, aumento della frequenza cardiaca (tachicardia), ipertensione spesso associata a ipertrofia del ventricolo sinistro, esoftalmo, infertilità.
Cute secca, capelli radi, sottili, affaticamento fisico e debolezza muscolare cronica, mixedema, cute fredda e intolleranza al freddo, sonnolenza, depressione, rallentamento dei processi ideativi e sensazione di stanchezza, costipazione, aumento del peso corporeo, pallore e anemia, raucedine ed abbassamento del tono della voce, diminuzione dell'udito, della memoria e della fertilità, bradicardia.

La diagnosi si basa essenzialmente sulla palpazione del collo abbinata ad alcuni esami del sangue. Nel primo caso il medico può apprezzare l'entità del processo ipertrofico-iperplastico, la dolorabilità e l'eventuale presenza di noduli. Tramite gli esami ematici lo specialista controlla che i livelli degli ormoni tiroidei siano nella norma, così come quelli ipofisari (in particolare il TSH). Solitamente, un gozzo associato ad ipotiroidismo determina un basso livello di ormoni tiroidei nel sangue e valori elevati di TSH; la situazione opposta è tipica del gozzo tossico (associato ad ipertiroidismo). Nel campione di sangue possono essere ricercati anche specifici anticorpi, dal momento che il gozzo è talvolta associato a malattie autoimmuni.
Tramite l'ecografia, una piccola sonda viene passata sul collo e converte le onde sonore riflesse dai tessuti in un'immagine; su uno schermo televisivo si possono così valutare le dimensioni della tiroide e la presenza di piccoli cisti o noduli sfuggiti alla palpazione.
La scintigrafia con isotopi radioattivi permette di valutare l'inclinazione dei noduli a produrre ormoni tiroidei; si esegue iniettando una sostanza radioattiva chiamata tecnezio-99 e valutando le immagini con una speciale telecamera, con paziente sdraiato e con collo in iperestensione. Infine, se si sospetta la presenza di un tumore maligno, può essere eseguita una biopsia per aspirazione con ago sottile.

Il trattamento del gozzo è subordinato all'entità dell'ipertrofia tiroidea, ai sintomi lamentati dal paziente e alle cause che l'hanno determinato. Quando la tiroide funziona normalmente ed il gozzo è piccolo o comunque ben tollerato, non è richiesto trattamento ma un semplice monitoraggio nel tempo tramite test ematici annuali o biennali.
Se il gozzo si accompagna ad ipotiroidismo, viene trattato mediante somministrazione sostitutiva di tiroxina (T4) per via orale; in questo modo si risolvono i sintomi dell'ipotiroidismo e la ghiandola pituitaria riduce la secrezione di TSH, con conseguente riduzione della massa gozzigena. In presenza di gozzo tossico (ipertiroidismo), il trattamento farmacologico si avvale di medicinali tireostatici, in grado di bloccare la sintesi ormonale o la conversione periferica di T4 (forma inattiva) in T3 (forma attiva). Infine, in presenza di un'infiammazione della ghiandola tiroide possono essere prescritti medicinali come l'aspirina o i corticosteroidi.
Se il gozzo raggiunge dimensioni tali da causare danno estetico o disturbi severi, il trattamento chirurgico è l'intervento più efficace; analogo discorso in presenza di un gozzo nodulare che determina ipertiroidismo o di un tumore alla tiroide. In base alla situazione patologica del paziente, vengono asportate porzioni tiroidee più o meno importanti (tiroidectomia parziale o totale; in quest'ultimo caso occorre intraprendere una terapia sostitutiva con levotiroxina, analogo discorso quando la porzione di tiroide residua è insufficiente per produrre adeguate quantità di ormoni tiroidei).
Qualora l'intervento chirurgico risulti controindicato e la tiroide troppo attiva, si può intraprendere la terapia orale con iodio radioattivo. Una volta raggiunte le cellule tiroidee attraverso il circolo ematico, lo iodio radioattivo le distrugge riducendo le dimensioni del gozzo; sono comunque concreti i pericoli di recidive o di ipotiroidismo per eccessiva distruzione dei tireociti.



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venerdì 22 aprile 2016

FATICA A FARE PIPI'



Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori californiani, guidati dalla dottoressa Melanie C. Wrestle, iniziato nel 2002 monitorando oltre 84000 uomini con un’età compresa tra i 45 ed i 69 anni. Prima di tutto si è escluso qualsiasi tipo di patologia alla prostata, come ad esempio l’ipertrofia prostatica, dopo di che servendosi di questionari e test, gli studiosi hanno messo a confronto i disturbi urinari ed i farmaci assunti.
I risultati hanno sottolineato come tutte le difficoltà ad urinare possano essere dovuti agli effetti di alcuni farmaci.

I farmaci che provocano più effetti collaterali a livello delle vie urinarie sono gli antidepressivi e i diuretici, poi seguono i broncodilatatori e gli antistaminici. Tutti questi agiscono a livello della muscolatura della vescica e delle vie urinarie, e insieme ad altri fattori, soprattutto, l’età, provocano i disturbi urinari. Grazie a questa ricerca si potranno evitare una serie di trattamenti, antibiotici e chirurgici, invasivi e lunghi, che mettono a dura prova il paziente.

Le cause della ritenzione urinaria sono molteplici e possono essere classificate come ostruttive, infettive, infiammatorie, farmacologiche, neurologiche. La causa più frequente nell’uomo è l’ingrossamento della prostata (ipertrofia prostatica benigna) che, circondando a manicotto l’uretra, impedisce il corretto flusso dell’urina: secondo uno studio americano tra il 25 e il 30% degli uomini che hanno subito un intervento chirurgico per ipertrofia prostatica benigna ha avuto un episodio di ritenzione urinaria acuta. Altre cause comuni sono nell’uomo l’infiammazione della prostata (prostatite), la cistite e l’uretrite. Nella donna le cause principali di ritenzione urinaria sono il prolasso vaginale, la cistite, la vulvovaginite e le complicanze di interventi chirurgici (ricostruzione del pavimento pelvico, interventi per l’incontinenza urinaria da stress).



La persona con una ritenzione acuta ha di solito un intenso desiderio di urinare ma nonostante lo stimolo sia sempre più intenso non riesce a svuotare la vescica. In genere i sintomi sono accompagnati da senso di tensione dolorosa al basso ventre, eventualmente associato a un gocciolamento incontrollabile di urina. Tale sintomo è causato dalla distensione della vescica che a volte può essere erroneamente confuso con l’incontinenza urinaria. Inoltre un soggetto con ritenzione acuta può essere agitato con tachicardia, ipotensione e malessere generale. Alcune persone riferiscono di avere un flusso urinario debole, di alzarsi più volte la notte per urinare con un peggioramento graduale dei sintomi, mentre altre avvertono una perdita improvvisa della capacità di urinare senza sintomi associati.
La descrizione dei sintomi da parte della persona è in genere sufficiente agli operatori sanitari per comprendere che si tratta di una ritenzione acuta di urina. Il medico comunque valuterà il residuo post minzionale, cioè la quantità di urina presente in vescica dopo che si è fatta l’ultima minzione, e la presenza di distensione vescicale. Il residuo post minzionale viene valutato o con una ecografia, da preferire perché non invasiva, oppure inserendo un catetere vescicale che consente lo svuotamento della vescica.

In caso di ritenzione urinaria acuta occorre rivolgersi al Pronto soccorso. Come primo intervento le linee guida raccomandano l'inserimento immediato di un catetere vescicale per svuotare la vescica ed evitare un danno renale acuto o la rottura della vescica stessa. Di solito il catetere viene rimosso dopo 1-3 giorni e si considera la procedura efficace se dopo 24 ore dalla rimozione del catetere la persona riprende a urinare regolarmente. Più si è giovani (età inferiore ai 70 anni) e più semplice è il recupero della normale funzionalità urinaria.




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giovedì 21 aprile 2016

I CRAMPI



Un crampo muscolare è una contrazione transitoria, improvvisa e involontaria di un muscolo o di un gruppo di muscoli. Anche se, generalmente, è innocuo, il crampo muscolare può provocare dolore e rendere temporaneamente impossibile l'utilizzo del muscolo interessato. Spesso insorge dopo un'attività fisica intensa, ma non infrequente è la manifestazione di crampi a riposo, che possono colpire anche durante il sonno.

La maggior parte delle volte alla base dei crampi muscolari c'è una delle seguenti condizioni:
Lunghi periodi di esercizio o lavoro fisico, soprattutto durante la stagione calda.
Disidratazione
Mantenimento di una posizione per un periodo troppo lungo di tempo.
Assunzione di alcuni farmaci, come i diuretici.
I crampi muscolari possono però anche essere segno della presenza di diverse patologie, anche gravi:
Restringimento delle arterie che forniscono sangue alle gambe (aterosclerosi periferica).
Compressione dei nervi nella colonna vertebrale a livello lombare.
Malattie che interessano il sistema muscolare.
Malattie neurologiche (malattia di Charcot).
Squilibri metabolici legati alla mancanza nell'organismo dei giusti livelli di potassio, calcio e magnesio.
Tra i fattori che possono aumentare il rischio di sviluppare crampi muscolari troviamo l'età avanzata; la disidratazione; lo stato di gravidanza; la presenza di patologie come il diabete o malattie del fegato o della tiroide.

I crampi notturni alle gambe sono contrazioni involontarie di uno o più muscoli delle gambe che avvengono durante il sonno. Sono più frequenti con l'avanzare dell'età ma possono colpire chiunque.

Durante il crampo, la membrana della fibra muscolare conduce dei potenziali d'azione a frequenze altissime, in assenza di stimoli nervosi. Questo fenomeno sembra essere causato da una variazione della permeabilità di membrana, a sua volta legata, probabilmente, a modificazioni della concentrazione ionica dei liquidi tissutali. La sudorazione, ad esempio, può provocare disidratazione e perdita di sali minerali, e ciò può portare all'insorgenza del crampo muscolare. Variazioni locali del pH possono avere lo stesso effetto. II ruolo dell'acido lattico nel produrre il crampo rimane invece incerto. Di fatto, i crampi possono insorgere indipendentemente dall'esercizio fisico, come conseguenza di un danno fisico o chimico a carico del sarcolemma, di stimoli irritativi sul motoneurone, o dell'azione di diversi farmaci.

Si presenta come un'improvvisa, forte contrazione involontaria e dolorosa del muscolo colpito. La contrazione e il dolore si estinguono spontaneamente in alcuni secondi. In certi casi la contrazione dei muscoli è così forte che, anche dopo il rilassamento, il dolore persisterà per alcuni giorni.

Può essere utile compiere allungamenti del muscolo colpito, reintegrare i liquidi e i sali minerali persi ed eseguire impacchi caldi sulla zona interessata. Il metodo più efficace e veloce nel risolvere un episodio di crampi a un muscolo consiste nel contrarre il muscolo antagonista a quello colpito.



I crampi possono essere evitati, o comunque attenuati, seguendo alcune semplici regole:
Il responsabile numero uno dell'insorgenza dei crampi è la fatica: aumentate progressivamente l'intensità e la durata dell'esercizio, evitate di strafare se non avete i mezzi e le capacità per farlo.
Praticate regolarmente lo stretching, sia all'inizio che - soprattutto - al termine dell'attività fisica; questi esercizi dovranno interessare soprattutto quei muscoli direttamente coinvolti nell'allenamento (ad es. le gambe per un ciclista).
Eseguite sempre qualche esercizio di riscaldamento generale prima di iniziare l'allenamento.
Seguite una dieta sana ed equilibrata, che apporti nutrienti a sufficienza per l'esercizio fisico praticato. Assumete cibi ricchi di sali minerali (soprattutto potassio e magnesio), antiossidanti, calcio e vitamine del gruppo B. Per assumere più potassio potete ricorrere ad integratori specifici, oppure semplicemente mangiare più frutta (soprattutto banane); per assumere più calcio potete consumare più latte e derivati. Mandorle, noci, soia, mele, pesche, fichi, pesce e mais sono invece particolarmente ricchi di magnesio.
Non demonizzate il  sale da cucina e le acque ricche di sodio; specie nei periodi estivi in cui la sudorazione è maggiore il sale è indispensabile per mantenere l'equilibrio idrico del corpo.
Evitate di assumere diuretici o alcolici prima dell'allenamento per non aumentare le perdite di liquidi e favorire di conseguenza la disidratazione.
Non mangiate nelle 2-3 ore che precedono l'allenamento ed evitate di consumare pasti troppo abbondati prima dell'attività fisica. In questo modo diminuirete il rischio di essere colpiti dai crampi.
Mantenetevi ben idratati prima, dopo e durante l'attività fisica.
Utilizzate indumenti adatti che lascino traspirare la pelle. Preferite i colori chiari ed evitate impermeabili e tute dimagranti. Scegliete calzature confortevoli e utilizzate calzini di cotone traspiranti e comodi.
Nel caso foste colpiti dai crampi l'unica soluzione è quella di allungare immediatamente il muscolo interessato.
L'allungamento contrasta infatti la contrazione involontaria e se il crampo non è troppo intenso può dare sollievo in pochi secondi. Anche il massaggio della zona colpita può essere utile. Per lo stesso motivo, se possibile è bene cercare di contrarre il muscolo antagonista.

I crampi si verificano con maggiore facilità durante i mesi estivi. L'ambiente caldo ed i tassi di umidità elevati favoriscono le perdite idrosaline esponendo l'organismo ad un grosso stress. Se gli elettroliti persi non vengono prontamente reintegrati il rischio crampi diventa altissimo. 
Una ricerca, effettuata su un giocatore di tennis di alto livello che lamentava crampi ricorrenti, ha evidenziato che il problema era legato alla cospicua sudorazione che abbassava notevolmente la concentrazione plasmatica di sodio. I crampi ricorrenti sono stati sconfitti aumentando semplicemente la quota di sale nella dieta, che è passata da 5-10 a 15-20 g/die.
Questa piccola parentesi è stata aperta per rivalutare il ruolo del sale e degli integratori salini nello sport. Spesso questo minerale viene considerato un nemico della linea quando in realtà, specie durante i mesi estivi, è fondamentale per massimizzare la performance atletica e prevenire la comparsa dei crampi.

Se si soffre di crampi notturni, fare stretching e svolgere una leggerissima attività fisica (come pochi minuti di cyclette) prima di andare a letto può aiutare a prevenirne l'insorgenza.





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I PRELIEVI



Il prelievo di sangue – o, più esattamente, il “prelievo venoso” – rappresenta una delle procedure più comuni per ottenere i campioni biologici necessari per l’esecuzione degli esami di laboratorio.

Questa procedura è considerata terapia medica a tutti gli effetti e come tale la sua effettuazione è riservata a personale sanitario specializzato (medici, biologi e infermieri), con l’ausilio di materiali sterili (aghi, siringhe, provette)  presso gli ambulatori pubblici e privati.

Il prelievo ematico viene svolto attraverso l’introduzione in vena di un ago, il diametro della sezione del quale si è nel corso degli anni notevolmente ridotto, con evidenti vantaggi per il paziente.

Il personale sanitario effettua il prelievo principalmente nell’avambraccio secondo precisi criteri e, nel caso in cui sia impossibile effettuare il prelievo in tale zona, si cerca di introdurre l’ago in zone sempre periferiche del corpo le quali presentino vasi sanguigni più visibili. Le zone più utilizzate in questa fase sono il dorso della mano e il polso.

Nei bambini, in pazienti in chemioterapia o terapia anticoagulante e nei pazienti che presentano particolari difficoltà per l’individuazione dell’accesso venoso vengono utilizzati aghi butterfly, di lunghezza inferiore e di diametro uguale o minore all’ago convenzionalmente in uso. E’ da evidenziare che gli aghi butterfly non vengono utilizzati per procurare meno dolore nell’atto del prelievo, come erroneamente la maggior parte dei pazienti ritiene, ma sono da ritenersi un supporto efficace nei casi sopra indicati esclusivamente per la loro maggiore maneggevolezza.

E’ bene ricordare che tra le varie pratiche mediche il prelievo del sangue è considerato semplice e privo di complicanze, pur tuttavia resta una pratica invasiva e niente affatto esente da ripercussioni psicologiche. È molto importante quindi instaurare con il prelevatore un rapporto di fiducia e un dialogo che consenta di riportargli serenamente eventuali timori, la paura del prelievo, la fobia dell’ago, la possibilità concreta di una perdita di sensi o il desiderio/necessità di svolgere il prelievo sdraiandosi sul lettino.

Il prelevatore sarà pronto ad accogliere tali problematiche e a porre in essere le necessarie misure precauzionali affinché il prelievo si svolga nel modo più opportuno e rassicurante possibile.

Le accortezze da applicare prima di un prelievo ematico sono le seguenti:

osservare un digiuno di almeno 8/12 ore prima del prelievo evitando anche bevande, fatta eccezione per l’acqua naturale.
evitare di fumare al mattino prima del prelievo.
non assumere alcool nelle 12 ore che precedono il prelievo.
non assumere farmaci nelle 12 ore precedenti il prelievo ad eccezione di prescrizione obbligatoria del medico o assoluta necessità; nei casi suddetti segnalare il tipo di farmaco assunto al prelevatore.
nei giorni antecedenti il prelievo non modificare le proprie abitudini alimentari.
evitare sforzi fisici intensi nelle 24 ore precedenti il prelievo.
evitare l’eccessivo digiuno (oltre 24 ore) per la conseguente diminuzione di glicemia, colesterolo, trigliceridi, proteine, T3, T4 ed aumento di bilirubina, acido urico e creatinina.


Secondo la costituzione fisica ed età, le vene sono diverse, se magro, normopeso o sovrappeso, l'età può essere ingannevole, gli anziani possono aver fatto più terapie ma sono i giovani che collassano e svengono.
Il colorito è sempre da considerare: potenzialmente infetto e agire di conseguenza, ma se è itterico la possibilità che abbia un epatite esiste,

La cubitale mediana è la prima scelta, unisce la cefalica e la basilica, però, guardiamo il braccio.

Se siamo in un ambulatorio prelievi forse è tutto a posto, ma se siamo in reparto dopo giorni di fleboclisi allora potrebbero esserci dei problemi.

Possiamo trovare vene dure, trombizzate a causa dell'infuzione di soluzioni ipertoniche o istiolesive, queste non vanno usate, massima cautela se sono in prossimità della cubitale mediana e attenzione a non confondersi con l'arteria radiale.

Le vene trombizzate non vanno forate.

Si possono trovare delle flebiti, le vene in prossimità non vanno forate.

Si possono trovare diversi ematomi in corrispondenza della vena e se poi sono visibili i fori,  è un segnale che ci mette in allarme per una potenziale fragilità delle vene che appena forate o durante il prelievo si rompono.

Una possibile soluzione è mettere il laccio e prendersi un po di tempo per cercare la vena e decidere il punto da forare, poi SI TOGLIE IL LACCIO EMOSTATICO,  si lascia tornare la vena alla dimensione originaria, riposiziona il laccio e si fora appena il nostro tatto la percepisce.

La fragilità che abbiamo visto negli ematomi può anche essere dovuta a problemi circolatori e sono stati forati dei capillari o delle anastomosi venose che sono cresciute per compensare.

Si possono notare molte ecchimosi, piccoli ematomi che il nostro assistito si è procurato per contatto con le superfici, è un segnale che dobbiamo dedicare qualche minuto in più alla compressione del foro.

Comunque si vede l'assistito si deve forare, ci si trova a cercare e si parte dalla cubitale mediana se il tatto non sente nulla, visivamente si vede se la cefalica e la basilica sono disponibili e poi si spostano le dita per cercarle.

Scendendo si trova la cefalica, la mediana, poi le vene del dorso della mano e la basilica.

I problemi che si possono avere sono due:

nel momento del foro, la mobilità della vena, rischio rottura, dolore per l'assistito,

durante il prelievo, la vena collabisce, o l'ago aderisce alla parete della vena.

La soluzione è nella manualità, fermezza e delicatezza perchè il campo di lavoro è dell'ordine di millimetri.

Se non si ha trovato nulla allora abbiamo l'ultima spiaggia, si piega il gomito e si guarda dietro il braccio, la basilica si ramifica e fa una curva è un prelievo fatto a testa in giù.

La basilica che si trova dietro al gomito è spesso ignorata per una serie di motivi che la rendono una vena difficile da reperire.

La vena è mobile fra le più mobili ed è resistente essendo di grosso calibro, quindi se la si cerca c'è un alto rischio di rottura.

Quante volte da bambini, e non solo, capita di storcere il naso di fronte alla necessità di fare un prelievo di sangue. Il fastidio per aghi e iniezioni è spesso difficile da vincere. La soluzione? Un piccolo dispositivo di plastica, grande come una pallina da ping pong. Ideato da una startup Usa dell’University of Wisconsin-Madison, si chiama “HemoLink” e riesce a estrarre una quantità di sangue sufficiente a effettuare diverse analisi cliniche: colesterolo glicemia, infezioni e cellule tumorali. Non è necessario avere una formazione medica, o infermieristica. Basta premere l’apparecchio per appena due minuti sulla pelle, standosene comodamente seduti sul divano di casa, e il gioco è fatto.

Il funzionamento di HemoLink è basato su una sorta di effetto sottovuoto, grazie al quale il sangue fluisce direttamente dalla pelle all’interno di una piccola provetta. “A livello di microfluidi la tensione domina sulla forza di gravità, e questo – spiega Ben Casavant, tra gli ideatori del congegno – consente al sangue di fluire per capillarità all’interno della provetta”. Uno dei problemi principali di questo prelievo fai da te è, però, preservare il campione di sangue, senza che si deteriori, per il tempo necessario a effettuare tutte le analisi di laboratorio. Gli esperti Usa, a questo proposito, stanno pensando a un congegno in grado di stabilizzare il materiale biologico per una settimana, consentendogli di resistere fino a temperature di 60 gradi centigradi. In questo modo, si potranno evitare complicati trasporti con appositi sistemi di refrigerazione.

Grazie a un finanziamento da parte dei National Institutes of Health (Nih) statunitensi, gli esperti dell’università Usa stanno, inoltre, sviluppando una tecnica per prelevare campioni per la diagnosi dell’Hiv. “Abbiamo pensato di mettere a frutto le conoscenze acquisite in tanti anni di studi sui microfluidi – conclude Casavant -, per realizzare un dispositivo che fosse allo stesso tempo utile, economico e semplice da usare”. HemoLink è attualmente in attesa di brevetto e, dopo l’autorizzazione, attesa entro la fine dell’anno, da parte della Food and drug administration (Fda) – l’ente governativo Usa che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici -, dovrebbe entrare in commercio entro la fine del 2016.




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mercoledì 20 aprile 2016

ATEROSCLEROSI


Le arterie sono vasi sanguigni che trasportano l’ossigeno e le sostanze nutritive dal cuore al resto dell’organismo: quando sono sane sono flessibili, forti ed elastiche, ma con l’andare del tempo la pressione eccessiva può farne ispessire e indurire le pareti. Quando questo capita il sangue non affluisce più correttamente negli organi e nei tessuti: questo processo è detto arteriosclerosi, od indurimento delle arterie.

L’aterosclerosi è una forma particolare di arteriosclerosi, ma i due termini a volte vengono usati come sinonimi: l’aterosclerosi è l’accumulo di grassi all’interno e sulla superficie delle pareti arteriose, sottoforma di placche che impediscono la corretta circolazione del sangue. Le placche, inoltre, possono scoppiare, causando la formazione di un trombo. L’aterosclerosi spesso è considerata come problema esclusivamente cardiaco, ma può colpire le arterie in qualsiasi zona dell’organismo. È comunque un disturbo che può essere curato e prevenuto.

L’aterosclerosi è una malattia lenta e progressiva che può comparire già durante l’infanzia: non si sa con esattezza quale sia la causa, ma si ritiene che il disturbo potrebbe essere provocato da un danno o da una lesione alla parete interna di un’arteria. Il danno potrebbe essere causato da:
Ipertensione
Ipercolesterolemia (spesso derivante dall’eccesso di colesterolo nell’alimentazione)
Fumo e altre sorgenti di nicotina
Diabete.
Se la parete interna di un’arteria è danneggiata specifiche cellule del sangue (le piastrine) si raccolgono sul luogo della lesione e cercano di riparare l’arteria, causando un processo infiammatorio. Con il passare del tempo nella zona della lesione si depositano anche le cosiddette placche, fatte di colesterolo e di altri prodotti cellulari di scarto, che si induriscono fino a restringere l’arteria, le conseguenze sono che gli organi e i tessuti collegati all’arteria ostruita non ricevono sangue a sufficienza per funzionare correttamente.

Con l’andare del tempo le placche possono rompersi ed entrare in circolo, in tal modo si può formare un trombo in grado di danneggiare gli organi, come ad esempio avviene durante un infarto. Il trombo può spostarsi in altre parti dell’organismo e ostruire parzialmente o totalmente la circolazione sanguigna diretta verso un altro organo.

L’aterosclerosi compare con gradualità e se si presenta in forma lieve di solito non ha alcun sintomo.

I sintomi dell’aterosclerosi, di forma da lieve a grave, dipendono dalle arterie colpite.

Se l’aterosclerosi colpisce le arterie cardiache potreste avere sintomi simili a quelli di un infarto, ad esempio dolore al torace (angina).
Se l’aterosclerosi colpisce le arterie dirette al cervello, potreste soffrire di sintomi come:
intorpidimento e debolezza improvvisi agli arti,
difficoltà di parola,
balbettio inspiegabile,
debolezza della muscolatura facciale.
Questi sintomi sono da imputare a un attacco ischemico transitorio (TIA) che, se non adeguatamente curato, può trasformarsi in ictus.

Se l’aterosclerosi colpisce le arterie delle braccia e delle gambe, potreste soffrire dei sintomi dell’arteropatia periferica, ad esempio di male alle gambe solo quando camminate (claudicatio intermittens).
In alcuni casi l’aterosclerosi può causare la disfunzione erettile.

Le complicazioni dell’aterosclerosi dipendono dalla posizione delle arterie colpite, ad esempio:

Coronaropatia. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie nella zona del cuore, potreste iniziare a soffrire di coronaropatia, che causa dolore al torace (angina) oppure un infarto.
Carotidopatia. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie vicine al cervello, potreste iniziare a soffrire di carotidopatia, in grado di provocare un attacco ischemico transitorio (TIA) o un ictus.
Arteropatia periferica. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie delle braccia o delle gambe, potreste soffrire di problemi di circolazione agli arti, definiti arteropatia periferica. La vostra sensibilità al caldo o al freddo diminuirà, aumentando il rischio di ustioni o congelamento. In rari casi, la cattiva circolazione negli arti può causare la morte dei tessuti (cancrena).
Aneurisma. L’aterosclerosi può anche causare un aneurisma, una grave complicazione che si può verificare in qualsiasi parte dell’organismo. L’aneurisma è un rigonfiamento nella parete arteriosa; il sintomo più comune è il dolore pulsante nella zona colpita. Se l’aneurisma scoppia, potreste ritrovarvi ad affrontare un’emorragia interna molto pericolosa. Di solito si tratta di un evento improvviso e catastrofico, ma è anche possibile che l’aneurisma inizi a perdere lentamente. Se il trombo all’interno dell’aneurisma entra in circolo, potrebbe bloccare un’arteria in qualche punto distante.

Il medico può scoprire i sintomi di un restringimento, di un rigonfiamento o di un indurimento delle arterie durante una normale visita:
Battito debole o assente nella parte del corpo sotto l’arteria ostruita,
Pressione minore nell’arto colpito,
Sibili (soffi) udibili appoggiando lo stetoscopio sull’arteria,
Tracce di una massa pulsante (aneurisma) nell’addome o nel retro del ginocchio,
Ferite e lividi che stentano a guarire nella zona in cui la circolazione è insufficiente.




A seconda dei risultati della visita il medico potrà consigliarvi uno o più esami diagnostici, tra cui:

Esami del sangue. Gli esami di laboratorio sono in grado di individuare l’ipercolesterolemia e l’iperglicemia, entrambi fattori di rischio per l’aterosclerosi. Prima dell’esame dovrete stare a digiuno, bevendo solo acqua, per un periodo variabile dalle nove alle dodici ore. Il medico dovrebbe avvisarvi in anticipo se intende effettuare questi esami durante la visita.
Ecodoppler. Il medico potrebbe usare uno speciale dispositivo ecografico (l’ecodoppler) per misurare la pressione in diversi punti del braccio o della gamba. Le misurazioni possono aiutarlo a stimare il grado di ostruzione e anche la velocità del sangue all’interno delle arterie.
Indice caviglia-brachiale. Quest’esame è in grado di diagnosticare l’aterosclerosi nelle arterie delle gambe e dei piedi. Il medico confronta la pressione a livello della caviglia con quella misurata nel braccio. La misura risultante è detta indice caviglia-brachiale. Se la differenza è maggiore del dovuto, può indicare un’arteropatia periferica, normalmente causata dall’aterosclerosi.
Elettrocardiogramma (ECG). L’elettrocardiogramma registra i segnali elettrici diretti verso il cuore. L’ECG spesso è in grado di rivelare un infarto già avvenuto oppure un infarto in corso. Se i sintomi si verificano soprattutto durante l’esercizio fisico, il medico potrebbe chiedervi di camminare su un tapis roulant o di pedalare su una cyclette durante l’esame.
Test da sforzo. Il test da sforzo è usato per raccogliere informazioni sulla funzionalità cardiaca durante un’attività fisica. L’esercizio fisico fa funzionare il cuore meglio e più velocemente rispetto alle normali attività quotidiane, quindi il test da sforzo è in grado di portare alla luce problemi cardiaci che diversamente potrebbero passare inosservati. Il test da sforzo di solito consiste nel camminare su un tapis roulant o pedalare su una cyclette mentre vi vengono controllati il battito cardiaco, la pressione e la respirazione.
Cateterizzazione cardiaca e angiografia. Quest’esame è in grado di stabilire se le arterie coronarie sono ristrette o bloccate. Un catetere (tubicino lungo e sottile) viene introdotto in un’arteria, di solito nella gamba, e guidato fino alle arterie cardiache; attraverso di esso, poi, viene iniettato un mezzo di contrasto liquido. Man mano che il mezzo di contrasto si diffonde nelle arterie, queste diventano visibili nelle radiografie, evidenziando eventuali ostruzioni.
Altri esami di diagnostica per immagini. Il medico può usare l’ecografia, la TAC (tomografia computerizzata) o l’angiografia con risonanza magnetica per studiare le vostre arterie. Questi esami spesso sono in grado di evidenziare eventuali indurimenti e restringimenti delle arterie maggiori, ma anche gli aneurismi e i depositi di calcio sulle pareti arteriose.

Le modifiche dello stile di vita, ad esempio seguire una dieta più sana e fare più esercizio fisico, spesso rappresentano la terapia migliore per l’aterosclerosi; in alcuni casi, tuttavia, possono essere consigliabili anche farmaci od interventi chirurgici.

Diversi farmaci possono rallentare o addirittura contrastare gli effetti dell’aterosclerosi, eccone alcuni:

Farmaci anticolesterolo. Diminuendo drasticamente il colesterolo LDL (lipoproteine a bassa densità, il cosiddetto colesterolo “cattivo”) si riesce a rallentare o addirittura a sconfiggere l’accumulo di depositi grassi nelle arterie. Anche far aumentare il colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità, il cosiddetto colesterolo “buono”) può essere utile. Il medico può scegliere tra diversi tipi di farmaci anticolesterolo, ad esempio le statine e i fibrati.
Antipiastrinici. Il medico può prescrivere farmaci antipiastrinici, ad esempio l’aspirina, per diminuire la probabilità che le piastrine creino grumi che ostruiscono le arterie, formando trombi in grado di causare problemi più gravi.
Betabloccanti. Questi farmaci sono usati di frequente per le coronaropatie. Rallentano il battito cardiaco e fanno diminuire la pressione, diminuendo il fabbisogno del cuore, e spesso riescono ad alleviare i sintomi del’angina. I betabloccanti fanno diminuire il rischio di infarto e di aritmie cardiache.
ACE inibitori (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina). Questi farmaci possono contribuire a rallentare il decorso dell’aterosclerosi, perché abbassano la pressione e hanno altri effetti positive sulle arterie cardiache. Gli ACE inibitori possono anche diminuire il rischio di infarti ricorrenti.
Calcio-antagonisti. Sono farmaci che diminuiscono la pressione e in alcuni casi sono usati nella cura dell’angina.
Diuretici. L’ipertensione è uno dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi, i diuretici abbassano la pressione.
Altri farmaci. Il medico può suggerirvi farmaci di tipo diverso per tenere sotto controllo determinate fattori di rischio per l’aterosclerosi, ad esempio il diabete. In alcuni casi possono essere prescritti farmaci specifici per i sintomi, ad esempio per il male alle gambe durante l’esercizio fisico.
Alcuni pazienti, tuttavia, dovranno ricorrere a una terapia più aggressiva. Se i sintomi sono gravi o l’ostruzione dell’arteria minaccia la sopravvivenza dei muscoli o dell’epidermide, potreste dovervi sottoporre a uno degli interventi qui elencati:

Angioplastica. In quest’intervento il chirurgo inserisce un catetere (tubicino lungo e sottile) nell’arteria bloccata o ostruita. Al suo interno viene inserito un secondo catetere, con una specie di palloncino sgonfio fissato all’estremità che raggiunge la zona colpita. Poi il palloncino viene gonfiato, e va a premere i depositi contro le pareti arteriose. Un tubicino a rete (stent) di solito sarà lasciato nell’arteria per tenerla aperta.
Endoarterectomia. In alcuni casi i depositi devono essere rimossi chirurgicamente dalle pareti dell’arteria ostruita. Se l’intervento viene eseguito sull’arteria del collo (arteria carotide), è detto enoarterectomia carotidea.
Terapia trombolitica. Se l’arteria è ostruita da un trombo, il medico può iniettare un farmaco anticoagulante nel tratto colpito per far dissolvere il trombo.
Bypass. Il chirurgo può creare un bypass, usando un vaso sanguigno prelevato da un’altra zona dell’organismo oppure un tubicino sintetico. In questo modo il sangue riuscirà ad aggirare l’arteria bloccata o ostruita.

I cambiamenti nello stile di vita possono aiutarvi ad arrestare o a rallentare il decorso dell’aterosclerosi:
Il fumo fa male alle arterie. Se fumate, smettere è il modo migliore per arrestare il progresso dell’aterosclerosi e diminuire il rischio di complicazioni.
Fate esercizio fisico quasi tutti i giorni. L’esercizio fisico regolare può indurre i muscoli a usare l’ossigeno con maggior efficienza. L’attività fisica può anche migliorare la circolazione e facilitare la creazione di nuovi vasi sanguigni che formano una sorta di bypass naturale intorno alle arterie ostruite (vasi collaterali). L’esercizio fisico aiuta a diminuire la pressione e il rischio di soffrire di diabete. Idealmente dovreste cercare di muovervi per mezz’ora, un’ora quasi tutti i giorni. Se non ce la fate a ritagliarvi un’unica sessione, cercate di dividerla in intervalli da dieci minuti. Potete fare le scale anziché prendere l’ascensore, fare un giro dell’isolato a piedi durante la pausa pranzo oppure fare dei semplici esercizi di allungamento mentre guardate la televisione.
Seguite una dieta sana. Una dieta sana per il cuore, composta da frutta, verdura, cereali integrali e povera di grassi saturi, colesterolo e sodio, vi aiuterà a tenere sotto controllo il peso, la pressione, il colesterolo e la glicemia. Provate a sostituire il pane bianco con quello integrale, a mangiare una mela, una banana o una carota anziché una merendina e ricordatevi di leggere le etichette nutrizionali per controllare la quantità di sale e di grassi che assumete.
Se siete in sovrappeso, perdere anche solo quattro o cinque chili potrà aiutarvi a diminuire il rischio di ipertensione e ipercolesterolemia, due dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi. Perdere peso vi aiuta a diminuire il rischio di diabete, oppure a tenerlo sotto controllo se già siete ammalati.
Cercate di stressarvi il meno possibile. Praticate le tecniche di gestione dello stress, ad esempio il rilassamento e la respirazione profonda.
Se soffrite di ipertensione, ipercolesterolemia, diabete o altre malattie croniche, cercate, con l’aiuto del vostro medico, di tenerle sotto controllo e di migliorare il vostro stato di salute generale.

Si ritiene che alcuni alimenti e integratori erboristici siano in grado di far diminuire il colesterolo e la pressione, due dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi. Se il vostro medico vi dà la sua approvazione, potete pensare di ricorrere agli integratori e prodotti seguenti:
Acido alfa linoleico,
Carciofo,
Orzo,
Sitostanolo e/o Beta-sitosterolo (si trova negli integratori e in alcune margarine),
Piantaggine argentata (si trova negli integratori a base di baccelli di piantaggine),
Calcio,
Cacao,
Olio di fegato di merluzzo,
Coenzima Q10,
aglio,
Avena integrale (farina d’avena presente ad esempio in alcuni prodotti integrali),
Acidi grassi omega-3.
Prima di introdurre uno qualsiasi di questi integratori nella terapia contro l’aterosclerosi chiedete consiglio al vostro medico, alcuni integratori, infatti, sono in grado di interagire con  alcuni farmaci provocando effetti collaterali anche gravi.

È anche possibile praticare le tecniche di rilassamento, ad esempio lo yoga o le tecniche di respirazione, per contribuire al rilassamento e diminuire il livello di stress. Queste pratiche possono abbassare temporaneamente la pressione e quindi diminuiscono il rischio di soffrire di aterosclerosi.




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La dipendenza fisica porta alla necessità di un uso continuativo dello stesso oppiaceo o di una sostanza simile per prevenire l'astinenza. La sospensione del farmaco o la somministrazione di un antagonista porta alla comparsa di una caratteristica sindrome da astinenza autolimitante.

La tolleranza e la dipendenza fisica dagli oppiacei (naturali o di sintesi) si sviluppano rapidamente; dosi terapeutiche assunte regolarmente per 2-3 giorni possono portare a un certo grado di tolleranza e dipendenza e alla sospensione della sostanza; il consumatore può presentare sintomi da astinenza lieve, che passano quasi inavvertiti o sono descritti come casi di influenza. I pazienti con dolore cronico che necessitano di un uso a lungo termine non vanno etichettati come tossicomani, sebbene anche essi possano avere problemi di tolleranza e dipendenza fisica.

Gli oppiacei inducono tolleranza crociata, quindi i tossicodipendenti possono sostituirne uno con un altro. Le persone che hanno sviluppato una tolleranza possono presentare scarsi segni dell'uso di droga, e possono avere un funzionamento normale nelle proprie attività usuali, ma il problema di procurarsi la droga é sempre presente. La tolleranza ai vari effetti spesso si sviluppa in modo irregolare. Gli eroinomani possono diventare largamente tolleranti agli effetti euforizzanti o letali della droga, ma continuare ad avere miosi pupillare e stipsi.

Le infezioni virali a trasmissione parenterale costituiscono un importante capitolo della patologia di chi assume sostanze stupefacenti per via iniettiva. I risultati di uno studio americano evidenziano come i tossicodipendenti acquisiscano, in tempi relativamente brevi, numerose infezioni virali. 
L’infezione da HCV viene in genere contratta nei primi anni dopo l’inizio della tossicodipendenza e raggiunge prevalenze superiori all’80%. Simile è anche la probabilità di acquisizione dell’infezione da HBV. La circolazione dell’HIV è, in genere, più lenta, mentre l’HTLV rimane a livelli di bassa endemia.
Tra gli agenti virali, l’HIV rimane una causa importante di morbidità e mortalità nei tossicodipendenti. Occorre però sottolineare che l’epidemiologia è andata progressivamente mutando, in Italia così come in altri paesi europei, e che la tossicodipendenza non rappresenta più la principale modalità di trasmissione dell’infezione. I dati del COA (Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità) evidenziano infatti come la distribuzione di nuovi casi in Italia sia andata progressivamente diminuendo tra i tossicodipendenti, mentre è salita la modalità di trasmissione per via sessuale. L’infezione da HIV, di fatto, è risultata essere la principale causa di morte fra i tossicodipendenti negli anni ’90 in Italia, scavalcando l’overdose, che lo era stata sino ad allora. Il principale canale di diffusione era lo scambio di siringhe e/o aghi contaminati. La velocità di circolazione virale in assenza di interventi può essere molto elevata, come osservato in diverse città del globo, e può verificarsi un’ampia variabilità geografica anche in aree contigue. Il cambio dei comportamenti correlati alle pratiche assuntive ha determinato un rapido declino del tasso di incidenza di infezione da HIV nei tossicodipendenti. In Italia e Spagna il calo è stato di circa il 50% a metà anni ’80, 30% all’inizio degli anni ’90, e circa 15% a fine secolo.
I consumatori di cocaina mostrano un aumentato rischio di contrarre malattie infettive quali l’HIV ed epatiti virali. Ciò deriva dal fatto che aumenta la possibilità di adottare comportamenti a rischio in seguito al consumo della sostanza. La ricerca, infatti, ha mostrato che l’intossicazione e la dipendenza da cocaina possono compromettere la capacità di giudizio e di decision making e quindi potenzialmente condurre a comportamenti quali scambiare le siringhe, avere rapporti sessuali promiscui, commercializzare il sesso con la droga, ecc. Molti studi, infatti, mostrano che tra i consumatori di droghe, coloro che non si iniettano la sostanza contraggono il virus HIV tanto quanto quelli che non la iniettano. Ciò evidenzia ulteriormente l’importante ruolo ricoperto della via sessuale quale via di trasmissione dell’HIV nella popolazione.

Le infezioni della cute e dei tessuti molli costituiscono in assoluto la causa più frequente di ospedalizzazione dei tossicodipendenti per via parenterale. Tra i tipi di infezione vanno ricordate soprattutto le celluliti e la fascite necrotizzante, più comune nei tossicodipendenti e gravata da elevata mortalità.
Sono diversi gli agenti batterici in grado di provocare infezioni sistemiche nei tossicodipendenti. Lo streptococco beta-emolitico di gruppo A, ad esempio, frequentemente colonizza le superfici cutanee, ed è una delle cause più frequenti di setticemia. Batteriemia, infezioni delle vie respiratorie e del tratto genito urinario sono condizioni abituali tra chi fa uso di sostanze stupefacenti, e gli agenti eziologici più comunemente isolati sono Staphylococcus aureus e Staphylococcus epidermidis, seguiti da Pseudomonas. Una tipica sindrome febbrile del tossicodipendente è la cosiddetta cotton fever, malattia a decorso benigno, identificata nel 1975 in pazienti usi ad utilizzare cotone per filtrare l’eroina. Studi successivi ne hanno rivelato l’eziopatogenesi, che risulta riconducibile a endotossine prodotte da batteri gram-negativi, tra i quali Enterobacter agglomerans ed Eikenella corrodens.
Il tetano è stato descritto fra i tossicodipendenti negli USA negli anni ’50 e ’60. Attualmente si verifica sporadicamente ed è associato all’iniezione sottocutanea accidentale (skin popping o”fuorivena”).
Anche le polmoniti sono altrettanto comuni. Il polmone è infatti danneggiato da insulti infettivi, e non, nell’utilizzatore di sostanze. La tossicodipendenza di per sé, a causa della azione diretta di alcune sostanze d’abuso, principalmente assunte tramite inalazione, e la compromissione immunitaria dovuta all’infezione da HIV, aumentano il rischio di polmoniti batteriche. Tra gli agenti eziologici vi sono i più comuni agenti responsabili di infezioni polmonari comunitarie (pneumococchi ed emofili), con un aumentata incidenza di infezioni stafilococcihe e da Gram-negativi. Tra le patologie toraciche inusuali merita menzione, per le particolari modalità con cui viene provocato, il piopneumotorace. presenza simultanea nel cavo pleurico di aria ed essudato purulento. Infatti, l’iniezione nella fossa sopraclavicolare nel tentativo di raggiungere le vene giugulari, sottoclaveari e brachiocefaliche (pocket shot) può rendersi responsabile di ascessi, celluliti e talora, appunto, di piopneumotorace.
La tubercolosi (Mycobacterium tuberculosis) rappresenta nel tossicodipendente un’altra causa importante di malattia. La diffusione e la trasmissione del bacillo tubercolare sono in rapido aumento, sia in Europa, sia negli Stati Uniti. Anche prima della diffusione di HIV, la tubercolosi era considerata una patologia a maggiore incidenza tra i tossicodipendenti, e venivano segnalate le difficoltà di trattamento dovute alla limitata aderenza alle terapie. La maggior incidenza nei tossicodipendenti rispetto alle altre categorie a rischio, anche fra i soggetti con infezione da HIV, suggerisce una più elevata prevalenza di infezione latente. Tale assunto è confermato dal riscontro di percentuali di positività alla reazione tubercolinica nettamente maggiori rispetto alla popolazione generale, nonostante l’immunodepressione indotta da HIV sia in grado di ridurre o abolire la risposta cutanea alla tubercolina. è tuttavia probabile che, a differenza della maggior parte delle infezioni nei tossicodipendenti, la maggior incidenza di tubercolosi non sia direttamente associata all’uso della droga né alle modalità di assunzione o agli strumenti utilizzati per la sua preparazione, quanto piuttosto alle condizioni sociodemografiche e un più basso livello economico.
Un’altra grave patologia infettiva associata alla tossicodipendenza è l’endocardite batterica. La sua incidenza è stimata tra il 15 e i 20 casi per 1000 assuntori di sostanze stupefacenti per via endovenosa per anno. Descritte in associazione all’abuso endovenoso di sostanze stupefacenti già alla fine degli anni ’30, le endocarditi rappresentavano in alcune casistiche negli USA, nell’era pre-HIV, la seconda causa di ricovero ospedaliero dei tossicodipendenti dopo l’intossicazione acuta, e una fra le più frequenti cause di morte. In altre casistiche più recenti, le infezioni cardiovascolari rappresentavano una causa frequente di ricovero per patologie infettive comunitarie in tossicodipendenti, precedute peraltro da quelle riguardanti la cute, i tessuti molli e le vie respiratorie. La scarsa igiene nell’atto iniettivo fa si che un ruolo predominante nel causare infezioni endocardiche sia assunto dai batteri della flora cutanea. Caratteristicamente le endocarditi nel tossicodipendente sono più frequentemente sostenute da Staphylococcus aureus, ed interessano le sezioni destre del cuore (tricuspide). Rappresentano inoltre una causa comune di batteriemia (sino al 40% in alcune casistiche). In 2/3 dei casi si verificano su valvole precedentemente sane. Classicamente il paziente presenta sintomi da 1-2 settimane, ed in particolare febbre; sono spesso presenti segni d’infezioni in altre sedi (2/3 dei casi) ed i comuni sintomi respiratori (tosse, dolore toracico); rari invece i segni di insufficienza tricuspidale (1/3). è comune la compromissione del sensorio. Le emocolture sono positive nel 80-100% dei casi; l’ecografia transesofagea è sensibile (90-98%) e specifica (100%).
Encefalo e meningi sono un altro bersaglio importante di processi infettivi che conseguono all’abuso di sostanze stupefacenti. La maggior parte delle meningiti e degli ascessi cerebrali trae origine da stati setticemici o da emboli settici in pazienti con endocardite.
Tra i vari agenti batterici implicati, Staphylococcus aureus è il più frequentemente riscontrato. Il progressivo aumento dell’età media e l’associazione con alcolismo e condizioni di emarginazione sociale rendono non improbabile un incremento del rischio di meningiti pneumococciche.Il tossicodipendente presenta, inoltre, una più elevata incidenza di quadri infettivi a carico delle diverse porzioni anatomiche dell’occhio, superficiali o profonde.
Le infezioni profonde sono di regola dovute all’inquinamento del materiale iniettato. L’endoftalmite da Candida, già descritta dalla metà degli anni ’80, è l’infezione oculare profonda più frequente e spesso rappresenta la complicanza di una endocardite.
è stato suggerito che la fonte dell’infezione sia da riportare all’abitudine di leccare l’ago prima dell’iniezione. Più raramente, l’agente patogeno in causa è Aspergillus. Più recentemente, infine, è stata osservata un’endoftalmite da Fusarium in un assuntore di cocaina per via venosa.
I tossicodipendenti possono inoltre sviluppare infezioni del sistema scheletrico e articolare, secondarie alla disseminazione ematogena a partenza da focolai settici situati in altri organi, oppure, meno frequentemente, in conseguenza della diffusione per contiguità di infezioni di cute e tessuti molli.
Infine, è da sottolineare la possibilità di outbreak di malaria trasmessa, tramite aghi e/o siringhe scambiate da tossicodipendenti, come avvenuto in passato a NewYork o in Spagna,mentre si ipotizza la possibilità di trasmissione di alcune forme di leishmaniosi da parte di pazienti immunodepressi quali i tossicodipendenti con infezione da HIV.


Molte complicanze della dipendenza da eroina sono correlate a una somministrazione della sostanza in condizioni non igieniche. Altre sono dovute alle proprietà intrinseche della droga, a overdose oppure al comportamento durante lo stato di intossicazione concomitante al consumo della droga. Complicanze frequenti sono i problemi polmonari, le epatiti, i disturbi di tipo artritico, le alterazioni immunologiche e i disturbi neurologici.

Possono verificarsi polmoniti da aspirazione e di origine infettiva, ascessi polmonari, emboli settici del polmone e atelettasie. Quando vengono iniettate compresse preparate per uso orale, può insorgere una fibrosi polmonare sulla base di una granulomatosi da talco. L'abuso cronico di eroina porta a una diminuzione della capacità vitale e a una diminuzione da lieve a moderata della capacità di diffusione. Tali effetti si differenziano dall'edema polmonare, che può essere associato acutamente a un'iniezione di eroina. Molti tossicodipendenti da oppiacei fumano uno o più pacchetti di sigarette al giorno, il che li rende particolarmente suscettibili a una serie di infezioni polmonari.

In oltre il 90% dei tossicodipendenti si verifica un'ipergammaglobulinemia sia per le IgG che per le IgM. La ragione di tali alterazioni immunologiche è sconosciuta, ma essa può essere il riflesso di una stimolazione antigenica continua da parte delle infezioni o delle iniezioni parenterali quotidiane di sostanze estranee. Con il mantenimento a base di metadone, l'ipergammaglobulinemia si riduce. .

Negli eroinomani, i disturbi neurologici sono in genere rappresentati da complicanze non infettive quali coma e anossia cerebrale. Può manifestarsi un'ambliopia (dovuta presumibilmente alla contaminazione dell'eroina con chinino), una mielite trasversa e un certo numero di mono- e polineuropatie, così come una sindrome di Guillain-Barré. Le complicanze cerebrali includono quelle secondarie a endocardite batterica (meningite batterica, aneurisma micotico, ascesso cerebrale, ascessi subdurali ed epidurali), quelle dovute a epatite virale o tetano e la malaria cerebrale acuta da plasmodium falciparum. Alcune complicanze neurologiche possono essere dovute a risposte allergiche alle sostanze da taglio dell'eroina.

Le infezioni che colpiscono queste persone dipendono dalla scarsa attenzione posta nelle procedure di preparazione della dose da iniettare. Per esempio, se la zona di iniezione non viene ben disinfettata, la flora batterica commensale colonizza facilmente i tessuti sottostanti, e comunque alcune zone, come la vena femorale, sono maggiormente colonizzate da batteri commensali. Capita spesso che capsule e pastiglie vengano schiacciate tra i denti, e gli aghi leccati, pratica che raddoppia il rischio di trasferire specie streptococciche e anaerobiche orali nel sito di iniezione. Come pure il riutilizzo di siringhe che vengono sciacquate solo con acqua corrente o con quella dei water. Come per il virus dell'Aids, lo scambio di siringhe espone a un elevatissimo rischio di contagio.L'unica soluzione percorribile per controllare le infezioni associate al consumo di droghe è l'informazione sulle vie di trasmissione e la distribuzione di materiale sterile usa e getta. E' solo intervenendo sui comportamenti a rischio che si può pensare di migliorare la situazione.

Alcuni problemi della madre eroinomane vengono trasmessi al feto. Poiché l'eroina e il metadone passano liberamente la barriera placentare, il feto sviluppa subito una dipendenza fisica. Una madre con infezione da virus HIV o da virus dell'epatite B può trasmettere il virus al proprio neonato. Le tossicodipendenti incinte visitate in tempo devono essere incoraggiate a intraprendere un programma di mantenimento con metadone. L'astinenza é la cosa migliore per il feto, ma le madri astinenti spesso tornano all'uso di eroina e trascurano le cure prenatali. La sospensione dell'eroina o del metadone nelle donne incinte alla fine del 3 trimestre può precipitare un travaglio precoce; quindi, le donne incinte che giungono all'osservazione a fine gravidanza possono essere stabilizzate meglio con il metadone, piuttosto che essere disturbate da tentativi di sospendere gli oppiacei. La madre in mantenimento con metadone può accudire il proprio neonato senza causargli alcun problema clinico manifesto; la concentrazione del farmaco nel latte materno è minima.

I neonati di madri dipendenti da oppiacei possono presentare tremori, pianto stridulo, reazioni di paura, convulsioni (raramente) e tachipnea.

Il trattamento clinico dei tossicodipendenti da oppiacei è molto difficoltoso. I medici che trattano la dipendenza pertanto dovrebbero conoscere bene le leggi statali e locali. Pochi medici hanno una formazione specifica o l'esperienza per gestire i tossicomani, i loro amici e le loro famiglie, o per gestire gli atteggiamenti della società (compresi quelli dei rappresentanti della legge, degli altri medici e del personale sanitario ausiliario) verso il loro trattamento. Di solito, il medico deve inviare i tossicomani da oppiacei nei centri di trattamento specializzati, piuttosto che tentare di curarli da solo.

Per usare in maniera legale un farmaco di tipo oppiaceo nel trattamento di un tossicodipendente, il medico deve stabilire l'esistenza di una dipendenza fisica da oppiacei. Tuttavia, molti dei tossicomani che richiedono un trattamento hanno una dipendenza fisica minima, perché usano eroina di bassa qualità, che può anche non causare alcuna dipendenza fisica. Molti consumatori di eroina sono dipendenti fisicamente solo a tratti: quando l'eroina è disponibile, viene usata subito; quando è scarsa, molti restano astinenti e aspettano. La dipendenza fisica é suggerita da un'anamnesi di tre o più iniezioni di narcotico al giorno, dalla presenza di segni da ago recenti, dall'osservazione dei segni e sintomi dell'astinenza o dalla presenza di morfina in un campione urinario. L'eroina è metabolizzata in morfina, coniugata con acido glucuronico ed escreta.

Trattamento di un'overdose: l'antagonista degli oppiacei naloxone (0,4-0,8 mg EV) è il farmaco di scelta, perché non induce depressione respiratoria. Elimina rapidamente lo stato di incoscienza dovuto a un oppiaceo. Siccome alcuni pazienti diventano agitati, confusi e aggressivi appena escono da uno stato comatoso, può essere necessario applicare dei mezzi sicuri di contenzione prima della somministrazione dell'antagonista. Tutti i pazienti trattati per un'overdose dovrebbero essere ricoverati e tenuti in osservazione almeno per 24 ore, dato che l'azione del naloxone è relativamente breve e la depressione respiratoria si può ripresentare per diverse ore, soprattutto con il metadone. L'edema polmonare grave, che può causare la morte per ipossia, abitualmente non risponde al naloxone e non é chiara la sua relazione con l'overdose.

La sindrome da astinenza è autolimitante e, sebbene molto drammatica, non è pericolosa per la vita. Il paziente va informato che proverà sintomi sgradevoli, ai quali non sarà consentito di raggiungere livelli intollerabili, e che i farmaci usati per alleviarli saranno somministrati in base ai segni fisici obiettivi di astinenza. Il comportamento di ricerca di droga del paziente inizia in genere con i primi sintomi di astinenza, e il personale ospedaliero deve essere sempre attento alla possibilità che egli cerchi di procurarsi la droga. I visitatori vanno limitati.

Molti pazienti in sindrome da astinenza hanno altri problemi medici che devono essere diagnosticati e trattati. I tossicodipendenti da oppiacei possono presentare dipendenze multiple e, sebbene sia teoricamente possibile fornire adeguati trattamenti di svezzamento per ciascuna sostanza, ciò non è necessario.

Ci vorrebbero i lavori forzati così a queste persone passerebbe la voglia di essere un costo e un peso alla società. purtroppo so cosa vuol dire avendo un elemento del genere in famiglia...



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