sabato 28 novembre 2015

LE FOBIE



Per la psicoanalisi la fobia è imputabile alla rimozione di contenuti inconsci che manifestano il loro effetto portando l'individuo ad evitare una certa situazione. L'evento traumatico (appartenente al periodo dell'infanzia o della vita adulta) subisce un fenomeno di spostamento su una situazione o su un oggetto specifico.
A livello di pulsioni inconsce, la fobia è causata dalla rimozione di un'idea, di un desiderio o di un impulso inaccettabile. L'interpretazione psicoanalitica freudiana restringe il ventaglio di ipotesi, in quanto definisce la sindrome fobica come una conseguenza del mancato superamento del complesso di Edipo (isteria di angoscia) e dell'angoscia di castrazione. Vi è quindi una negazione del problema interno ed un trasferimento della angoscia dalla situazione psicologica interna verso il mondo esterno che viene caricato simbolicamente di valenze negative e fobiche.

Nel comportamentismo, invece, l'origine della fobia va ricercata nell'associazione con una esperienza spiacevole precedentemente provata, rievocata dall'oggetto della fobia. Anche le relazioni interpersonali del momento possono instaurare un particolare collegamento, rappresentato dalla fobia stessa, tra il malato e l'ambiente.

Attualmente, la psicoterapia cognitivo-comportamentale sostiene che il disturbo derivi da un cattivo apprendimento che può avvenire per condizionamento classico (Preparedness Theory di Seligman) o per apprendimento sociale (Bandura). Il disturbo si viene poi a mantenere per condizionamento operante tramite l'evitamento, dove il rinforzo negativo è rappresentato dalla sensazione di diminuzione dell'ansia per effetto dell'allontanamento dalla situazione fobica.

La fobia è una paura estrema, irrazionale e sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia e con cui gli altri si confrontano senza particolari tormenti psicologici. Chi ne soffre è sopraffatto dal terrore all’idea di venire a contatto magari con un animale innocuo come un ragno o una lucertola, o di fronte alla prospettiva di compiere un’azione che lascia indifferenti la maggior parte delle persone (ad esempio, il claustrofobico non riesce a prendere l’ascensore o la metropolitana). Le persone che soffrono di fobie si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità della propria paura, ma non possono controllarla.
L’ansia da fobia, o “fobica”, si esprime con sintomi fisiologici come tachicardia, vertigini, extrasistole, disturbi gastrici e urinari, nausea, diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e spossatezza. Con la paura si sta male e si desidera una cosa sola: fuggire! Scappare, d’altra parte, è una strategia di emergenza. La tendenza ad evitare tutte le situazioni o condizioni che possono essere associate alla paura, sebbene riduca sul momento gli effetti della fobia, in realtà costituisce una micidiale trappola: ogni evitamento, infatti, conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento successivo (in termini tecnici si dice che ogni evitamento rinforza negativamente la paura). Tale spirale di progressivi evitamenti produce l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche della reazione fobica della persona, al punto da interferire significativamente con la normale routine dell’individuo, con il funzionamento lavorativo o scolastico oppure con le attività o le relazioni sociali. Il disagio diviene così sempre più limitante. Chi ha la fobia dell’aereo può trovarsi, ad esempio, a rinunciare a molte trasferte, e la cosa diventa imbarazzante se è necessario spostarsi per lavoro. Chi ha paura degli aghi e delle siringhe può rinunciare a controlli medici necessari o privarsi dell’esperienza di una gravidanza. Chi ha paura dei piccioni non attraversa le piazze e non può godersi un caffè seduto ai tavolini di un bar all’aperto e così via.



Quando si parla di fobie ci si riferisce in genere a: fobia dei cani, fobia dei gatti, fobia dei ragni, fobia degli spazi chiusi, fobia degli insetti, fobia dell’aereo, fobia del sangue, fobia delle iniezioni, ecc.
Più precisamente, esistono le fobie generalizzate (agorafobia e fobia sociale), fortemente invalidanti, e le comuni fobie specifiche, generalmente ben gestite dai soggetti evitando gli stimoli temuti, che si classificano così:

Tipo animali. Fobia dei ragni (aracnofobia), fobia degli uccelli o fobia dei piccioni (ornitofobia), fobia degli insetti, fobia dei cani (cinofobia), fobia dei gatti (ailurofobia), fobia dei topi, ecc..
Tipo ambiente naturale. Fobia dei temporali (brontofobia), fobia delle altezze (acrofobia), fobia del buio (scotofobia), fobia dell’acqua (idrofobia), ecc..
Tipo sangue-iniezioni-ferite. Fobia del sangue (emofobia), fobia degli aghi, fobia delle siringhe, ecc.. In generale, se la paura viene provocata dalla vista di sangue o di una ferita o dal ricevere un’iniezione o altre procedure mediche invasive.
Tipo situazionale. Nei casi in cui la paura è provocata da una situazione specifica, come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare (aviofobia), guidare, oppure luoghi chiusi (claustrofobia o agorafobia).
Altro tipo. Nel caso in cui la paura è scatenata da altri stimoli come: il timore o l’evitamento di situazioni che potrebbero portare a soffocare o contrarre una malattia, ecc. Una forma particolare di fobia riguarda il proprio corpo o una parte di esso, che la persona vede come orrende, inguardabili, ripugnanti (dismorfofobia).
E’ importante chiarire che il tipo di fobia da cui si è affetti non ha alcun significato simbolico inconscio, come invece viene suggerito da alcuni psicoanalisti, e la paura specifica è legata unicamente ad esperienze di apprendimento errato involontario (non necessariamente ricordate dal soggetto), per cui l’organismo associa involontariamente pericolosità ad un oggetto o situazione oggettivamente non pericolosa. Si tratta, in sostanza, di un processo di cosiddetto “condizionamento classico”. Tale condizionamento si mantiene inalterato nel tempo a causa dello spontaneo evitamento sistematico che i soggetti fobici mettono in atto rispetto alla situazione temuta.

Il trattamento delle fobie è relativamente semplice, se non complicato da altri disturbi psicologici, e prevede primariamente un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale di breve durata (spesso entro i 3-4 mesi).
La cura delle fobie, dopo un periodo di valutazione del caso che si esaurisce in genere nell’arco del primo mese, passa necessariamente attraverso l’utilizzo delle tecniche di esposizione graduata agli stimoli temuti. Il paziente viene avvicinato in modo molto progressivo agli stimoli che innescano la paura, partendo da quelli più lontani dall’oggetto o situazione centrale (es. l’immagine di una siringa nuova per un fobico degli aghi o una scatoletta di mangime per un fobico dei cani). Il contatto con tali stimoli viene mantenuto finché inevitabilmente non subentra l’abitudine ed essi non generano più ansia. Solo a tal punto si procede all’esposizione ad uno stimolo leggermente più ansiogeno, in una gerarchia accuratamente preparata in seduta a priori. In questo modo, nell’arco di poche settimane, si riesce a salire sulla gerarchia fino ad arrivare a esposizioni molto più forti, senza suscitare mai troppa ansia nel soggetto e ripetendo ogni esercizio finché non è diventato “neutro”.
Tale procedura può spaventare molto le persone che soffrono di una fobia, poiché implica affrontare vis a vis l’oggetto o situazione temuta, ma se ben effettuata, con l’aiuto di un terapeuta esperto, è assolutamente applicabile e garantisce un successo nel 90-95% dei casi nella cura della fobia.
In alcuni casi, per rendere più efficace il metodo, si insegnano al paziente strategie di rilassamento fisiologico e lo si invita ad utilizzarle poco prima di esporsi agli stimoli ansiogeni, in modo da facilitare la creazione di un nuovo condizionamento, in cui l’organismo associ rilassamento, anziché ansia, a tali stimoli.
Nel caso di fobie invalidanti è molto diffuso l’uso di farmaci ansiolitici “al bisogno”, per gestire l’ansia dovendo fronteggiare necessariamente certe situazioni temute (es. prima di prendere l’aereo). Tale strategia consente di sopravvivere all’evento, ma non ottiene altro che l’effetto di rafforzare la fobia. Più utili, eventualmente, anche se non paragonabili e indubbiamente meno efficaci delle tecniche cognitivo comportamentali, possono essere delle adeguate e prolungate terapie a base di antidepressivi SSRI, sotto attenta valutazione medica.



Immaginate di incrociare per strada una ragazza stupenda: tacchi a spillo, curve al posto giusto, labbra carnose… insomma, uno schianto. Se però invece che voltarvi a guardarla, iniziate a tremare e a sudare freddo, mentre un senso di nausea e oppressione vi attanaglia, allora probabilmente soffrite di caligynefobia, un terrore smisurato per le belle donne. Magari "condito" con un tocco di philematofobia, una fifa matta dei baci. Se invece a spaventarvi sono solo i baci di vostra suocera, forse siete affetti da penterafobia (un’avversione ingiustificata per la madre di vostra moglie).
Elenco senza fine
E l’elenco delle fobie più insolite potrebbe continuare all’infinito, c’è chi non sopporta la vista delle ginocchia - neanche delle proprie - (genufobia), chi trema, e non solo di freddo, quando nevica (quionofobia) e chi ha talmente paura delle ombre da ridursi a vivere nel buio più assoluto. Altri temono gli angoli di case e palazzi (gonofobia), vanno in panico davanti a un minestrone di verdure (lachanofobia) o alla sola vista di un pc (i ciberfobici, che difficilmente leggeranno queste righe). Disturbi un po’ insoliti, certo, ma seri e invalidanti, che possono colpire un po’ tutti, indistintamente.

«La paura è democratica», afferma Giorgio Nardone, psicologo, psicoterapeuta e direttore del Centro di Terapia Strategica di Arezzo (un istituto di ricerca, training e cura di queste patologie), «in 15 anni di terapia ho incontrato oltre 10 mila pazienti, il 52% dei quali donne, il 48% uomini. Non c’è quindi una differenza significativa tra sessi, né tra ceti sociali. Neppure medici e psicologi, che con le fobie hanno a che fare ogni giorno, ne sono immuni».

Insomma se eravate rimasti alla paura per ragni e serpenti, è ora di aggiornare il glossario. Chi ha provato a catalogare una per una tutte le fobie più strane infatti, è riuscito a contarne oltre un migliaio, accatastate in lunghi dizionari online che spesso più che offrire un valido sostegno terapeutico a chi è affetto da questi disturbi, soddisfano la curiosità degli utenti "sani".

Qualcuno sulle fobie più bizzarre ci specula, altri ci scherzano, quasi tutti ci incuriosiamo. Eppure si tratta di patologie che possono rendere la vita di chi ne soffre particolarmente dura. Sì perché se alcune paure sono più facilmente condivisibili, altre sembrano troppo fuori dalle righe per essere accettate.

Provate a pensare di rimanere bloccati in ascensore, in bilico tra due piani alti. Bè in una simile circostanza, nessuno si stupirebbe più di tanto, se vi venisse un attacco di claustrofobia. Ma che pensereste se un vostro collega vi confessasse di avere una paura tremenda di scale e gradini (batmofobia)? O se ogni giorno dopo inutili tentativi e crisi di panico, vi implorasse di fare quella telefonata al posto suo perché solo a comporre il numero, si sente venir meno?
Difficile confessare ad amici e conoscenti di avere il terrore di oggetti e situazioni apparentemente così "innocui". Si rischierebbe, è il primo pensiero di chi è affetto da disturbi tanto specifici, di venir presi per matti. O di essere considerati dei deboli o dei viziati.
E in effetti, come reagireste se scopriste che a bloccare in casa un vostro parente, è una paura smisurata per le raffiche di vento (anemofobia)? O un timore incontrollabile per le ombre (sciofobia), che lo costringe a rinchiudersi in una stanza buia evitando così ogni contatto con l’esterno?
E che dire dei malati di ciberfobia (paura dei Pc) che non riuscirebbero a compiere un sempre maggior numero di lavori e professioni?

Comune è anche una certa riluttanza a rivolgersi a uno specialista, soprattutto per i fobici colpiti da disturbi più inusuali, che cercano di nascondere il più a lungo possibile le proprie paure. Tanto che patologie di questo tipo sfuggono anche alle statistiche mediche ufficiali.

In cima alla lista delle zoofobie più diffuse, comunque, c’è oggi quella per i piccioni: segno che le paure cambiano nel tempo, proprio come le mode. Molto diffuse anche le patofobie, timori immotivati di essere affetti da un male incurabile. Secondo una recente rilevazione empirica condotta su scala nazionale, questi malati immaginari, che si sottopongono a esami diagnostici continui e invasivi, sono il 6-7% della popolazione italiana. Oltre 2 milioni di persone che oltre a provare un forte disagio personale, aggravano il bilancio del servizio sanitario dello stato.
D’accordo la fobia delle lontre (lutrafobia) per chi abita in città, può non essere particolarmente invalidante: basta evitare fiumi e parchi naturali e il problema non si pone. Ma il punto è che dietro a questa e altre paure così specifiche, si nasconde spesso un disagio personale più serio.




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LE TONSILLE



Le tonsille sono organi linfoghiandolari pari e simmetrici presenti nel cavo orale, parzialmente visibili attraverso la bocca a livello dell'istmo delle fauci e sulla parete posteriore del rinofaringe. Trovandosi in posizione strategica all'inizio del tragitto dell’aria che respiriamo e del cibo che ingeriamo, svolgono una fondamentale funzione di difesa dell'apparato respiratorio, proteggendolo da possibili microorganismi presenti nell’aria, oltre che da sostanze di varia natura provenienti da corpi estranei.

Le tonsille raggiungono la massima dimensione all'epoca della pubertà, poi si atrofizzano progressivamente durante il normale invecchiamento.

Tutte insieme le tonsille formano il Grande anello linfatico di Waldeyer (dal nome di Heinrich Wilhelm Waldeyer), costituendo una prima barriera difensiva nei confronti dei microrganismi provenienti dall'esterno.

In base al loro posizionamento all’interno della cavità orale vengono chiamate in modi diversi:

Le tonsille palatine sono situate tra i pilastri palatini nella parte posteriore del palato molle (o velo palatino), cioè in quella porzione di palato con forma concava che separa la cavità orale dalle fosse nasali. Alcuni testi trattano questa regione col nome di "Istmo delle Fauci". Sono le uniche visibili, le più voluminose e quelle a cui genericamente ci si riferisce con il termine tonsille. Ricevono l’Arteria Tonsillare, vaso che origina prevalentemente dall'Arteria Palatina Ascendente che, originata dalla Facciale, si porta all'interno dello spazio faringomandibolare. La tonsilla palatina costituisce il limite anteriore di questo spazio e vi è in rapporto tramite la capsula fibrosa della parete laterale che è a sua volta in rapporto con, dall'interno verso l'esterno, il M. Amigdaloglosso, l’Aponeurosi palatina, il M. Costrittore Sup. della Faringe e il M. Stiloglosso, che costituiscono la parete mediale dello spazio faringomandibolare. Riceve fibre sensitive dal plesso tonsillare, che origina da rami del Linguale (Ramo terminale della Branca Mandibolare del Trigemino, V Paio) e del Glossofaringeo (IX). Per quanto riguarda il sangue refluo della circolazione venosa, viene raccolto dalle vene del Plesso Venoso Tonsillare che sfocia nella Vena Palatina Ascendente, ramo della Vena Facciale Anteriore.

Le tonsille faringee dette anche adenoidi o più correttamente vegetazioni adenoidi, hanno le stesse funzioni delle tonsille palatine ma, trovandosi sulla parete posteriore del rinofaringe, se crescono troppo possono causare anche notevoli difficoltà di respirazione.

Le tonsille tubariche del rinofaringe sono situate sul contorno dello sbocco delle trombe di Eustachio nel lume faringeo.

Le tonsille linguali si trovano dietro la lingua, in basso, da entrambe le parti.
La loro superficie si presenta irregolare per la presenza di sporgenze tondeggianti,che assumono varia dimensione e rilievo. Tali sporgenze sono dovute all'accumulo,nella lamina propria, di tessuto linfoide con voluminosi follicoli secondari.

Le cripte tonsillari sono piccole tasche presenti nella superficie delle tonsille che consentono di ampliare la superficie di contatto delle tonsille stesse con l'esterno.

Nelle cripte possono formarsi delle palline maleodoranti di colore bianco o giallastro e che provocano alitosi, il cui nome è tonsilloliti. Nel caso in cui si abbiano questi tonsilloliti, le cripte si vedono chiaramente, se invece le cripte sono pulite è più difficile vederne i contorni. I tonsilloliti sono un accumulo di batteri, particelle di cibo (in particolare formaggi e frutta secca) e globuli bianchi che attaccano tali residui per difendere l'organismo.

Un rimedio per i tonsilloliti è quello di compiere degli sciacqui energici dopo i pasti oppure rimuoverle periodicamente dalle cripte delle tonsille, con molta delicatezza, utilizzando il cotton fioc o un altro strumento simile.

L'azione antinfettiva ed immunitaria è favorita dalla presenza delle cripte. I motivi sono due:
Le invaginazioni, o cavità, aumentano la superficie di contatto tra epitelio tonsillare e patogeni esterni. In questo modo, l'azione antinfettiva è più efficiente.
L'epitelio delle cripte produce, all'interno delle stesse, un'infiltrazione linfocitaria. Ciò garantisce una reazione immunitaria del tipo antigene-anticorpo.
Le tonsille sono particolarmente attive nei bambini fino alla pubertà.



Le patologie sono indicate con il termine generico di tonsilliti. Esse interessano il tessuto linfoide delle tonsille, dando luogo ad un'infiammazione.
Più precisamente si parla di:
Tonsilliti, quando l'infiammazione colpisce le tonsille palatine e linguali.
Adenoiditi, quando la flogosi colpisce la tonsilla faringea.
Inoltre, le tonsilliti vanno distinte in:
Tonsilliti palatine acute:
Tonsillite catarrale acuta
Tonsillite streptococcica
Tonsillite parenchimatosa
Ascesso peritonsillare
Tonsilliti linguali acute:
Tonsillite linguale catarrale acuta
Tonsillite linguale suppurativa
Per le adenoiditi, si parla soltanto di adenoidite acuta.

Le tonsilliti palatine acute e quella linguale catarrale acuta sono, in genere, conseguenti a casi di raffreddamento. Fa eccezione l'ascesso peritonsillare, per il quale si parla di scarsa igiene orale. Sono tutte causate da una proliferazione batterica (streptococco, pneumococco e stafilococco) a livello locale, solitamente nelle cripte. Si possono osservare, in chi contrae queste infiammazioni, sintomi quali: febbre, tosse, dolore nel deglutire, ipertrofia (cioè ingrossamento) delle tonsille ed ingiallimento del tessuto tonsillare. La tonsillite linguale suppurativa, invece, è causata da un corpo estraneo.
Merita maggiore attenzione l'adenoidite acuta, in quanto colpisce di solito lattanti e bambini. Infatti, a partire dai 12-14 anni di età, la tonsilla faringea comincia un processo di involuzione. La causa scatenante consiste nella proliferazione di germi a livello della rinofaringe, a seguito di raffreddamento. Il sintomo più significativo è la difficoltà di respirazione, più intensa nei lattanti rispetto ai bambini.

Oggi, l’asportazione delle tonsille è meno diffusa di un tempo, ma a volte è necessaria, non solo per le tonsilliti ricorrenti, ma anche perché queste piccole strutture ai lati della bocca possono assumere dimensioni tali da interferire con la respirazione. «Le tonsille, come le adenoidi, sono costituite da tessuto linfatico e svolgono una funzione difensiva verso le infezioni respiratorie, specie nel primo anno di vita, in cui il sistema immunitario è ancora in fase di sviluppo - spiega il professor Giovanni Felisati, direttore del Dipartimento testa e collo del Polo Universitario Ospedale San Paolo di Milano -. Le tonsille, per la loro posizione nel cavo orale, possono entrare in contatto con i germi molto facilmente e così andare incontro a infiammazioni, le tonsilliti appunto. Mentre il raffreddore è quasi sempre virale e l’otite di solito batterica, le tonsilliti possono essere sia virali sia batteriche. Sapere che cosa ha causato l’infezione è importante per individuare la terapia corretta, il problema è che ciò non può essere fatto con assoluta certezza sulla sola base dei sintomi».

« La tonsillite se è di origine batterica, con gli antibiotici; se è virale si può solo cercare di attenuare i disturbi con antipiretici e antinfiammatori. I sintomi possono orientare sulla causa, ma non danno risposte certe. La strategia più utilizzata per distinguere le due forme è il tampone orale rapido, che individua l’eventuale presenza di streptococchi, batteri spesso chiamati in causa in queste infezioni».
Quando è necessaria l’asportazione chirurgica?
«Nel bambino più di cinque tonsilliti nell’anno precedente o la presenza di apnea respiratoria notturna a causa dell’ingrossamento delle tonsille sono riconosciuti come motivi validi per valutare l’eventualità dell’operazione. Nell’adulto l’intervento può essere considerato anche se le tonsilliti sono meno frequenti, a patto che le tonsille siano veramente in cattive condizioni, perché atrofiche e costantemente malate. Nel bambini la tonsillite è spesso accompagnata dall’adenoidite, infiammazione delle adenoidi che causa ostruzione nasale. Adenoidi e tonsille vengono in molti casi tolte insieme. D’altro canto, nei bambini con ostruzione respiratoria nasale e tonsille solo lievemente ipertrofiche e senza frequenti infezioni si tende a rimuovere solo le adenoidi, perché l’operazione è meno invasiva e con meno strascichi. La rimozione in endoscopia - che noi pratichiamo - permette di vedere bene quello che si asporta, mentre l’approccio tradizionale espone al rischio di non recidere tutto il tessuto e di avere ricadute».






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LA PSICOSOMATICA



Il principio fondamentale della medicina primitiva concepiva la malattia come una condizione di disagio dell'uomo “intero” in cui l'effetto della volontà di una forza superiore era considerato elemento causale e determinante. Nel mondo magico primitivo non esisteva né una concezione della mente, né una concezione del corpo, né dell'ambiente e l'uomo si sentiva immerso nella natura sotto tutti i suoi aspetti, riconoscendosi inferiore e dipendente da tali forze. In questa visione del mondo, lo sciamano, il medicine man, è l'intermediario tra il mondo degli umani e il mondo degli spiriti. In questo contesto la malattia finisce con il riguardare l'intera comunità assumendo anche il carattere di “evento sociale” che attraverso l'opera dello sciamano può essere portata alla guarigione.

Nel corso dei millenni, la figura del medico si mantiene, sostanzialmente, collegata a quella del saggio, del sacerdote. La medicina pitagorica, in particolare, aveva ricercato le analogie tra l'uomo e l'universo, tra il microcosmo e il macrocosmo e aveva concepito la malattia come una rottura dell'equilibrio dell'organismo, come una sorta di “perduta armonia” tra queste due forze. La medicina umorale di Ippocrate aveva invece affermato come responsabile della malattia, lo squilibrio tra gli umori del corpo. Tale concezione è di importanza fondamentale per la storia della medicina psicosomatica poiché inserisce il “temperamento” individuale come elemento sostanziale della malattia individuando, in ciascuna persona, la sua “costituzione”: il tipo “sanguigno, “flemmatico”, “bilioso” e “melanconico”, esprimerebbero, in definitiva, il carattere e il “modo di porsi nel mondo” di ciascuno di noi. L'approccio generale di Ippocrate sarà rispettato anche da Galeno e diventerà punto di riferimento per tutto il Medioevo e il Rinascimento.

Nel Seicento, la scoperta del microscopio e le idee del filosofo René Descartes offriranno alla medicina una concezione dell'organismo regolato da forze meccaniche e fisico-chimiche, tanto che la distinzione tra res cogitans e res extensa influenzerà tutta la medicina pervenendo perfino a definire la medicina moderna. Se all'inizio, però, una tale concezione si era rivelata utile, data la complessità dello studio della disciplina, separare la res cogitans dalla res extensa alla fine “aveva creato anche problemi di una certa importanza perfino al medico pratico che si trovava a curare un paziente esteso e cogitante allo stesso tempo e vedeva fin troppo bene come i due aspetti si intersecassero fra di loro”. È da notare che Claude Bernard, intorno alla fine dell'Ottocento, era giunto a parlare di omeostasi per descrivere il processo di autoregolazione da parte dell'organismo riproponendo la visione unitaria della malattia.

Dobbiamo attendere, però, il contributo di Sigmund Freud che attraverso gli studi sull'isteria, affermò che un contenuto psichico, qualora represso, era capace di provocare importanti modificazioni corporee e il “misterioso salto” dalla mente al corpo era divenuto un evento possibile. Mentre però Sigmund Freud concentrava la sua attenzione e il suo lavoro sulla produzione verbale dei suoi pazienti, Wilhelm Reich, uno psichiatra austriaco, introdusse nella psicoanalisi anche l'osservazione e il lavoro analitico sul corpo. Successivamente, le teorie di Reich offriranno lo spunto per lo sviluppo dell'analisi bioenergetica, metodica psicoterapeutica elaborata in seguito da Alexander Lowen. Questo approccio, unico nel suo genere, ha avuto il merito di ri-considerare la mente e il corpo come un'unità funzionale, inscindibile, tanto che l'intervento degli analisti bioenergetici è costituito da una complessa combinazione di lavoro sul corpo e lavoro psicoanalitico. Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, Franz Alexander propose che gli stati conflittuali, attraverso la mediazione del sistema neurovegetativo, fossero anche implicati nelle cause di varie malattie psicosomatiche.

Un'altra teoria molto significativa è quella proposta dalla Dunbar, allieva e collaboratrice dello stesso Franz Alexander. Ella sostenne che la struttura della personalità individuale può condizionare le difese corporee, predisponendo allo sviluppo di determinate malattie. Vent'anni di studi ulteriori, tra il 1970 e il 1990, ma che ancora oggi forniscono risultati importanti, hanno chiarito che sensibile alle reazioni emozionali non è solo il sistema nervoso vegetativo ma anche, e notevolmente, il sistema endocrino e il sistema immunitario inaugurando il filone di ricerca della psiconeuroendocrinoimmunologia (la cosiddetta P.N.E.I.). In Italia, lo psicologo Ferruccio Antonelli nel 1981 iniziò a parlare di “brositimia”, letteralmente “sentimento ingoiato”. Secondo questo autore, le persone affette da disturbi di natura psicosomatica, presenterebbero difficoltà nel reagire alle avversità della vita, tanto che questo loro stile di vita risultò essere il principale responsabile delle loro sofferenze, la più chiara espressione della somatizzazione dell'ansia. “Mandare giù”, d'altra parte, ricorda il comportamento dello struzzo: non risolve i problemi ma li dirotta all'interno lasciandoli irrisolti.

Una rivalutazione della correlazione tra mente e corpo è venuta inoltre dalla medicina omeopatica, nell'ambito della quale, oltre alla psicosomatica, si evidenziano anche le influenze che il corpo (soma) può avere sulla psiche, a proposito delle quali si parla in questo caso di approccio «somato-psichico». La soluzione proposta dall'omeopatia, comune ad altre forme di terapia olistica che intendono andare oltre la visione cosiddetta «organicista» della medicina ufficiale, limitata cioè alla cura dei singoli organi ammalati, si basa sulla legge di similitudine, secondo cui esiste un'analogia tra i sintomi presentati dal paziente e gli aspetti fisici, psichici e ambientali in cui essi sono maturati. In tal senso l'omeopatia può essere considerata non solo un rimedio, ma anche un principio filosofico.

Chi soffre di malattie psicosomatiche presenta dolore, nausea o altri sintomi fisici, senza però una causa fisiologica che possa essere diagnosticata. Tali sintomi possono avere una causa fisiologica definita, come il disturbo di conversione, disturbo somatoforme e la sindrome miositica tensiva. Alcune condizioni fisiologiche quali la carenza di vitamine o danni cerebrali possono essere causa di sintomi psicologici gravi. Quando la causa di una patologia è dubbia, la possibilità che sia di origine psicosomatica deve essere presa in considerazione. Alcune malattie che in precedenza erano ritenute puramente psicosomatiche, come le allergie, ora vengono considerate aventi un'origine organica identificata.

Alcuni studi hanno dimostrato che anche semplici frustrazioni quotidiane possono avere effetti sulla funzionalità immunitaria. I pionieri in questa area di ricerca sono i coniugi Kielcot-Glaser che l'hanno teorizzata nel XX secolo.

I campi d'impiego della psicosomatica sono prevalentemente stress (distress cronico) e traumi fisici, psichici e sociali esistenziali.



La psicosomatica è un ampio campo della patologia che si colloca a metà strada tra la medicina e la psicologia, in quanto indaga la relazione tra mente e corpo, ovvero tra il mondo emozionale ed affettivo e il soma. Nello specifico, la psicosomatica ha lo scopo di rilevare e comprendere gli effetti negativi che la psiche, la mente, produce sul soma, il corpo.
I disturbi psicosomatici si possono considerare malattie vere e proprie che comportano danni a livello organico e che sono causate o aggravate da fattori emozionali.
I sintomi psicosomatici coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress. Le emozioni negative, come il risentimento, il rimpianto e la preoccupazione possono mantenere il sistema nervoso autonomo (sistema simpatico) in uno stato di eccitazione e il corpo in una condizione di emergenza continua, a volte per un tempo più lungo di quello che l’organismo è in grado di sopportare. I pensieri troppo angosciosi, quindi, possono mantenere il sistema nervoso autonomo in uno stato di attivazione persistente il quale può provocare dei danni agli organi più deboli.
Disturbi di tipo psicosomatico possono manifestarsi nell’apparato gastrointestinale (gastrite psicosomatica, colite spastica psicosomatica, ulcera peptica), nell’apparato cardiocircolatorio (tachicardia, aritmie, cardiopatia ischemica, ipertensione essenziale), nell’apparato respiratorio (asma bronchiale, sindrome iperventilatoria), nell’apparato urogenitale (dolori mestruali, impotenza, eiaculazione precoce o anorgasmia, enuresi), nel sistema cutaneo (la psoriasi, l’acne, la dermatite psicosomatica, il prurito, l’orticaria, la secchezza della cute e delle mucose, la sudorazione profusa), nel sistema muscoloscheletrico (la cefalea tensiva (o mal di testa), i crampi muscolari, la stanchezza cronica, il torcicollo, la fibromialgia, l’artrite, dolori al rachide, la cefalea nucale) e nell’alimentazione.
Sintomi psicosomatici sono comuni nelle varie forme di depressione e in quasi tutti i disturbi d’ansia, ma esistono dei disturbi psicosomatici veri e propri in assenza di altri sintomi di natura psicologica, che rendono più difficile, per il soggetto, imputare il malessere fisico ad un problema psicologico piuttosto che ad un malfunzionamento organico.

Molte ricerche hanno stabilito una stretta correlazione tra mente e corpo, al punto che a volte è difficile capire se l’origine del malessere sia psicologia o organica. A questo proposito è stato riscontrato che mente e corpo si influenzano reciprocamente; per esempio avere un umore basso, genere una cattiva reazione del sistema immunitario, che a sua volta ha difficoltà a combattere gli agenti patogeni che aggrediscono l’organismo; ciò a lungo andare può portare un acutizzazione dei sintomi e una resistenza ai farmaci, che non riescono ad agire perché il sistema immunitario non funziona adeguatamente. Sviluppare una patologia psicosomatica da un lato permette attraverso i sintomi, di dare espressione a un disagio, che non riesce a trovare altre vie per emergere, dall’altro è un tentativo per curarlo o evitarlo.

L’obiettivo di un intervento terapeutico sarà pertanto indirizzato a lavorare sullo sviluppo dell’aspetto psichico, che bloccandosi, ha impedito di acquisire strumenti più evoluti sia per esprimere sia per curare il disagio profondo che la persona vive, e che riesce ad esprimere solo a livello corporeo tramite il sintomo. Si tratterà di imparare a leggere e a modificare le proprie emozioni: in genere il paziente psicosomatico ha difficoltà a riconoscere e dare voce alla rabbia, alla tristezza, alla gioia, ad avere fantasie etc...

Occorrerà imparare ad entrare in contatto col proprio mondo emotivo acquisendo pian piano le capacità per saperlo comprendere, sarà come iniziare a parlare una nuova lingua. Una volta appreso questo nuovo linguaggio, occorrerà dare un senso ai sintomi è modificare i modelli che li mantengono. La psicoterapia in questi casi deve tener conto del sistema in cui una persona vive, in famiglia spesso le emozioni sono accuratamente filtrate in modo da evitare tensioni e contrasti e da mantenere una finta armonia. Il fine della terapia è che cambi non solo l’individuo, ma il sistema di funzionamento della famiglia, in modo da venire incontro a tutti i bisogni di autonomia e di sostegno dei suoi membri. Uno dei maggiori studiosi di questo tipo di intervento è stato Salvador Minuchin, egli ha descritto la “famiglia psicosomatica” come un sistema in cui sono presenti quattro caratteristiche quasi costanti: invischiamento, iperprotettività, rigidità, impossibilità di risoluzione del conflitto.

Le famiglie di questo tipo, sono caratterizzate da legami molto intensi e difficili da sciogliere fra i membri. Inoltre l'atteggiamento dei genitori verso i figli e in genere dei diversi componenti della famiglia é di esser preoccupato per ogni tipo di problema ed eccessivamente protettivo. Ciò avviene sempre, ma si accentua di fronte ad una malattia. Questi comportamenti, ed in genere, i pensieri e gli atteggiamenti della famiglia, risultano molto difficili da modificare, come anche le discussioni ed i conflitti che vengono scrupolosamente evitati, e quindi restano non risolti.

L'elemento psicosomatico consiste quindi nella trasformazione dei conflitti emotivi in sintomi somatici. Riuscire a modificare il funzionamento del sistema familiare, davanti all’emergere di una malattia, permetterà di far emergere il malessere attraverso canali diversi da quelli corporei e di sviluppare nuove risorse che favoriranno l’evoluzione sia del sistema familiare che del singolo individuo che presenta i sintomi.





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giovedì 26 novembre 2015

L'AMFETAMINA



L'amfetamina fu sintetizzata nel 1887. L'uso medico sperimentale delle amfetamine è cominciato negli anni 1920. È stato introdotto nella maggior parte del mondo sotto forma di Benzedrina verso la fine degli anni venti.
Simpamina era il nome commerciale di un prodotto farmaceutico adrenergico derivato dall'amfetamina, prodotto dalla ditta Recordati e venduto in farmacia senza ricetta sino al 1972.

Nel suo uso illegale la forma più diffusa oggi è lo speed (dall'inglese "velocità"). Lo speed può essere formato da anfetammine, sostanze metanfetamminiche, anfetammino-simili come l'efedrina. Il suo colore varia dal bianco, al giallo, al rosa, al marrone chiaro e dipende soprattutto dalle impurità contenute nei solventi usati nel processo chimico di realizzazione della sostanza.

Le amfetamine sono sostanze ottenute per sintesi chimica dal precursore feniletilamina. In termini tecnici sono delle "designer drugs".
Le forme normalmente rintracciabili sul mercato clandestino sono costituite da compresse, compresse ricoperte, pastiglie, gocce o soluzioni iniettabili, polvere bianca, cristallina, venduta in carta d’alluminio o piccole buste di plastica.
Tale classe di sostanze comprende l'amfetamina, il composto progenitore, la metossiamfetamina e la metilendiossimetamfetamina e molte, molte, altre. Tale categoria di sostanze comprende inoltre molti farmaci generalmente utilizzati come psicostimolanti e o anoressizzanti.

Sono moltissimi i nomi di strada per l'amfetamina "Speed", "Crystal", "Bennie" e, quando combinata all’eroina, "Frisco Speed". Per la metamfetamina "Speed", "Meth", "Crank". Per la d-methamfetamina "Ice", "Rocks", "Shabu", etc. etc.
L'abuso dell'amfetamina causa una grave dipendenza psicologica.
L'abuso di lunga durata provoca esaurimento fisico e malnutrizione/denutrizione estrema fino alla cachessia e alla morte.
Dopo decenni di abuso, la FDA (Food and Drug Administration statunitense) ha vietato l'uso come stupefacente e l'ha limitata all'uso con prescrizione medica nel 1959. L'Italia è stata uno degli ultimi paesi europei a recepire la normativa. Oggi è invece fra le nazioni più restrittive e dopo il ritiro del Plegine nessun amfetaminico è in commercio.

Nella classifica di pericolosità delle varie droghe stilata dalla rivista medica Lancet, le amfetamine occupano l'ottavo posto.

Possibili effetti negativi sono disturbi cardiaci (tachicardia, battito cardiaco irregolare), perdita di appetito, ipertensione, allucinazioni, insonnia e psicosi paranoide perduranti per giorni.



Gli effetti delle amfetamine sono attribuiti a modificazioni della funzione e dell'integrità del sistema serotoninergico.
Fondamentalmente aumentano il rilascio di serotonina (5-HT), neurotrasmettitore deputato al controllo del sonno, del tono dell'umore, del comportamento sessuale e della fame.
Dopo l'iniziale liberazione massiva di serotonina, le amfetamine provocano un effetto opposto determinando il blocco della sintesi di serotonina. Viene infatti inibito l'enzima triptofano – idrossilasi deputato alla sintesi del neurotrasmettitore.

Addizionalmente agli effetti già noti dall'impiego farmacologico di sostanze stimolanti, simpaticomimetiche, euforigene che si instaurano dai 15 ai 60 minuti dopo l'assunzione, gli assuntori di tali sostanze provano liberazione emozionale, accresciuti sentimenti di auto-stima e una rottura delle barriere comunicative.

Tali sostanze inducono anche temporanei incrementi della performance (doping), perdita dell'appetito (anoressizzante) e l'eliminazione della necessità di dormire.

Gli effetti collaterali sono generalmente costituiti da allucinazioni acustiche e visive, nervosismo, irritazione, disorientamento, elevata pressione sanguigna, aumento del battito cardiaco e della temperatura corporea.

Uno dei pericoli più gravi, che distingue in modo particolare questa classe di sostanze da altre classi di droghe, è costituito dall'elevata neurotossicità. Studi approfonditi su animali e, successivamente, su volontari umani, hanno dimostrato la degenerazione irreversibile dei neuroni che, in pratica, si "bruciano". Nei casi in cui le cellule degenerate ricrescono si è notato come tale crescita dia luogo a neuroni "mutati" e inattivi. Tali condizioni sono molto simili a quelle alla base dell'epilessia e del morbo di Parkinson.

Sono stati ripetutamente riportati episodi, spesso fatali, relativi a psicosi paranoide, collasso cardiocircolatorio, emorragia cerebrale ed infarto.

La dipendenza da tali sostanze è esclusivamente psicologica (nonostante occasionali situazioni di emicrania e depressione in assenza di assunzione). Le amfetamine, inoltre sviluppano ed incrementano la tolleranza all'aumentare della dose.



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martedì 24 novembre 2015

L'AUTISMO



Prima del Ventesimo secolo non esisteva il concetto clinico di autismo; tra i precursori della ricerca di merito nel XIX secolo, vi fu anche John Langdon Down (che nel 1862 scoprì la sindrome che porta il suo nome), e che aveva approfondito alcune manifestazioni cliniche che oggi verrebbero classificate come autismo e Ludwig Binswanger per il quale “l’autismo consiste nel distacco dalla realtà, insieme con una prevalenza più o meno marcata della vita interiore”.

Il termine autismo fu inizialmente introdotto dallo psichiatra Svizzero Eugen Bleuler nel 1911 per indicare un sintomo comportamentale della schizofrenia; sui lavori precedentemente svolti da Emil Kraepelin.

Nell'antichità e nel folklore europeo si attribuiva l'autismo e altri disturbi alle fate, che si credeva sostituissero di nascosto i propri neonati, denominati Changeling o Servan, con quelli umani.

Il termine autismo inteso in senso moderno è stato utilizzato per la prima volta da Hans Asperger (1906-1980) nel 1938.

In seguito si passò a indicare una specifica sindrome patologica nel 1943 a opera di Leo Kanner (1894-1981), che parlò di "autismo infantile precoce".

Prima di Leo Kanner, Melanie Klein descrisse negli anni Trenta del XX secolo un caso che lei chiama di psicosi infantile e che oggi verrebbe diagnosticato come autistico. Dopo di lei e dopo Kanner, che dette il nome alla sindrome negli anni Quaranta, psicoanalisti come Margaret Mahler e altri (fra cui Bruno Bettelheim) in America, inoltre Frances Tustin, Donald Meltzer e altri in Inghilterra si occuparono di questi bambini negli anni '60-'80.

Con il loro stimolo, un crescente interesse veniva rivolto alle particolari anomalie di comportamento, comunicazione e sviluppo in generale dei bambini e delle persone con autismo, favorendo un aumento di conoscenze e di interesse nel campo della psicologia dello sviluppo e nella psichiatria dell'infanzia. Dagli anni Ottanta, trovarono grande sviluppo le ricerche sull'attaccamento, l'infant research sulle interazioni precoci, le ricerche cognitiviste sulla teoria della mente, e le indagini mediche epidemiologiche, genetiche e di neuroimaging, che svolgono attualmente un grande rilievo nella ricerca clinica sul disturbo.

Fin dalla sua prima descrizione dell'autismo, sia Leo Kanner (1943) sia Hans Asperger (1944) avevano intuito che si trattava di una sindrome dovuta a una condizione organica. A differenza di Asperger, Kanner ha successivamente ipotizzato che l'autismo fosse provocato da cause psicodinamiche.

Vi è tuttora, seppur in termini molto diversi rispetto alle originarie teorie di Kanner, una linea di riflessione sulle ipotetiche ed eventuali concause psicologiche dell'autismo, intese nel senso che, sulla base comunque di predisposizioni genetiche e col concorso di altri fattori ambientali o neurologici, eventuali fattori psicologici o relazionali potrebbero avere un ruolo complementare nell'attivazione dei disturbi dello spettro autistico.

Nel 1943 Leo Kanner aveva descritto per primo la sindrome autistica su una rivista medica specializzata, ritenendola una patologia neurologica (organica): nei mesi successivi da tutti gli Stati Uniti d'America vennero a consulto da lui alcune decine di famiglie con un bambino corrispondente alla descrizione che egli aveva fatto dell'autismo.

Kanner osservò che si trattava di famiglie della media e alta classe borghese, con una madre acculturata e spesso "in carriera", e ritenne che fossero queste le caratteristiche e quindi le cause di tutti i casi di autismo; sottovalutando il fatto che soltanto persone afferenti a classi socioeconomiche più alte potevano riferirsi a lui, poiché avevano avuto notizia del suo articolo e perché avevano i mezzi per pagare le relative, ingenti, spese sanitarie.

Successivamente lo stesso Kanner si accorse che l'autismo era diffuso in maniera eguale anche nelle classi più povere, e nel 1969, durante la prima assemblea della National Society for Autistic Children (oggi Autism Society of America), riconobbe i limiti della sua ipotesi esplicativa, riducendo così lo stigma che si era creato in merito all'eccessiva responsabilizzazione dei genitori in ordine all'insorgenza del disturbo. Kanner lasciò l'eredità della direzione della rivista sull'autismo da lui fondata (il Journal of Autism) al professor Eric Schopler, che fra i primi si era accorto dei notevoli limiti esplicativi della sua ipotesi originale.

Dal 25 ottobre 2011 è stata pubblicata dall'Istituto superiore di sanità la Linea guida n. 21, nella versione estesa e anche in quella ridottissima per il pubblico. Vi si trovano tutte le indicazioni degli interventi che sono stati dimostrati efficaci (come ad esempio quelli basati su ABA) e anche quelli sconsigliati perché rischiosi, come ad esempio la chelazione, la secretina e gli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.

Sulla base di questo errore di Kanner si era basata l'iniziale ipotesi che il bambino affetto da autismo fosse neurologicamente sano, e che la causa dell'autismo fosse individuabile solo in un ipotetico "rapporto inadeguato" con la madre. Per circa un ventennio questa ipotesi, oggi ritenuta scorretta, ha dominato la scena clinica internazionale, indirizzando spesso bambini e nuclei famigliari esclusivamente verso trattamenti di dubbia utilità terapeutica nel trattamento diretto dell'autismo. Gli psichiatri Bettelheim e Tustin (della Tavistock Clinic di Londra) sono stati tra i principali esponenti di questo approccio derivato dalle riflessioni di Kanner, che diffusero a livello internazionale, e ormai considerato desueto.

A. Freud e S. Dann (1951), con un'indagine su alcuni bambini sopravvissuti ai Campi di concentramento nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale, avevano dimostrato che neppure quelle condizioni estreme di privazione di affetto potevano indurre la patologia autistica.

Anche l'osservazione dei dati epidemiologici, che rileva spesso più di un caso fra i membri di una stessa famiglia, e una forte sproporzione nella prevalenza dell'autismo nei maschi (3 o 4 volte superiore rispetto alle femmine, dato che diventa addirittura 20 volte superiore per la sindrome di Asperger), fornisce elementi a conferma del fatto che l'autismo è generato da altre cause, diverse dall'inadeguatezza dell'amore materno.

Allo stesso modo, Asperger quasi contemporaneamente a Kanner aveva descritto dei soggetti affetti da disturbi dello spettro autistico (nella forma clinica che da lui prese il nome di Sindrome di Asperger), indicando correttamente il cammino per identificarne le possibili cause, e sottolineando la rilevanza di effettuare interventi di abilitazione-riabilitazione delle capacità residue (da lui chiamato "pedagogia curativa").

Quando le ricerche epidemiologiche e l'osservazione scientifica hanno rilevato con chiarezza che alla base della sindrome autistica c’è un deficit neurologico, molti genitori hanno cominciato disperatamente a ricercare supposti rimedi farmacologici e dietetici. Il desiderio di guarire induce molti genitori a scambiare per risultati positivi di farmaci e diete quelle variazioni positive dello stato di salute che potrebbero essere ottenute anche mediante il placebo, il finto farmaco.



Su questo terreno giocano molti "venditori di illusioni" o di trattamenti pseudoscientifici, che, a volte approfittando dell'angoscia delle famiglie, propongono "cure nuove e miracolose", ma in realtà del tutto prive di effetti verificabili, o fanno pagare come "cura" ciò che al massimo, e solo a volte, potrebbe essere ritenuta solo un'ipotesi di ricerca.

La psicoanalisi classica è stata accusata di colpevolizzare le figure genitoriali, in particolare quella femminile definita madre frigorifero, attribuendo la causa della sindrome a un disturbo dei rapporti primari con chi assume il ruolo di accudimento (lavoro di cura).

Bettelheim giunse anche a proporre come "terapia riabilitativa" il distacco dal nucleo familiare, la cosiddetta "parentectomia":

« "Fino a non molti anni fa c'era chi, guidato dalla teoria psicogenica che attribuiva ai genitori la responsabilità dell'autismo, consigliava l'allontanamento dei bambini dalle loro famiglie. Con la confutazione di questa teoria, e bandite le ingiuste accuse ai genitori, sono scomparsi anche gli "allontanamenti terapeutici", e i genitori sono ora visti dai medici e dagli psicologi come una risorsa di grande valore non solo nella fase diagnostica, ma anche in quella riabilitativa" (Surian, 2005).»
Tale vecchio modello esplicativo e terapeutico è divenuto bersaglio di critiche e ostracismi, prima in America e poi in Europa, anche per via della progressiva maggiore diffusione di teorie biologiche nell'etiopatogenesi dei disturbi mentali rispetto alle teorie psicogene che avevano dominato il campo in precedenza.

Allo stato attuale, la questione del rapporto tra "psicoanalisi" e autismo (e, più in generale, psicologia e autismo) è complessa, ma le classiche contrapposizioni dicotomiche non rappresentano lo stato dell'arte della riflessione attuale sui rapporti tra scienze psicologiche e disturbi dello spettro autistico.

In primo luogo, non si deve erroneamente confondere la più ampia psicologia clinica con la psicoanalisi (la quale è un particolare indirizzo teorico della psicoterapia, che è a sua volta una parte della psicologia clinica); quelle contestate sono inoltre alcune vecchie ipotesi interpretative della psicoanalisi di più di mezzo secolo fa.

Al contrario, la ricerca e l'intervento in psicologia clinica dello sviluppo ha prodotto invece una significativa quantità di dati scientifici verificati sui vari aspetti della genesi, della valutazione clinica, delle caratteristiche funzionali e delle possibili linee di intervento riabilitativo e di sostegno nei confronti dei soggetti autistici e delle loro famiglie.

In secondo luogo, la stessa psicoanalisi, in parallelo al suo sviluppo clinico e teorico, ha abbandonato molte delle sue originali ipotesi in merito di cinquanta anni fa, revisionando significativamente le vecchie ipotesi sul ruolo dei genitori nella genesi dei disturbi dello spettro autistico.

In effetti, una grande quantità di ricerche, da John Bowlby in poi, ha mostrato come l'ambiente familiare influenzi grandemente lo sviluppo e le caratteristiche dei figli, malati e non, e come le dinamiche familiari e le relazioni genitori-figli possano essere soggette a disfunzioni, divenendo fonte di malesseri e gravi disagi.

Internet ha aiutato gli individui autistici a superare l'ostacolo della mancata percezione dei segnali non verbali e dello scambio emozionale che trovano così difficile da gestire, ed ha dato loro un modo per formare comunità in rete e lavorare da remoto. Aspetti sociologici e culturali dell'autismo si sono sviluppati: alcuni nella comunità cercano cure, mentre altri credono che la neurodiversità autistica è semplicemente un altro modo di essere.

Ci sono ancora molte incertezze sulla classificazione del disturbo, e soprattutto sulle sue cause. Il DSM V, l’ultima edizione del manuale che definisce i disturbi mentali, parla di disturbi dello spettro autistico per descrivere i diversi gradi di gravità in cui si può presentare. La sindrome di Asperger, per esempio, definita da Hans Asperger un anno dopo la definizione di autismo, non viene più considerata come avveniva fino all'edizione precedente una forma separata, bensì una forma lieve di autismo senza compromissione del linguaggio e senza ritardo mentale.

I sintomi dell'autismo compaiono di solito prima dei tre anni, riguardano inizialmente difficoltà di linguaggio e di comunicazione, e un'apparente difficoltà di contatto emotivo, sia con i genitori sia con i coetanei, ma le sfumature e i quadri di presentazione possono essere anche assai diversi, il che rende spesso anche assai difficoltosa la diagnosi.



Negli anni scorsi si è spesso parlato di un forte aumento dei casi di autismo, addirittura di un'epidemia in corso: alcune indagini effettuate nei paesi anglofoni avevano evidenziato un forte aumento del numero di casi nella popolazione. In realtà, quei numeri sono stati molto ridimensionati e si sospetta che, più che un aumento dei casi, riflettano un aumento delle diagnosi, dovuto a una maggiore consapevolezza  e sensibilizzazione sul disturbo. Oggi si stima che in Italia una prevalenza attendibile del disturbo (sono poche regioni a raccogliere in maniera sistematica dati sui casi) sia di circa quattro su mille bambini, con il disturbo che colpisce, per ragioni ignote, i maschi 3 o 4 volte più che le femmine.

Nonostante le ripetute smentite da parte della comunità scientifica, da anni continuano a circolare le voci che a causare l’autismo possano essere alcune vaccinazioni di età pediatrica, voci alimentate da una gran confusione. In un caso, sotto accusa c'è stato il vaccino contro il morbillo, ed è stato dimostrato che si trattava di una vera e propria bufala: falsificando i dati, un medico inglese era riuscito a pubblicare su una rivista scientifica autorevole l’ipotesi che il vaccino, che contiene il virus vivo attenuato, potesse provocare dei disturbi intestinali caratteristici e l’autismo.

Sul banco degli accusati è finito anche il tiomersale, un eccipiente a base di mercurio che veniva usato per garantire la sterilità e la conservazione del prodotto, e che è stato tolto dai vaccini nel 1992, non perché si sia dimostrato dannoso ma per principio di cautela: in ogni caso, moltissimi studi lo hanno scagionato dai sospetti.
Sulle cause del disturbo c’è ancora molta incertezza. Si ritiene che ci sia una componente genetica, e i dati più recenti suggeriscono con sempre più forza la possibilità di un danno organico che si verifica nelle fasi di sviluppo del sistema nervoso. Uno studio ha per esempio osservato alcune anomalie nel cervello di alcuni bambini (in particolare nell’architettura di alcune aree della corteccia) affetti da autismo, che farebbero propendere sempre di più verso l’idea che si verifichino dei problemi durante lo sviluppo fetale.

Le terapie considerate più utili sono quelle di tipo comportamentale per migliorare la socialità dei bambini, e lo sviluppo della loro autonomia nella vita quotidiana, specialmente se vengono intraprese precocemente.

Nella ricerca, grande attenzione si sta concentrando in questi ultimi anni sul ruolo dell’ossitocina, il cosiddetto “ormone dell’amore”, implicato nella modulazione di vari aspetti del comportamento sociale, per esempio nel comportamento materno e nello stabilirsi del legame tra madre e bambino, e  se ne fa un gran parlare come possibile trattamento dei disturbi autistici. E in sperimentazione ci sono alcuni spray nasali a base di ossitocina per migliorare le abilità sociali dei bambini e degli adulti affetti dal disturbo.

Un recente commento sulla rivista Science frena gli entusiasmi: benché promettenti, queste ricerche sono ancora molto preliminari, e neppure il ruolo dell’ossitocina nell’autismo (se davvero i livelli siano più bassi in chi ne soffre) è così chiaro.

Circa il 50% dei soggetti con autismo non acquisisce, o molto limitatamente, capacità di espressione mediante canale verbale tuttavia gli studi longitudinali, più recenti, individuano una percentuale inferiore al 20%. I soggetti che sono in grado di utilizzare il linguaggio si esprimono in molte occasioni in modo bizzarro; spesso ripetono parole, suoni o frasi sentite pronunciare (ecolalia). L'ecolalia può essere immediata (ripetizione di parole o frasi subito dopo l'ascolto), oppure ecolalia differita (ripetizione a distanza di tempo di frasi o parole sentite in precedenza). Anche se le capacità imitative sono integre, queste persone spesso hanno notevoli difficoltà a impiegare i nuovi apprendimenti in modo costruttivo a situazioni diverse da quelle che li hanno generati in prima istanza.

Gli autistici mostrano un'apparente carenza di interesse e di reciprocità relazionale con gli altri; tendenza all'isolamento e alla chiusura sociale; apparente indifferenza emotiva agli stimoli o, al contrario, ipereccitabilità agli stessi; difficoltà a instaurare un contatto visivo diretto: il bambino autistico che intorno ai due anni di età continui a evitare lo sguardo degli altri mostra, secondo diversi studi, una maggiore disabilità sociale in futuro.

Gli autistici hanno difficoltà nel cominciare una conversazione o a rispettarne i "turni", oltre a difficoltà a rispondere alle domande e a partecipare alla vita o ai giochi di gruppo. Non è infrequente che bambini affetti da autismo vengano inizialmente sottoposti a controlli per verificare una sospetta sordità, dal momento che non mostrano apparenti reazioni (proprio come se avessero problemi uditivi) quando vengono chiamati per nome.

Di solito un limitato repertorio di comportamenti viene ripetuto in modo ossessivo; si possono osservare posture e sequenze di movimenti stereotipati (per es. torcersi o mordersi le mani, sventolarle in aria, dondolarsi, compiere complessi movimenti del capo, ecc.) detti appunto stereotipie. Queste persone possono manifestare eccessivo interesse per oggetti o parti di essi, in particolare se hanno forme tondeggianti o possono ruotare (palle ovali, biglie, trottole, eliche, ecc.). Talvolta la persona affetta da autismo tende ad astrarsi dalla realtà per isolarsi in una sorta di "mondo virtuale", in cui si sente di vivere a tutti gli effetti (dialogando talora con personaggi inventati). Pur mantenendo in molti casi la consapevolezza del proprio fantasticare, è con fatica e solo con delle sollecitazioni esterne (suoni improvvisi, richiami di altre persone) che riesce a essere in varia misura partecipe nella vita di gruppo.

In alcuni soggetti, si riscontra una marcata resistenza al cambiamento, che per alcuni può assumere le caratteristiche di un vero e proprio terrore fobico. Questo può accadere se viene allontanato dal proprio ambiente (camera, studio, giardino, ecc.), o se nell'ambiente in cui vive si cambia inavvertitamente la collocazione di oggetti, del mobilio o comunque l'aspetto della stanza.

Lo stesso può verificarsi se si lasciano in disordine oggetti (sedie spostate, finestre aperte, giornali in disordine): la reazione spontanea della persona autistica sarà quella di riportare immediatamente le cose al loro ordine o, se impossibilitato a farlo, manifestare comunque inquietudine. La persona può allora esplodere in crisi di pianto o di riso, o anche diventare autolesionista e aggressiva verso gli altri o verso gli oggetti. Altri soggetti, al contrario, mostrano un'eccessiva passività, aprassia motoria e ipotonia, che sembra renderli impermeabili a qualsiasi stimolo.



Il soggetto manifesta un forte desiderio di ripetitività (Kanner), esternato mediante stereotipie verbali e nei movimenti ed accompagnato da una forte ansia. Ad esempio, il paziente può sentire la necessità di compiere un rito d'inizio/fine ogniqualvolta deve andare dal medico. Spesso, impedirgli di soddisfare tale bisogno, può scatenare scatti di ira e aggressione.

La gravità e la sintomatologia dell'autismo variano molto da individuo a individuo e tendono nella maggior parte dei casi a migliorare con l'età, in particolare se il ritardo mentale è lieve o assente, se è presente il linguaggio verbale, e se un trattamento terapeutico valido viene intrapreso in età precoce.

L'autismo può essere associato ad altri disturbi, ma è bene sottolineare che esistono gradi di autismo differenti tra loro. Alcune persone autistiche possiedono per esempio una straordinaria capacità di calcolo matematico, sensibilità musicale, eccezionale memoria audio-visiva o altri talenti in misura del tutto fuori dell'ordinario, come ad esempio la capacità di realizzare ritratti o paesaggi molto fedeli su tela senza possedere nozioni tecniche di disegno o pittura.

Molti pregiudizi accompagnano la sindrome autistica. Uno dei più diffusi è quello che vorrebbe che questi bambini non provassero o provassero solo in modo modesto le emozioni. Ciò non è assolutamente vero , in quanto in queste patologie ritroviamo invece alti livelli di ansia, numerose angoscianti paure, unite spesso a manifestazioni di rabbia e collera. La presenza di un mondo interiore emotivamente molto disturbato si rende evidente già dai racconti e dai disegni che, a volte, questi bambini riescono a costruire. Racconti e disegni nei quali predominano temi angoscianti, cruenti, raccapriccianti o coprolalici. La Grandin T. una donna con autismo ad alto funzionamento, nel suo racconto-saggio “Pensare in immagini” così descrive le sue emozioni: “Alcuni ritengono che le persone con autismo non abbiano emozioni. Io ne ho eccome, ma sono più simili alle emozioni di un bambino che a quelle di un adulto”.

Per quanto riguarda l’ansia, questa emozione, nelle forme lievi di autismo, si esprime soprattutto con sintomi come la labilità dell’attenzione, l’iperattività, l’ipercinesia, la notevole reattività anche alla piccole frustrazioni. In queste forme, quando il bambino desidererebbe fare amicizia con i coetanei, l’ansia e l’eccitamento interiore inficiano gravemente le sue capacità relazionali, per cui, nei rapporti con i coetanei, poiché il bambino non ha la serenità necessaria per ascoltare l’altro, accettandone i bisogni e i desideri, è spesso respinto e rifiutato. Nelle gravi forme di autismo, nonostante l’ansia sia mascherata da sintomi più gravi come le stereotipie, l’apparente apatia e indifferenza, la si può evidenziare facilmente nelle imprevedibili, improvvise e frequenti, oscillazioni dell’umore e nelle crisi acute di angoscia, provocate da minime frustrazioni. Inoltre, in molti casi, questa penosa emozione riesce a sconvolgere l’organizzazione strutturale del pensiero con alterazioni del linguaggio che può diventare slegato e incoerente.

Quando il bambino è messo di fronte ad alcuni particolari situazioni, oggetti e stimoli tattili, visivi o uditivi, o quando deve affrontare minimi cambiamenti del mondo che lo circonda, le paure possono manifestarsi anche in modo drammatico, con urla e atteggiamenti scomposti.La GRANDIN T. così descrive le sue paure: “I problemi di una persona come questa sono ulteriormente complicati da un sistema nervoso che è spesso in uno stato di maggiore paura e panico”. “Poiché la paura era la mia emozione principale, essa si riversava in tutti gli eventi che avessero un qualche significato emozionale”. “Fin dalla pubertà avevo vissuto paure e ansie costanti, accompagnate da forte attacco di panico, che si presentavano a intervalli variabili, da poche settimane a diversi mesi. La mia vita si basava sul fatto di evitare le situazioni che potevano scatenare un attacco di panico”. ”Con la pubertà la paura divenne la mia principale emozione”.

Frequenti sono, in questi bambini, gli scoppi di rabbia con conseguente collera, che si rendono evidenti mediante le manifestazioni aggressive verso gli oggetti, le altre persone ma anche verso se stessi. Ciò avviene soprattutto quando il bambino avverte che il mondo fuori di lui manifesta scarso rispetto nei confronti delle sue paure, delle sue ansie o dei suoi bisogni più veri e profondi, Per fortuna, quando l’ambiente che lo circonda diventa pienamente e totalmente rispettoso dei suoi bisogni e desideri, ad esempio quando attua costantemente la tecnica del gioco libero autogestito, insieme alla diminuzione della sofferenza e del turbamento interiore, rabbia e collera regrediscono, mentre contemporaneamente sfumano anche tutti gli altri sintomi.

Non sempre è possibile evidenziare queste due emozioni in quanto a volte, e in alcuni bambini, si presentano in modo eccessivo e abnorme, mentre in altri soggetti o in altri momenti non sempre sono evidenti, in quanto mascherate da espressioni mimiche non congruenti. Pertanto un’espressione facciale sempre uguale o atteggiamenti con manifestazioni di riso eccessivo e sboccato, possono nascondere una grande tristezza e angoscia o, al contrario momenti di vera serenità e gioia. Nonostante ciò quando gli adulti, siano essi genitori, insegnanti od operatori, riescono a mettersi in ascolto delle emozioni più profonde del bambino, senza essere distratti dai suoi comportamenti e dalle manifestazioni emotive più superficiali o estreme, non è poi così difficile cogliere le sue vere emozioni così da comportarsi conseguentemente.  

Il mondo interiore dei bambini affetti da autismo è non solo notevolmente disturbato dall’ansia, dalla tristezza, dalle fobie e dalle paure e dall’abnorme stato di eccitamento, ma è anche alterato a causa della  notevole sfiducia e diffidenza verso il mondo che li circonda. Questo è  avvertito frequentemente come cattivo, infido, incoerente e apportatore di continue angosciose frustrazioni. Pertanto, mentre i bambini normali sono lieti di avere accanto a sé qualcuno: la mamma, il papà, i nonni. I compagni o gli insegnanti, disposti ad aiutarli, proteggerli e confortarli, nelle piccole, come nelle grandi difficoltà della vita, i bambini affetti da autismo si ritrovano soli. Soli ad affrontare le loro dolorose emozioni, soli in un mondo dal quale non si sentono capiti e accettati; e ciò li costringe sempre di più alla chiusura (autismo).

In numerosi paesi, psicologi e psicoterapeuti (prevalentemente a orientamento cognitivo, ma anche sistemico o psicodinamico) sono coinvolti nell'intervento clinico nelle situazioni di autismo, così come di altri tipi di disturbi dello sviluppo: non tanto nel senso del vecchio tipo di intervento psicoanalitico diretto solo al bambino, ma anche e soprattutto nelle forme di sostegno psicoeducativo per il bambino, dell'aiuto alla famiglia per sostenerla e diminuirne possibili aspetti disfunzionali, nella valutazione clinica del disturbo e dei suoi correlati funzionali, oltre che nel lavoro di collaborazione con educatori, riabilitatori e insegnanti per accompagnare utilmente bambino e famiglia nella riabilitazione cognitiva e comunicativa, nel supporto psicopedagogico, nell'intervento clinico sui problemi del comportamento, e nel sostegno ai processi di sviluppo psicoaffettivo, integrando una serie di interventi multidimensionali in quella che è una situazione clinica complessa.

Tra le tipologie di intervento psicologico più diffuse e potenzialmente efficaci nella gestione clinica del disturbo e nella riduzione delle sue conseguenze funzionali, vi sono le logiche Applied behavior analysis (ABA) (tra cui si ricorda l'Early Intensive Behavioural Intervention (EIBI), ideato dal professor Ole Ivar Lovaas della UCLA), il metodo TEACCH, e gli approcci cosiddetti "Eclettici". Recenti review hanno evidenziato tassi complessivi di efficacia piuttosto simili tra i vari approcci; in ogni caso, le tipologie di intervento clinico maggiormente utili sono solitamente di tipo intensivo, dovrebbero essere avviate il più precocemente possibile, e necessitano di essere proseguite per periodi di tempo piuttosto prolungati.





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lunedì 23 novembre 2015

L'OMEOPATIA



La storia dell’Omeopatia nasce con Christian Friederich Samuel Hahnemann, nato a Meissen, in Germania il 10 aprile 1755 da una modesta famiglia (il padre fa il decoratore di porcellane), grazie ad una buona borsa di studio può frequentare la prestigiosa scuola di Saint Afra a Meissen.
Appassionato di medicina si iscrive a vent’anni all’università di Lipsia. Si paga gli studi insegnando lingue ad un giovane nobile e traducendo opere mediche straniere. Insoddisfatto degli studi, due anni dopo si trasferisce a Vienna per apprendere la pratica clinica. Frequenta l’ospedale di Leopoldstadt diretto dal prof. Quarin, medico dell’imperatrice Maria Teresa.
Hahnemann comincia anche ad essere conosciuto per le pregevoli traduzioni di testi medici. Con i guadagni ottenuti riesce a portare a termine gli studi nell’Università di Erlangen, in Baviera, dove consegue la laurea in medicina il 10 agosto 1779.
E’ a Dessau, un centro minerario, dove apre lo studio nel 1781, che conosce Henriette Kuckler, la figliastra del farmacista del luogo. La sposa nel 1787, da lei avrà undici figli. Esercita, come medico condotto, a Gommern, nel Magdeburgo. Più tardi diviene assistente nell’ospedale di Dresda. Ormai affermato si trasferisce a Lipsia. Oltre che alla medicina, si dedica allo studio della filosofia con grande ammirazione per Kant. Viene nominato membro dell’Accademia delle Scienze di Magonza e della Società Economica di Lipsia. Conosce illustri personaggi quali il clinico Hufeland.
Hahnemann si trova ad esercitare la professione in un secolo nel quale se da un lato imperano i salassi, dall’altro artisti e letterati lanciano strali contro i medici ed i loro modi di applicare la medicina. Dice Voltaire: “Il medico cura, con farmaci che non conosce, un individuo che conosce ancora di meno” , ed anche “Il medico intrattiene il malato, la natura lo cura”. Hahnemann, nonostante il prestigio raggiunto, si sente insoddisfatto. E’ critico verso la mentalità medica del tempo e verso se stesso. Rifiuta una medicina che guarda solo ai sintomi e dimentica l’uomo. Così, in preda ad una profonda crisi di coscienza, decide di lasciare la professione. Cade presto in miseria. Conoscendo bene diverse lingue, per mantenere la numerosa famiglia si dedica alle traduzioni. E’ il 1790. Mentre traduce la “Materia Medica” di Cullen, noto tratto di clinica medica dell’epoca, ha modo di fare un’interessante osservazione. I lavoratori del chinino, sempre a contatto con l’estratto della corteccia di china, presentano sintomi psicofisici simili a quelli della malaria. Apparentemente paradossale, questo fatto stimola la mente acuta di Hahnemann. Aperto a nuove idee e lontano dall’immobilismo medico dominante, comincia a sperimentare su se stesso gli effetti del chinino. Lo assume in forti dosi, somministrandolo in seguito anche a familiari ed amici in buone condizioni si salute. I risultati sono indubbi. A due ore circa dall’assunzione compare una febbre intermittente con un insieme di sintomi psicofisiche ricordano il quadro della malaria. I sintomi scompaiono in maniera graduale, interrompendo la somministrazione. Sperimenta nello stesso modo molte altre sostanze arrivando alle medesime conclusioni: un malato si può curare utilizzando la sostanza in grado di indurre gli stessi sintomi, se somministrata in un soggetto sano. Un intuizione geniale. Hahnemann getta le basi della medicina omeopatica, fondata sulla “legge dei simili”. E’ l’antico principio “similia, similibus, curenter”, enunciato da Ippocrate agli albori della storia della medicina.
Solo dopo molti anni di studio, nel 1810, Hahnemann pubblica l’Organon in cui codifica i principi dell’omeopatia. Questa nuova metodologia medica trova fin dalle origini, ostinati oppositori ma anche convinti assertori. Nel 1820 viene fondata la Società dei medici omeopatici. Hahnemann, dopo l’Organon pubblica la Materia medica pura (1820) ed il Trattato sulle malattie croniche (1828).
Nel corso degli anni, per la sua diversa visione della medicina, apprezzato da molti, ma boicottato dall’ufficialità scientifica, è costretto a spostarsi in vari paesi d’Europa, finché si trasferisce a Kothen. Qui nasce il primo Giornale di medicina omeopatica.
Nel tempo molti lutti colpiscono la sua famiglia. Nel 1831 muore la moglie e, prima ancora, quasi tutti i figli. Nel 1834 vive ormai solo, con due figlie: si impegna sempre di più nel lavoro e cerca conforto nella Fede per riuscire a sopportare i tanti dispiaceri.
Nell’ottobre 1834 compare nella sua vita Mélanie d’Hervilly, una giovane francese di origine aristocratica. Ha 34 anni e vive a Parigi.
Mélanie è probabilmente affetta da una pleurite di natura tubercolare. Avendo sentito parlare dell’omeopatia, per curarsi decide di andare proprio alla fonte. Parte, allora per Kothen. Hahnemann, circa 80 anni, la visita accuratamente e promette di guarirla. Il miglioramento inizia dopo poco tempo. Hahnemann s’innamora della paziente e le chiede di sposarlo. Lei accetta. Una volta guarita, Mèlanie sente il dovere di diffondere l’omeopatia in Francia. Propone quindi ad Hahnemann di partire con lei per Parigi dove giungono il 21 giugno 1835. Hahnemann visita ed insegna. In Francia viene fondata la “Società di omeopatia”. Nascono anche Il Giornale di medicina omeopatica e Gli Archivi di medicina omeopatica. Cominciano invidie e rancori. L’Accademia di medicina cerca di interdire l’omeopatia ma Guizot, ministro di Luigi Filippo, si oppone.
Hahnemann continua a lavorare per otto anni. Tutte le mattine, dalle otto alle dieci, visita i poveri. Poi riceve i pazienti, che lo raggiungono un po’ da tutto il mondo. Molti sono anche celebri: David, Balzac, Paganini, lo scrittore teatrale Legouvé (di cui guarisce la figlia, data ormai per spacciata), il pianista Kalkbrenner, l’attrice americana Anna Cora Mowatt, il barone James Rothschild.
Il 2 luglio 1843, all’età di 88 anni, Hahnemann muore per una broncopolmonite. Sono le cinque di mattina. Lo assistono Mèlanie e Croserio, il suo medico. Il funerale è semplice, come lui desiderava. Viene sepolto al Père Lachaise, il cimitero monumentale di Parigi, dove ora riposa accanto a Mélanie.



Allo stato attuale, nessuno studio scientifico pubblicato su riviste mediche di valore riconosciuto ha potuto dimostrare che l'omeopatia presenti, per una qualsiasi malattia, un'efficacia clinica che sia superiore all'effetto placebo. Inoltre l'omeopatia viene rifiutata dagli scienziati per la sua debolezza teorica (cioè l'incompatibilità dei suoi postulati con le odierne conoscenze chimiche) e per la mancanza di un meccanismo plausibile che ne possa spiegare il funzionamento. Per l'insieme di queste ragioni l'omeopatia è stata definita una pseudoscienza.

L'opinione non dimostrata degli omeopati, contraria all'evidenza scientifica in campo chimico, biologico e farmacologico, è che diluizioni maggiori della stessa sostanza non provocherebbero una riduzione dell'effetto farmacologico, bensì un suo ipotetico potenziamento. In realtà le diluizioni usate nell'omeopatia sono tanto alte da rendere il prodotto omeopatico semplicemente composto dall'eccipiente usato per la diluizione (acqua o zucchero o amido o altro solvente).

Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità l'omeopatia non è una cura e non apporta alcun beneficio. Uno studio australiano condotto nel 2014 non ha riscontrato in essa alcuna efficacia superiore al semplice effetto placebo.

Il 13 marzo 2003 il Tribunale penale di Catania ha assolto il giornalista Piero Angela dall'accusa di diffamazione per avere sostenuto in una puntata della trasmissione Superquark andata in onda nel 2001 che «l'omeopatia non è una cosa seria. Il rischio di curarsi con tale medicina non convenzionale è molto grande per i pazienti che hanno malattie gravi e soprattutto progressive».

I principi dell'omeopatia sono contenuti nelle opere di Samuel Hahnemann (1755-1843) e in particolare nell'Organon der Heilkunst, il suo testo teorico principale, edito nel 1810.

Nell'opera di Hahnemann il concetto di Lebenskraft (già espresso in termini di Entelechia e Dynamis nella filosofia aristotelica) è fondamentale. La forza vitale anima tutti gli esseri viventi e li rende capaci di sentire, di svolgere una funzione, una attività e di sostenersi.

Il concetto di Lebenskraft era tutt'altro che poco diffuso nella pratica medica dell'Europa del XIX secolo. Erano diversi ed illustri i medici che ad esso si riferivano per le loro pratiche farmacologiche e molti condividevano con Hahnemann la convinzione che la materia morbosa non fosse altro che una conseguenza di cause prime, ma giustificavano l'utilizzo di rimedi deplettivi ed evacuativi perché essi avrebbero imitato ed aiutato il normale agire della forza vitale, della vis medicatrix naturae.

Hahnemann replicò che in questo modo non fa che appoggiare una forza vitale in disequilibrio, peggiorando solo la situazione con rimedi inefficaci, debilitanti e dannosi. La causa ultima del disequilibrio spirituale o dinamico della forza vitale, secondo Hahnemann, non è conoscibile. La malattia si manifesta in una totalità di sintomi e segni mentali e corporei, avvertiti dal paziente, da chi lo circonda e dal suo medico, che sono specifici per ogni individuo; tutto il resto non conta, dato che non è conoscibile. Compito dell'omeopata era di riattivare e riordinare la forza vitale individuale, e questa riattivazione è ottenuta attraverso la somministrazione del rimedio che è stato scelto, attraverso un processo scientifico e sistematico, perché coincide, nella sua azione, con il maggior numero possibile di sintomi e segni (legge dei simili). Questo rimedio viene somministrato in dosi infinitesimali e opportunamente dinamizzate tramite un procedimento detto "succussione".

Le critiche che furono mosse dai suoi contemporanei alla teoria omeopatica non si concentrarono molto sulla legge dei simili. Molti medici credevano che essa fosse applicabile, solo non credevano fosse l'unico criterio terapeutico applicabile.

Altri punti della teoria furono più aspramente dibattuti: il vitalismo spinto di Hahnemann, secondo i suoi detrattori, spiegava tutto e niente; il riconoscere come rilevanti solo i sintomi esperiti dal paziente riduceva la malattia ad uno stato puramente soggettivo; la negazione delle cause materiali della malattia andava contro a convinzioni forti sulla natura della malattia; il metodo del proving veniva considerato soggettivo e troppo dipendente dalla dirittura morale delle persone testate; inoltre non teneva abbastanza conto del fatto che persone diverse possono avere reazioni individuali diverse allo stesso rimedio (Hahnemann, in realtà, riconobbe il problema, ma dichiarò che si potevano sempre riconoscere dei sintomi universalizzabili); secondo il metodo del proving tutti i sintomi che appaiono dopo l'ingestione del rimedio sono dovuti al rimedio, e questo porta ad un proliferare dei sintomi.



Nel 1828 Hahnemann pubblicò un tomo in più volumi (Le malattie croniche), nel quale enunciava un ulteriore pilastro teorico dell'omeopatia, basato sulla teoria del miasma, che fu presto ridicolizzato dai suoi contemporanei e non ebbe molta fortuna nemmeno tra gli omeopati. Nel testo egli infatti scrive che, eccettuate sifilide e sicosi (un tipo di lesione virale venerea), tutte le malattie croniche sono prodotte dalla psora, miasma fondamentale, e quindi la cura per malattie diverse quali gotta, asma, isteria, paralisi, ecc. era sempre un rimedio anti-psora.

Il concetto di "forza vitale", almeno così come esso è espresso nell'Organon di Hahnemann, entrò gradualmente in crisi con il grande progresso che lo studio delle scienze naturali compì in quegli stessi anni. Con l'avvento del microscopio nacque la biologia cellulare e l'osservazione diretta di alcuni fenomeni fondamentali, che avvengono all'interno degli esseri viventi, facilitò la comprensione di alcune malattie comuni, sebbene fosse ancora lontana la scoperta del batterio, inteso come agente patogeno. Venne compreso il ruolo importante svolto dal sistema circolatorio e l'idea di una forza vitale immateriale, disgiunta dal corpo, perse inevitabilmente e inesorabilmente di importanza.

Il concetto di Lebenskraft però subì una interessante modifica nel corso del ventesimo secolo, quando, soprattutto per opera di alcuni importanti omeopati tedeschi, esso venne completamente riformulato e trasformato nel "principio vitale" (Lebensprincip).

Il "principio vitale" venne questa volta posto in relazione con la capacità del corpo di controllare e regolare le sue funzioni; l'omeopatia pertanto curava, nella concezione degli omeopati tedeschi, i disturbi del sistema di regolazione, inteso ad esempio come disturbi del sistema immunitario, del sistema di regolazione della temperatura e del sistema nervoso centrale. La sostanza omeopatica sarebbe stata quindi in grado di correggere questi disturbi e la reazione dei vari sistemi, indotta dalla sostanza, avrebbe costituito la vera risposta farmacologica alla patologia. Ne consegue quindi che per l'omeopatia contemporanea, o comunque quella di tradizione tedesca, non tutte le patologie sono risolubili omeopaticamente, bensì solo quelle che derivano dall'alterazione o dal malfunzionamento dei vari sistemi di regolazione e difesa del corpo.

La tradizione omeopatica successiva (ad esempio con lo statunitense James Tyler Kent) ha dato molto risalto alla dimensione psicologica della malattia.

I rimedi sono elencati nella materia medica, che illustra per ogni sostanza i sintomi corrispondenti. Il repertorio elenca invece per ogni sintomo le sostanze. Per esempio il repertorio di Kent (1905) comprendeva circa 700 sostanze. Oggi l'omeopatia impiega circa 5000 rimedi, di cui 150 usati comunemente. I rimedi vengono sperimentati da persone sane, le quali registrano accuratamente i sintomi fisici e psicologici riconducibili alla loro assunzione. I repertori omeopatici registrano successivamente anche i risultati della pratica clinica, dei quali viene spesso messa in dubbio la genuinità.

La diluizione, concetto fondamentale e sul quale si appuntano le critiche maggiori, viene detta in omeopatia "potenza". Le potenze sono in realtà diluizioni 1 a 100 (potenze centesimali o potenze C o anche CH) o diluizioni 1 a 10 (potenze decimali o potenze D o anche DH). In una diluizione C una parte di sostanza viene diluita in 99 parti di diluente e successivamente "dinamizzata", ovvero agitata con forza secondo un procedimento chiamato dagli omeopati "succussione"; in una diluizione D, invece, una parte di sostanza viene diluita in 9 parti di diluente e sottoposta poi alla stessa dinamizzazione.

I solidi insolubili vengono sminuzzati e diluiti un certo numero di volte con zuccheri (ad esempio lattosio) e successivamente diluiti in acqua.

Ogni sostanza omeopatica pronta per l'impiego riporta il tipo di diluizione e la potenza. Ad esempio, in un rimedio con potenza 12C la sostanza originaria è stata diluita per dodici volte, ogni volta 1 a 100, per un totale di una parte su 10012 (=1024).

Una potenza 12D, utilizzata abbastanza comunemente in omeopatia, equivale invece ad una soluzione nella quale la concentrazione è una parte su un milione di milioni (1012), che equivale ad esempio ad un millimetro cubo su mille metri cubi.

Numerosi preparati omeopatici sono diluiti a potenze ancora maggiori, in qualche caso sino a 30C ed oltre.

Nella pratica omeopatica le potenze C e D non sono considerate equivalenti, ovvero 1C non è ritenuto equivalente a 2D dal punto di vista terapeutico, sebbene lo sia dal punto di vista della chimica delle soluzioni.

Le critiche maggiori all'omeopatia vertono sul fatto che a potenze elevate, e in particolare a partire proprio da 12C o da 24D, le leggi della chimica provano che il prodotto finale è così diluito da non contenere più neppure una molecola della sostanza di partenza. Infatti il numero di molecole contenuto in una mole di sostanza è fissato dal numero di Avogadro, che è uguale a circa 1024 molecole/mole (6,02214179(30) 1023 mol -1): quindi, mediante una diluizione 12C o una 24D della stessa mole di sostanza, si raggiunge un livello di concentrazione pari a 0,6022 molecole, il che comporta, stante il fatto che ogni molecola è di per sé indivisa, che l'ultimo quantitativo di soluzione contenga al più una sola molecola del farmaco, su 6,02214179x1023 molecole di solvente. Diluizioni ulteriori della sostanza risultano quindi prive di qualunque traccia della sostanza stessa. Questa esigua ed incerta presenza del rimedio omeopatico di partenza, dopo la preparazione per diluizioni successive, rende indistinguibili preparati omeopatici originariamente diversi fra loro e destinati a specifiche terapie. Infatti, se dopo le succussioni, a un certo numero di contenitori di preparazioni diverse fra loro vengono rimosse le etichette identificative e gli stessi disposti in ordine spaziale diverso, non esiste alcun metodo di analisi chimico-fisica che possa distinguerli, consentendo di riposizionare su ciascuno dei medesimi le etichette originali.

Il supposto effetto terapeutico del rimedio omeopatico, pertanto, non sarebbe legato alla presenza fisica del farmaco, ma a "qualcos'altro", che gli stessi sostenitori dell'omeopatia non caratterizzano.

Viene inoltre notato che i solidi metallici sminuzzati (quali molti prodotti omeopatici) non diventano solubili e che quindi, al momento di essere messi in acqua per le successive diluizioni, il principio attivo precipita e nelle fasi successive il prodotto è costituito esclusivamente di acqua e zucchero. A fronte di questi dati, gli omeopati credono nella cosiddetta "memoria dell'acqua". Secondo tale tesi, anche dopo numerose trasformazioni e a grande distanza dal luogo di origine, le molecole conserverebbero per un determinato periodo di tempo una geometria molecolare derivata dagli elementi chimici con cui sono venute a contatto. Secondo i sostenitori di questa teoria, il fenomeno sarebbe dovuto alla coerenza interna dei campi elettromagnetici, prevista dalla QED. La soluzione diluita, secondo questi autori, conserverebbe l'informazione del principio attivo e migliori effetti terapeutici di una dose maggiore. Senza l'effetto memoria dell'acqua, le concentrazioni di principio attivo in queste soluzioni acquose sono così basse da apparire prive di effetti terapeutici. Non è chiaro tuttavia perché l'acqua conserverebbe soltanto le proprietà terapeutiche e non quelle tossiche delle sostanze con cui è stata a contatto. Inoltre ogni molecola d'acqua della terra nella sua storia è entrata in contatto con molteplici sostanze, quali ad esempio urina, sali e altre sostanze chimiche, ma conserverebbe "memoria" solo delle sostanze desiderate "ignorando" quelle indesiderate. A parte tali problemi concettuali non esiste alcuna prova scientifica dell'esistenza di una "memoria dell'acqua".



In un'audizione presso il parlamento britannico Kate Chatfield, rappresentante della British Homeopathic Association, ha ammesso che non esiste alcun modo per distinguere tra di loro due prodotti omeopatici una volta diluiti, ad eccezione dell'etichetta della confezione.

Il primo articolo di taglio scientifico sui meccanismi di funzionamento dell'omeopatia è stato quello pubblicato nel 1988 sulla prestigiosa rivista Nature, a firma del medico e immunologo francese Jacques Benveniste. Nell'unico caso della prestigiosa rivista, l'articolo, che riguardava la memoria dell'acqua, fu accettato senza revisioni, ma con riserva da parte dell'editore. Gli autori dello studio (ad eccezione di due che si dissociarono dalle conclusioni) affermavano che una soluzione di antisiero diluita 1:10 per 120 volte fosse in grado di provocare la degranulazione dei granulociti basofili, e fosse quindi dotata di attività biologica. In seguito alla pubblicazione la rivista inviò alcuni ricercatori nel laboratorio di Benveniste, chiedendogli di replicare l'esperimento. I ricercatori di Nature dimostrarono così che lo studio era in realtà una truffa e si scoprì inoltre che la ricerca di Benveniste era finanziata da una nota industria produttrice di rimedi omeopatici. Studi successivi dimostrarono ulteriormente che la soluzione ultradiluita non aveva affatto le proprietà biologiche vantate[23]; persino il Premio Nobel per la fisica (1992) Georges Charpak, coinvolto nella diatriba dallo stesso Benveniste, eseguì test in merito presso i suoi laboratori, arrivando alla conclusione che i controlli effettuati «...sono stati uno scacco costante. Non è stato visto alcun effetto».

Alcuni studi, pubblicati per lo più su riviste prive di un meccanismo di revisione paritaria, avrebbero rilevato fenomeni particolari per quanto riguarda la calorimetria, la termodinamica e la conducibilità elettrica delle soluzioni altamente diluite; tuttavia nessuno di essi ha a che fare con il principio alla base dell'omeopatia.

Secondo gli omeopati, questi lavori dimostrerebbero che il trattamento cui il composto omeopatico viene sottoposto consente al solvente di esercitare un effetto riconducibile alla molecola che in esso è stata fortemente diluita. Risultati di questo genere sono stati però pubblicati solo su fonti interne alla comunità omeopata e non su riviste scientifiche.

Allo stato attuale, nessuno studio scientifico, pubblicato su riviste di valore riconosciuto, ha potuto dimostrare che l'omeopatia presenti una seppur minima efficacia per una qualsiasi malattia. Gli unici risultati statisticamente significativi sono confrontabili con quelli derivanti dall'effetto placebo, indotto anche dalla particolare attenzione che l'omeopata presta al paziente e alla sua esperienza soggettiva della malattia, e quindi non dal farmaco assunto dal paziente.

Studi che hanno provato a quantificare il grado di soddisfazione soggettiva dei pazienti in cura omeopatica hanno mostrato risultati ragguardevoli (ad esempio una ricerca compiuta nel 2004 dalla clinica universitaria Charité di Berlino sulla qualità della vita di 3981 pazienti in cura omeopatica) e spiegano il successo sociale di tale pratica terapeutica.
Assai meno univoco è il risultato di studi clinici condotti su singoli rimedi o sul trattamento di specifiche patologie, dove gli esiti appaiono assolutamente in linea col noto effetto placebo.

Nel febbraio 2010 sono stati rilasciati i risultati di una ricerca sulle prove di efficacia dell'omeopatia, condotta nel 2009 e 2010 dalla commissione Science and Technology della Camera dei Comuni britannica: lo studio conclude che l'omeopatia non ha effetti superiori a quelli di un placebo. La commissione la considera pertanto un "trattamento placebo" (placebo treatment) e dichiara che sarebbe una "cattiva pratica medica" (bad medicine) prescrivere placebo puri.

La Cochrane Collaboration ha condotto una serie di review sugli studi clinici condotti sull'efficacia dell'omeopatia. Tali review vengono effettuate a partire dal 1998 e aggiornate regolarmente ogni pochi anni. Oltre ad evidenziare numerose carenze metodologiche in molti degli studi analizzati, la Cochrane non ha trovato prove di efficacia dell'omeopatia in nessuno degli ambiti presi in esame, fra cui il trattamento dell'influenza, dell'asma cronica, dell'osteoartrite, dell'ADHD, della demenza, la riduzione effetti avversi della chemioterapia dei tumori e l'induzione del parto.

Una meta analisi pubblicata nell'agosto del 2005 dalla rinomata rivista medico scientifica The Lancet ha avuto molto risalto sulla stampa, in quanto screditava l'omeopatia come metodo curativo scientifico, sostenendo che l'efficacia fosse spiegabile con l'effetto placebo.

Nel dettaglio, l'articolo del Lancet si struttura in due parti, che portano a conclusioni distinte tra loro.

Nella prima parte, la meta analisi compara 220 studi clinici (110 omeopatici e 110 presi casualmente tra studi con interventi biomedici), e porta alla conclusione che i due gruppi di studi siano di qualità metodologica paragonabile, e che entrambe le classi di trattamento mostrano efficacia superiore al placebo.
Nella seconda parte i ricercatori hanno ristretto la loro meta analisi a 6 studi omeopatici e 8 studi biomedici, selezionati tra tutti secondo standard di qualità e di numerosità di partecipanti. Questo filtro, affermano gli autori, è stato compiuto per limitare la presenza di bias negli studi presi in considerazione. I risultati della seconda parte della meta analisi mostrano che esiste una forte evidenza di efficacia dei metodi "classici", ed una evidenza di efficacia più debole per i farmaci omeopatici. Inoltre, quest'ultima evidenza non raggiunge un valore statistico critico (significatività) necessario per poter dire con sicurezza che il risultato non è dovuto semplicemente a variazioni statistiche.
Gli autori concludono che l'efficacia dei rimedi omeopatici è compatibile con l'ipotesi che derivino dall'effetto placebo.

Il 17 novembre del 2007 The Lancet ha pubblicato un nuovo articolo sull'omeopatia, che riassume i risultati di 5 meta-analisi precedentemente pubblicate. In questo articolo l'autore giunge alla conclusione che gli effetti dell'omeopatia siano paragonabili all'effetto placebo.

In una review pubblicata nel 2006 sull'European Journal of Cancer sono stati trovati sei trial clinici di qualità sufficiente per essere inclusi nello studio. La review ha mostrato che non esistono prove di efficacia dell'omeopatia nel trattamento del cancro.

Una review, pubblicata nel 2012, ha analizzato i case report relativi all'utilizzo dell'omeopatia, rilevando effetti avversi di vario tipo derivanti dal suo utilizzo. Tali effetti risultano essere di due tipi, indiretti e diretti. Gli effetti avversi indiretti derivano dall'abbandono delle terapie convenzionali in favore dell'omeopatia, quelli diretti derivano da eccipienti e processi di produzione poco controllati. Gli effetti riscontrati vanno da lievi disturbi fino alla morte. Si ritiene quindi che l'omeopatia non debba essere considerata come esente da rischi. Alcuni dei prodotti che hanno provocato effetti avversi sono in realtà prodotti fitoterapici distribuiti come omeopatici.

Il periodo di massima diffusione dell'omeopatia è stato la seconda metà dell'Ottocento: il primo ospedale omeopatico aprì nel 1832 nella città di Sibiu (Romania) e nei decenni successivi scuole mediche omeopatiche si diffusero in tutta Europa e negli Stati Uniti. Inizialmente l'omeopatia otteneva risultati promettenti rispetto alle pratiche più consolidate, soprattutto perché aveva abbandonato trattamenti nocivi come il salasso, che nella seconda metà del XIX secolo era ancora la terapia più diffusa per tutte le patologie.

Man mano che la medicina scientifica sviluppava un approccio più razionale al trattamento delle malattie, però, l'omeopatia incominciò a perdere terreno. Negli Stati Uniti, per esempio, c'erano 22 scuole omeopatiche nel 1900, ma nel 1923 ne erano rimaste soltanto due. Nel 1950 tutte le scuole omeopatiche degli Stati Uniti erano state chiuse, oppure non insegnavano più l'omeopatia.

L'omeopatia ha conosciuto una parziale ripresa alla fine del Novecento, con il generale aumento d'interesse nei confronti delle medicine alternative. Oggi l'omeopatia, considerata una pratica medica alternativa o complementare alla medicina scientifica (alla quale gli omeopati si riferiscono spesso come "medicina allopatica", sebbene tale espressione non sia scientificamente corretta), è diffusa in molti paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, India). In molti di questi paesi, a cominciare dalla Francia, i rimedi omeopatici sono entrati a vario titolo a far parte del prontuario nazionale, finanziati dal sistema sanitario pubblico. Tuttavia il suo insegnamento non è quasi mai entrato negli ordinamenti delle facoltà di medicina.

Il recupero di popolarità dell'omeopatia ha suscitato una nuova ondata di studi clinici e soprattutto di meta-analisi, i cui risultati hanno però mostrato che gli effetti terapeutici dei trattamenti omeopatici non si discostano in maniera significativa da quelli ottenuti per effetto placebo.

In seguito a tale mancanza di risultati, all'inizio del XXI secolo sono apparsi i primi segnali di un calo di popolarità dell'omeopatia: per esempio, in Francia nel 2004 il tasso di rimborso previsto per i rimedi omeopatici è sceso dal 65% al 35%, mentre in diverse regioni della Gran Bretagna nel 2007 il servizio sanitario ha iniziato a cancellare i rimedi omeopatici dal proprio prontuario. In calo anche i ricoveri negli ospedali omeopatici. Sempre nel Regno Unito nel 2011 si è registrato un calo record nelle vendite di prodotti omeopatici mentre uno studio statistico effettuato dalla rivista Homeopathy in Norvegia nel 2012 ha evidenziato un significativo calo delle visite presso gli omeopati.

Riguardo all'uso di terapie alternative l'Istat ha svolto, dal 1991 al 2005, quattro indagini statistiche, su un campione di 30.000 famiglie, evidenziando anche in questo caso un calo di popolarità negli ultimi anni: dal 2000 al 2005 la percentuale di italiani che ne hanno fatto uso risulta diminuita dall'8,2% al 7%. Inoltre, al 2005, il Trentino-Alto Adige, con il 18,3%, si attesta come la regione con la maggior percentuale di persone che abbiano fatto uso di cure omeopatiche.

Nel 2009 un gruppo di medici inglesi e africani ha scritto una lettera all'Organizzazione mondiale della sanità chiedendo che si pronunciasse in merito alla promozione fatta dalla Society of Homeopaths dell'omeopatia come terapia per una serie di malattie potenzialmente mortali, fra cui HIV, tubercolosi, diarrea infantile, malaria e influenza. L'Organizzazione ha risposto dichiarando che non vi è alcuna evidenza che l'omeopatia possa curare o prevenire queste malattie e che il suo utilizzo al posto delle terapie convenzionali basate su evidenze scientifiche può far perdere delle vite.

In Gran Bretagna, nel 2010, per iniziativa della Merseyside Skeptics Society (organizzazione senza scopo di lucro che ha per scopo la promozione dello scetticismo scientifico) è nata una campagna di sensibilizzazione e di pressione nei confronti della Boots, la più nota catena di farmacie del Regno Unito, in seguito alla decisione di quest'ultima di distribuire anche prodotti omeopatici. Il motto della campagna è Homeopathy: There's nothing in it ("Omeopatia: non c'è niente dentro"), come si può leggere sul sito dedicatole, e l'iniziativa ha già prodotto una dimostrazione pubblica, durante la quale centinaia di volontari hanno letteralmente ingurgitato interi flaconi di prodotti omeopatici, senza riscontrare alcun effetto positivo o negativo. Una simile dimostrazione viene effettuata da James Randi durante i suoi spettacoli. Solitamente all'inizio dello show ingoia un'intera confezione da 32 pastiglie di un medicinale e alla fine rivela che si trattava di un sonnifero omeopatico, che evidentemente non ha avuto alcun effetto su di lui, consentendogli di concludere lo spettacolo senza alcun problema.

Nell'agosto del 2011 è stata promossa una class action contro la Boiron (azienda che commercializza prodotti omeopatici) in favore di tutti i residenti in California che nei quattro anni precedenti avevano comprato oscillococcinum. L'accusa era basata sul fatto che il prodotto venduto, per via delle diluizioni omeopatiche, non contiene alcuna traccia molecolare del principio attivo dichiarato e risulta composto soltanto da zucchero, oltre a non avere alcun effetto clinico sull'influenza, per la quale era invece indicato come efficace. La Boiron ha patteggiato un risarcimento di 5 milioni di dollari, da distribuire a chi aveva acquistato i prodotti, e il cambio delle etichette dei medicinali, sulle quali deve comparire un disclaimer che precisa che gli usi indicati per il prodotto non sono approvati dall'FDA, e la chiara indicazione che si tratta di diluizioni omeopatiche.

Nel marzo 2012 in Australia il National Health and Medical Research Council ha prodotto una bozza nella quale ha definito non etico l'uso dell'omeopatia per via della sua inefficacia:

« NHMRC’s position is that it is unethical for health practitioners to treat patients using homeopathy, for the reason that homeopathy (as a medicine or procedure) has been shown not to be efficacious »

« La posizione del NMRHC è che sia non etico da parte degli operatori della salute curare i pazienti con l'omeopatia, perché l'omeopatia (come medicina o come procedura) ha dimostrato di essere inefficace »
(DRAFT NHMRC Public Statement on Homeopathy)
Lo stesso ente nel 2015, in seguito ad un'analisi di tutta la letteratura scientifica internazionale riguardante l'omeopatia ha rilasciato una dichiarazione nella quale si afferma che non esiste alcuna evidenza a sostegno dell'affermazione che l'omeopatia sia efficace nel trattamento di qualsiasi problema di salute.




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