giovedì 31 dicembre 2015

LA SIGARETTA ELETTRONICA



La sigaretta elettronica è un dispositivo elettronico nato con l'obiettivo di fornire un'alternativa al consumo di tabacchi lavorati (sigarette, sigari e pipe) che ricalchi le mimiche e le percezioni sensoriali di questi ultimi, tutte le sigarette elettroniche con la nuova direttiva europea 40/2014 sono più sicure perché devono essere costruite con sistemi a prova di bambino, dotate di un sistema di ricarica a prova di perdite e spandimento.

Il primo vero brevetto risale al 1965, depositato dall’americano Herbert A. Gilbert. Il primo prodotto commerciale viene commercializzato in Cina a Pechino nel 2003 sfruttando una tecnologia ad ultrasuoni da Hon Lik, un farmacista cinese. Commercializzata in Cina da parte del Gruppo Golden Dragon (Holdings)”, un'industria farmaceutica cinese di Hong Kong, le sigarette elettroniche sono state brevettate come Ruyan, che significa “quasi come il fumo”.

La maggior parte delle sigarette elettroniche sul mercato utilizza oggi un sistema differente basato su un vaporizzatore in grado di nebulizzare (per mezzo di riscaldamento) la soluzione contenuta nella cartuccia. "Gamucci" detiene un brevetto per un sistema simile. Anche se la Life ha introdotto la prima sigaretta del tipo nel 2007 quando non esisteva alcuna societa in Europa e/o America di sigarette elettroniche.

La prima sigaretta elettronica (sigaro e poi il modello 306) fu immessa sul mercato italiano dalla Life attraverso la catena delle farmacie. La Life ha quindi avviato la conoscenza della sigaretta elettronica sul territorio puntando all'affidabilità e alla sicurezza. Con il design della 510 Life raggiunge fatturati interessanti ma la tecnologia non è in grado di soddisfare i consumatori: poca autonomia della batteria e mancanza di aromi accattivanti fanno perdere terreno a quella che si era presentata come la novità mondiale del decennio. La successione di prodotti copia di bassa manifattura ha poi contribuito a smontare le speranze di molti potenziali utilizzatori.

GreenTech,che opera con il brand GreenCig o PeP cigarettes, detiene brevetti per una sigaretta elettronica in Cina e negli USA e anche in alcuni paesi europei come il Regno Unito. In Italia la RML, titolare del marchio Smoxy, detiene il brevetto per una sigaretta elettronica con vaporizzatore usa e getta e filtro rivestito in carta.

Nel dicembre del 2012 la BAT acquisisce la start-up inglese CN Creative di Manchester, specializzata in prodotti per la lotta al tabagismo e detentrice del marchio di sigaretta elettronica Intellicig.

Nel novembre del 2013 Fontem Ventures, del gruppo Imperial Tobacco, ha acquistato i brevetti della Dragonite International Ltd. per 75 milioni di dollari, e ha annunciato che Hon Lik, da tutti conosciuto come l’inventore della sigaretta elettronica, si sarebbe unito alla squadra di Fontem Ventures come co-fondatore e direttore esecutivo.

La società IDIB è la prima ad aver studiato, prodotto e lanciato sul mercato il pacchetto con caricabatteria integrato e spina italiana.

Poche certezze e un dibattito scientifico rovente, inasprito da un recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine secondo cui il processo di vaporizzazione delle sigarette elettroniche favorirebbe la formazione di formaldeide, una sostanza da 5 a 15 volte più cancerogena del tabacco. Ma non è solo per questo che le sigarette elettroniche dividono gli scienziati. In un documento dell’agosto scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avanzato forti dubbi riguardo alla loro pericolosità per la salute, scatenando le ire di una parte della comunità scientifica e portando 50 noti scienziati internazionali a firmare una lettera aperta indirizzata all’OMS, in cui si sottolineava la scarsa tossicità delle sigarette elettroniche e la loro efficacia nel favorire la disassuefazione dal fumo, con la possibilità di prevenire migliaia casi di cancro ogni anno.

Assieme a Umberto Veronesi, tra i firmatari del documento figura Riccardo Polosa, ordinario di Medicina Interna presso l’Università di Catania e direttore scientifico della Lega Italiana Anti Fumo (LIAF), considerato l’autore più produttivo al mondo nel campo della ricerca applicata alla sigaretta elettronica.
Ai fini della ricerca, è importante distinguere le sigarette elettroniche in due diversi tipi: i dispositivi di prima generazione (o cigalike), che generalmente imitano nelle dimensioni e nell’aspetto le sigarette convenzionali e sono costituiti da piccole batterie al litio, ricaricabili o usa e getta, e cartomizzatori/cartucce già riempiti di liquido; ed i dispositivi di seconda generazione (o personal vaporizers) oggetti molto diversi dalle “bionde”, costituiti principalmente da batterie ricaricabili ad alta capacità, con atomizzatori molto performanti in cui il liquido nel serbatoio viene rifornito dal consumatore ogni qual volta si esaurisce.
 
Non ha una durata temporale prestabilita, anzi praticamente è illimitata ma richiede manutenzione e controllo periodico. Dopo un paio di anni solitamente si consiglia di sostituire solo la batteria per aumentare la durata di utilizzo tra una ricarica e l’altra e l’atomizzatore, la parte più soggetta ad usura.  
Le e-cig non contengono tabacco e non prevedono la combustione per funzionare, pertanto è intuitivo che siano più sicure delle bionde e che siano in grado di migliorare lo stato di salute dei fumatori che decidono di utilizzarla al posto delle sigarette convenzionali. Studi clinici sulla sigaretta elettronica dimostrano effetti positivi sul consumatore di sigaretta elettronica sia in termini di riduzione del danno che di riduzione del rischio legato al fumo di sigaretta convenzionale. Fatto 100 il rischio delle sigarette convenzionali, le elettroniche si attestano ad un valore di 5.
 
Nell’ambito dello studio ECLAT condotto dal team dei ricercatori LIAF nel Centro Universitario del Policlinico di Catania, è stata dimostrata una sostanziale diminuzione dei danni causati dal fumo come tosse (18%), bocca secca (17%), irritazione della gola (20%) e mal di testa (10%). Disturbi da astinenza da fumo di tabacco, quali ansia, fame e insonnia, sono stati riferiti raramente. Non sono stati registrati cambiamenti di peso sostanziali, variazioni del battito cardiaco o della pressione sanguigna, anzi è stato monitorato un miglioramento delle condizioni di salute generali grazie alla riduzione del fumo di tabacco.
 
Il fumo e la depressione sono spesso due fattori correlati: secondo recenti studi condotti dai nostri ricercatori “non si fuma per la depressione ma si diventa depressi fumando”. Per alcuni pazienti il fumo rappresenta una naturale estensione del proprio comportamento ed è per questo motivo che diventa necessario ottenere una chiara e sincera dichiarazione del paziente sull’effettivo impegno nella rinuncia al fumo, al fine di responsabilizzarlo nella propria decisione. Studi condotti nei nostri centri antifumo hanno comunque dimostrato che la sigaretta elettronica è efficace anche dal punto di vista psicologico perché diminuisce gli stati di ansia e stress tipici dei fumatori di sigarette convenzionali.

Lo studio apparso sul New England Journal of Medicine, secondo cui le e-cig potrebbero essere addirittura più cancerogene delle sigarette tradizionali si basa sulla valutazione di soggetti che svapano in condizioni non realistiche. Molti studi sulle sigarette elettroniche purtroppo vengono condotti su soggetti non umani o addirittura, come in questo caso, in condizioni che non rispecchiano l’uso reale dello strumento. Vengono valutate situazioni in cui si utilizza la sigaretta elettronica ad alti voltaggi quando invece queste vengono utilizzate solitamente a bassi voltaggi.



Nel 2014 più della metà dei pazienti assistiti nei laboratori della Lega Italiana Anti Fumo ha smesso definitivamente di fumare. Un’alta percentuale, circa il 70% dei pazienti fumatori, è passata dal tabagismo al vapagismo, ovvero dalla sigaretta convenzionale a quella elettronica. Questi risultati si aggiungono inoltre a quelli di una  ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica BMC Public Health che ha testimoniato come sei mesi di uso regolare di e-cig di seconda generazione hanno reso possibile una riduzione del consumo di tabacco di almeno la metà in un buon 30% dei partecipanti, passando da una media di 25 a 6 sigarette al giorno, e addirittura il 36% dei fumatori nello studio ha smesso del tutto di fumare. Di questi, un buon 15% non utilizzava più neanche la sigaretta elettronica a fine studio.

Il funzionamento prevede l'inalazione di una soluzione a base di acqua, glicole propilenico, glicerolo, nicotina (in quantità variabile o assente) vaporizzata da un atomizzatore, un dispositivo (solitamente una resistenza) alimentato da una batteria ricaricabile. Sebbene esistano pochi studi ufficiali in merito, alcuni medici illustri (tra cui il dott. Umberto Veronesi) ritengono che la sigaretta elettronica sia sensibilmente meno dannosa di qualsiasi tabacco lavorato assunto tramite combustione.

Esistono vari fattori che determinano la scelta dei componenti della sigaretta elettronica (solitamente definiti col termine hardware):
Resa aromatica, ovvero l'integrità,la corposità e il gusto dell'aroma del liquido una volta vaporizzato e aspirato.
Hit (o colpo in gola), la percezione del vapore che passa nella laringe durante l'inspirazione. L'hit dipende anche dalla quantità di nicotina diluita nel liquido.
Fumosità, la quantità e la densità di vapore generato dalla vaporizzazione del liquido. La fumosità dipende, oltre che dall'efficienza dell'atomizzatore, anche dalla percentuale di glicerolo del liquido.
Calore, la temperatura del vapore inalato.

Il termine sigaretta elettronica identifica tutti i dispositivi in grado di inalare vapore senza fare uso di combustione. Sebbene esistano dei prodotti dall'aspetto simile alla sigaretta tradizionale esistono svariati tipi di dispositivi che differiscono nella forma, nelle prestazioni e nella resa aromatica. Ogni dispositivo è un assemblaggio di più parti (a volte costruite da produttori diversi) vendute singolarmente o, per comodità del consumatore, in appositi kit (solitamente corredati da caricabatterie e ricambi).

Quando l'utilizzatore inala attraverso il filtro, il flusso d'aria viene individuato da un sensore presente nella batteria che così viene attivata. Questa una volta attivata alimenta il vaporizzatore (cartomizzatore) che riscalda la soluzione liquida, contenuta in una cartuccia presente nel "filtro" o in un apposito serbatoio, denominato "Tank", che provvede a inumidire un avvolgimento ad archetto presente sulla sommità del cartomizzatore stesso. Il vapore generato viene così inalato dall'utilizzatore, che ne trarrà la sensazione anche visiva di fumare una sigaretta di tabacco.

Affinché questa sensazione sia quanto più verosimile, durante l'inalazione si accende un led di colore rosso scuro posto all'altra estremità del dispositivo, simulando così anche il tipico colore rosso della combustione di una tradizionale sigaretta.

Il filtro è costituito da materiale plastico ipoallergenico e al suo interno contiene la cartuccia contenente la soluzione di glicole propilenico, glicerolo e nicotina.

Il filtro può essere riutilizzato sostituendo la cartuccia presente al suo interno con una cartuccia nuova oppure ricaricando manualmente la stessa tramite il liquido (eliquido o e-liquid) per sigaretta elettronica. Oppure si utilizza un serbatoio denominato "Tank" che funge da "filtro" e che può essere ricaricato più volte.

Il liquido può essere acquistato premiscelato con aromi a scelta e nicotina in concentrazione variabile o eventualmente assente.

Si possono anche acquistare separatamente i componenti base (glicole propilenico, glicerolo, soluzione con nicotina e aromi) da miscelare in concentrazioni variabili in base al proprio gusto e alla propria esigenza di nicotina. Spesso questo procedimento risulta essere più economico rispetto all'acquisto di liquidi premiscelati. Esistono delle regole empiriche che i venditori usano per selezionare la percentuale di nicotina da inserire nel liquido. Queste regole si basano sul numero di sigarette tradizionali fumate precedentemente dal fumatore. La scelta di una percentuale bassa di nicotina potrebbe produrre nel fumatore il desiderio di continuare a fumare le sigarette tradizionali.

L'effetto fumo della sospensione è prodotto principalmente dal glicerolo e dal glicole propilenico. L'effetto "hit", il classico colpo in gola che si avverte con le sigarette al tabacco, può essere riprodotto sia da questi due soli componenti, ma in modo blando, sia dalla nicotina aggiunta alla soluzione, e tanto più avvertibile quanta più nicotina viene aggiunta. O anche dall'aggiunta di particolari liquidi composti da aromi alimentari opportunamente miscelati per ottenere un'emulazione di quest'effetto, con il vantaggio che questi ultimi sono privi di nicotina pur rimanendo piuttosto efficaci.

Il componente principale della sigaretta elettronica è costituito dal vaporizzatore o cartomizzatore. Questo riscalda il liquido contenuto nella cartuccia, o nel serbatoio (Tank), creando una sospensione gassosa che trasporta le sostanze del liquido, lasciandole quasi inalterate grazie all'assenza di combustione.

La maggior parte delle sigarette elettroniche utilizza una batteria ricaricabile agli ioni di litio per fornire energia al vaporizzatore.

Al suo interno è presente un sensore meccanico che rileva la differenza di pressione che si verifica durante l'aspirazione da parte del fumatore. Questo sensore agisce da interruttore che attiva elettricamente la batteria e gli permette di fornire energia al vaporizzatore per il suo funzionamento.

Esiste anche la versione manuale della batteria che non dispone di sensore interno, ma di un piccolo tasto esterno che permette di attivarla manualmente al momento dell'aspirazione o qualche istante prima se si desidera un fumo più denso per un maggior appagamento.

Le batterie sono disponibili in differenti tensioni e la densità del vapore prodotto è direttamente proporzionale alla tensione elettrica della stessa. Esistono infatti modelli di sigaretta elettronica denominati BB o Big Battery forniti con batterie di tensione maggiore(da 3,7 V in su). Questo permette alla batteria di erogare maggiore potenza al vaporizzatore che produce quindi un fumo ancora più denso e appagante. Grazie a queste batterie maggiorate è quindi possibile ottenere un maggior colpo in gola a parità di concentrazione di nicotina rispetto ai modelli normali di sigaretta elettronica.

Un'alternativa alle batterie è rappresentata dalle prese di tipo USB-pass che permettono di collegare il vaporizzatore direttamente a una presa USB di un computer o di alcune automobili, utilizzando la tensione di 5 V delle prese USB e utilizzando una potenza che si colloca in una posizione medio-alta della scala delle potenze erogate dalle batterie per sigaretta elettronica che arrivano a circa 7 V e oltre nei modelli di BB più potenti.

Questa alternativa inoltre permette di non consumare le batterie che, anche se facilmente ricaricabili, hanno comunque un loro ciclo di vita tipico di tutte le batterie ricaricabili e che è di circa 4-5 mesi o più in base all'utilizzo.

La durata della batteria dipende da molteplici fattori, quali il tipo, la grandezza, la frequenza di utilizzo e l'ambiente operativo.

Sono disponibili diversi tipi di caricabatterie, tramite la comune presa di corrente a 220 V, oppure caricabatterie USB o da auto.

Alcune aziende forniscono il caricabatterie integrato in un pacchetto del tutto simile a quello delle sigarette tradizionali, rendendo il prodotto più compatto e trasportabile.

La batteria è generalmente il componente principale in termini di peso e dimensioni.

Alcune presentano circuiti elettronici in grado di spegnere dopo un determinato intervallo di tempo il vaporizzatore elettronico per prevenire un surriscaldamento generale.

La maggior parte di esse inoltre presenta un LED alla sommità della sigaretta per simulare il rosso della combustione di una normale sigaretta.

Ultimamente vengono prodotte batterie con LED di altri colori diversi dal rosso, probabilmente per evitare problemi nei locali pubblici dove una sigaretta elettronica con un LED rosso potrebbe essere scambiata per una sigaretta tradizionale suscitando proteste da parte dei non fumatori.

La soluzione contenuta nella cartuccia all'interno del filtro può presentare o meno nicotina al suo interno. Questa soluzione è disponibile in una varietà di differenti sapori e concentrazioni di nicotina. La concentrazione di nicotina nei liquidi varia tipicamente da alta a media, bassa e assente.

Alcuni sapori tendono a somigliare vagamente a quelli dei tabacchi utilizzati nelle sigarette e alcuni di questi tentano di imitare perfino specifici marchi di sigarette, anche se a tutt'oggi con risultati non del tutto apprezzati dagli ex grandi fumatori.

Sul mercato sono inoltre disponibili liquidi con aromi alimentari che riproducono una ampia gamma di gusti, come fragola, menta, vaniglia, liquirizia, caffè, cognac, sigaro/pipa ecc.

In ogni caso, data la regolamentazione scarsamente uniformata a livello mondiale sulla produzione di questo genere di liquidi, è consigliata un minimo di cautela nell'acquisto, nonché di attenzione sulla loro provenienza, operazione sempre consigliabile per ogni prodotto ad uso umano acquistabile.

La nicotina viene usualmente diluita in una soluzione di glicerina, propilenglicole e un po' di acqua, in varie concentrazioni, a seconda della richiesta dell'utilizzatore.

La percentuale di nicotina contenuta in un liquido si misura in mg/ml (milligrammi per millilitro).

La nicotina contenuta in un liquido deve essere chiaramente esposta sulla confezione (tanto nell'imballo quanto sulla boccetta stessa) e si parte da una concentrazione pari a 0 fino ad arrivare a un massimo di 26 mg/ml.

Nel febbraio 2010 il Ministero della Sanità italiano, con nota protocollata DGPREV 0006710-P-11/02/2010, relativa all'etichettatura di preparati contenenti nicotina e sostanze pericolose (riportate nelle direttive 2001/95/CE e 1999/45/CE, adottate con Dlg 52/97) in base ai criteri richiesti dal DM del 28 aprile 1997 e suoi aggiornamenti ha chiesto a tutti i produttori di sigarette elettroniche di evidenziare su tutti i prodotti, la concentrazione di nicotina e, in caso di presenza, di apporre i necessari simboli di tossicità. È stato inoltre richiesto di evidenziare la frase "Tenere lontano dalla portata dei bambini" su tutti i prodotti posti in vendita. L'Istituto Superiore di Sanità ha inoltre affermato che non esistono dati sufficienti per escludere effetti dannosi per la salute.

Per quanto riguarda il "vapore passivo", secondo una ricerca americana con le sigarette elettroniche non si modifica la qualità dell'aria in ambienti chiusi e il vapore emesso dalle sigarette elettroniche non è pericoloso. A dirlo è una ricerca pubblicata dalla rivista “Inhalation toxicology” ed effettuata negli Stati Uniti da ricercatori del “Consulting for Health, Air, Nature and Green Environment” del Center for Air Resources Science and Engineering e della Clarkson University. Secondo i ricercatori americani, il vapore emanato dalle sigarette elettroniche non è nocivo per le persone e non modifica la qualità dell'aria degli ambienti chiusi. Pertanto, con le sigarette elettroniche, vengono meno le condizioni di rischio derivanti dal fumo passivo. Michael Siegel, ricercatore al Department of Community Health Sciences della Boston University School of Public Health, sulla base dei suoi 25 anni di esperienza nel settore, afferma che le sigarette elettroniche possono risolvere il problema del fumo passivo.

La FDA nordamericana, in un'analisi effettuata su due marche leader, rilevò due gruppi di sostanze che considerò potenzialmente dannose: il glicol dietilenico (È bene non confonderlo con il glicol etilenico più diffuso come additivo per liquidi di raffreddamento) e le nitrosammine. Il dipartimento della salute del Canada menziona solo la presenza del glicol dietilenico e la necessità di effettuare ulteriori analisi.

A Panama la distribuzione di sigarette elettroniche è stata proibita da giugno 2009, sulla base degli studi della FDA che confermano la presenza di glicol dietilenico, responsabile della morte di centinaia di panamensi tra il 2006 e il 2009.

Anche in Uruguay ne è stata proibita la vendita dal novembre del 2009 per decreto del presidente Tabaré Vázquez.

In Italia, con Ordinanza del Ministro della Salute rinnovata da ultimo il 4 ottobre 2014, è stato disposto il divieto di vendita a soggetti minori di anni 18 di sigarette elettroniche contenenti nicotina. Con il DL 76/2013 (Lavoro - IVA) convertito nella Legge 99/2013 l'8 agosto 2013, le sigarette elettroniche sono state equiparate ai tabacchi lavorati ed è stato imposto loro una tassa di consumo del 58,5% che partirà dal 1 gennaio 2014. La norma e il regime fiscale sono stati sospesi con sentenza del TAR Lazio del 2 aprile 2014, che ha stabilito il rinvio degli atti alla Corte Costituzionale. La sospensiva è stata poi confermata dal Consiglio di Stato. Con il Dlgs 188/2014 (Tabacchi), l'imposta di consumo è stata prevista sui soli "liquidi da inalazione" in misura misura pari al  cinquanta  per  cento   dell'accisa   gravante   sull'equivalente quantitativo di sigarette e alla equivalenza  di  consumo convenzionale determinata sulla base di apposite procedure  tecniche, definite con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle dogane  e dei monopoli, che per il 2015 ha stabilito un'imposta di €3,73 per 10ml di liquido da inalazione.
In Australia la vendita di sigarette elettroniche contenenti nicotina è illegale;
In Austria e Danimarca le sigarette elettroniche sono considerate dispositivi medici e le cartucce contenenti nicotina come prodotti farmaceutici. Perciò le sigarette elettroniche necessitano del marchio CE e le cartucce di nicotina devono essere registrate come prodotti medicinali prima di poter essere vendute.
In Canada la possibilità di utilizzare la sigaretta elettronica nei locali dove il fumo tradizionale è bandito è in discussione;
In Finlandia non è possibile commerciare cartucce contenenti nicotina ma queste possono essere acquistate (da altri paesi) per uso personale;
A Hong Kong il possesso e la vendita di sigarette elettroniche è illegale;
In Malesia le sigarette elettroniche sono considerate dispositivi medici e le cartucce di nicotina come prodotti medicinali. Possono essere acquistate nei negozi appositi e nelle farmacie;
Nei Paesi Bassi è consentita la vendita e l'utilizzo ma è vietata la pubblicità di prodotti contenenti nicotina in accordo con le leggi europee;
In Nuova Zelanda le cartucce contenenti nicotina sono vendute come medicinali registrati;
In Inghilterra non vi è alcuna restrizione alla vendita e al consumo di sigarette elettroniche;
Negli Stati Uniti la vendita di sigarette elettroniche è libera. La FDA sta però svolgendo degli studi per una futura regolamentazione.



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mercoledì 30 dicembre 2015

L'EMPATIA



L’empatia è una risorsa molto importante, e lo è soprattutto in termini relazionali.

Possedere empatia significa essere in grado di comprendere i pensieri e gli stati d’animo di un’altra persona. Essere in grado di mettersi nei panni dell’altro e capire come ci sentiremmo noi a posto suo. L’empatia facilita la conoscenza tra le persone e l’instaurarsi di un rapporto di fiducia.

Saper entrare in empatia con chi ci circonda, siano esse persone con cui abbiamo una relazione più o meno stretta, significa possedere una vera e propria marcia in più.

Noi individui non abbiamo tutti le stesse capacità empatiche, e di questo ne avrete certamente fatto esperienza. E provato quanto sia differente entrare in relazione con una persona empatica e con una che lo è meno.

Quando ci relazioniamo con una persona empatica, è facile entrare in relazione. Il feeling si instaura ben presto, sembra quasi di conoscersi da tempo ed è semplice confrontarsi, condividere, ed “entrare l’uno nel mondo dell’altro”.

A volte invece capita di incontrare persone che non sanno fare buon uso dell’empatia.

E anche qui percepiamo ben presto quanto sia difficile entrare in relazione e creare un bel feeling. Nonostante tutti i nostri sforzi in questo secondo caso sentiamo che qualcosa nella comunicazione non riesce a passare, e che i nostri mondi si muovono su due binari paralleli ma distanti.

A volte l’empatia viene purtroppo utilizzata anche per scopi non propriamente nobili, ad esempio per manipolare. I manipolatori sono estremamente abili nell’ entrare in empatia allo scopo di portare la vittima designata dalla propria parte, e farle fare ciò che desiderano.

Ma aldilà di tali situazioni limite, riuscire ad entrare in empatia con l’altro è una vera e propria ricchezza.

Per riuscire ad entrare in empatia occorre partire da un presupposto molto importante, siamo tutti diversi, ma è possibile trovare un punto d’incontro.

Alcuni di noi sono troppo concentrati su se stessi, e non vedono l’altro come detentore di proprie emozioni, pensieri e modi di essere. Lo vedono come un prolungamento di sé, credono dovrebbe pensare ed essere uguale, e non hanno interesse nell’approfondire e comprendere questo mondo. Invece l’altro non è noi, e non è come noi, non ha le nostre stesse necessità, e non ha il nostro stesso modo di vedere e reagire.

Se manca tale comprensione viene a mancare ciò che tecnicamente possiamo definire la “lettura dell’altro”. Cioè la capacità di percepirlo come qualcosa di diverso, con un proprio mondo emotivo, cognitivo, relazionale, un proprio modo di porsi e necessità.

Questa non è empatia e tale modalità non consente di crearla.

Per poter entrare in empatia dobbiamo innanzitutto essere ben disposti, e mostrare apertura nei confronti dell’altro, parlando di noi, facendoci conoscere. Ma non solo di noi, altrimenti stiamo praticando un monologo.

Ed essere al contempo aperti all’altro, ascoltandolo davvero, mostrando interesse, comprendendo com’è, qual è il suo modo di vedere il mondo. Mettendosi nei suoi panni e cogliendo come puo’ sentirsi, nell’accettare anche le diversità. Essere in empatia presuppone saper “leggere” noi stessi e l’altro.

Empatia quindi significa anche rispettarsi e rispettare

Affinché possa crearsi empatia dobbiamo relazionarci su di un livello collaborativo. E significa facciamo qualcosa assieme, collaboriamo mettendo ciò che siamo nel rapporto, dandoci la possibilità di conoscerci e comprenderci.

Non c’è ricchezza nella solitudine, anzi l’esatto contrario. Possiamo quindi comprendere quanto sia importante creare buone relazioni. Il nostro benessere psicologico passa soprattutto attraverso questo, la nostra vera ricchezza sono i rapporti.

Allora proviamo ad uscire dal nostro piccolo mondo e a comprendere anche quello dell’altro, a condividere esperienze perché questo è il mezzo per farlo.

Ad accettarci per ciò che siamo, e da questa esperienza non potremo che uscirne arricchiti. L’empatia ci aiuta proprio in questo…

Il contrario di 'empatia' è 'dispatia' ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui; il vocabolo 'dispatia' non è inserito nei comuni vocabolari ma è utilizzato nei testi di alcuni autori. In medicina l'empatia è considerata un elemento fondamentale della relazione di cura (ad esempio la relazione medico-paziente) e viene talvolta contrapposta alla simpatia: quest'ultima sarebbe un autentico sentimento doloroso, di sofferenza insieme (da syn- "insieme" e pathos "sofferenza o sentimento") al paziente e sarebbe quindi un ostacolo ad un giudizio clinico efficace; al contrario l'empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto (questo tipo di distinzione non è condiviso da tutti, vedi alla voce simpatia). Sono state anche messe a punto delle scale per la misurazione dell'empatia nella relazione di cura, come la Jefferson Scale of Physician Empathy. L'empatia nella relazione di cura è stata messa in relazione a migliori risultati terapeutici (outcome), migliore soddisfazione del paziente e a minori contenziosi medico-legali tra medici e pazienti.

La nozione di empatia è stata oggetto di numerose riflessioni da parte di intellettuali come Edith Stein, Antoine Chesì, Max Scheler, Sigmund Freud o Carl Rogers.

Il merito dell'introduzione del principio di empatia in psicoanalisi è principalmente dovuto a Heinz Kohut. Il suo principio è applicabile al metodo di raccolta del materiale inconscio. Anche l'alternativa all'applicazione del principio rientra nelle possibilità di cura, quando è ineludibile la necessità di fare i conti con un altro principio, quello di realtà.

Per le sue origini l'empatia ha ragione di essere nell'arte e nelle sue applicazioni. In maniera particolare quando l'arte utilizza le parole per la narrazione. In questo caso non solo è mantenuto il rapporto con la psicologia, ma si ampliano le sue possibilità di intervento. Non tutti possono scolpire o dipingere, ma parlando se non scrivendo qualcosa lo possono raccontare molti. Allora la produzione si sviluppa nel verso artista-psicologo-individuo. Non sono escluse possibilità per i disabili, privilegiando la relazione artista-individuo con la mediazione più cauta dello psicologo. Quest'ultimo non può suggerire all'individuo un percorso di emulazione. Il che non impedisce che l'individuo disabile possa diventare artista a sua volta. A cambiare è la posizione dello psicologo che deve solo rendere possibile la fusione dei vissuti dell'artista con quelli dell'individuo. Di certo lo psicologo dovrebbe mantenere entro limiti accettabili la complessità dell'intervento. Senza che per questo il disabile o l'arte abbiano a soffrirne, anzi si potrebbe dire il contrario.



Il libro di Geoffrey Miller The mating mind difende il punto di vista secondo il quale

« l'empatia si sarebbe sviluppata perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. »
L'autore spiega inoltre che la selezione naturale non ha potuto che rinforzarla, poiché influiva sulla sopravvivenza e che alla fine si è sviluppato un sentimento umano che attribuiva una personalità praticamente a tutto ciò che la circondava. Si vede in questo un'origine probabile dell'animismo e più tardi del panteismo.

L'empatia è anche il cuore del processo di comunicazione non violenta secondo Marshall Rosenberg, allievo di Carl Rogers.

Grande interesse è stato posto nella ricerca di corrispondenze biologiche per l'empatia. Sono stati valutati allo scopo i cosiddetti "neuroni-specchio", attraverso diagnostica per immagini del tipo fRMN. Queste cellule si attivano sia quando un'azione viene effettuata da un individuo sia quando questo stesso individuo osserva la stessa azione effettuata da un altro individuo; questo fenomeno è stato in particolare osservato in alcuni primati. Analogamente negli uomini si attiva la medesima area cerebrale nel corso di un'emozione e osservando altre persone nel medesimo stato emozionale. Vi sono altre segnalazioni analoghe, anche in psicopatologia.

Molti si aspettano dalla biologia una spiegazione definitiva di questa materia. Creature differenti sembrano possedere lo stesso numero di geni. Il genere umano è tuttavia peculiare nel mondo vivente. Sappiamo che la funzione del RNA non consiste solo nella produzione di proteine sotto la guida del DNA. L'RNA ha proprietà di regolazione e programmazione su crescita e funzione cellulare. Il complicato meccanismo d'azione non è del tutto noto e potrebbe spiegare la differente complessità degli esseri viventi. Al riguardo l'impressione è che la biologia sia ancora priva di conoscenze complete. L'empatia in questione coinvolge troppo ampiamente sviluppo e funzione psichica perché questo orientamento di ricerca trovi una conferma in esclusiva. Alternativamente si può fare conto su conoscenze disponibili in altre discipline.

Con empatia positiva si intende la capacità del soggetto di partecipare pienamente alla gioia altrui; si tratta di un con-gioire e di un saper perciò cogliere la gioia altrui, avendo coscienza della felicità da lui provata. In questo senso l’empatia in termini positivi può essere collegata, in generale a simpatia. La gioia colta attraverso la simpatia è però diversa, rispetto al contenuto, dalla gioia colta tramite l’empatia. Nel primo caso, infatti sarà una gioia non-originaria e quindi meno intensa e durevole rispetto a colui che si presenta più prossimo a questa gioia; mentre nel secondo caso, la gioia colta tramite l’empatia sarà di tipo originario, in quanto il contenuto di ciò che viene provato empatizzando con l’altro avrà lo stesso contenuto, anche se solo un altro modo di datità.

Con empatia negativa si concepisce l’esperienza di colui che non riesce a empatizzare rispetto alla gioia altrui, trasferendo nel proprio vissuto originario le sue emozioni. Ciò accade in quanto qualcosa in lui si oppone; un’esperienza presente o passata o la stessa personalità della persona fungono, infatti,da barriera alla sua capacità di cogliere la gioia altrui. L’esempio potrebbe essere quello della perdita di una persona cara, che impedisce all’individuo di far emergere una simpatia verso la gioia dell’altro e quindi di condividerla. In questo caso, infatti, il triste evento e i sentimenti di altrettanto tipo che ne derivano fanno sorgere un conflitto, in quanto l’io si sente diviso tra due parti: vivere della gioia altrui o rimanere nella tristezza che quanto accaduto determina.

Secondo un approccio prettamente affettivo, l’empatia sarebbe un evento di partecipazione/condivisione del vissuto emotivo dell’altro, seppure in modo vicario.

Psicoterapeuti, e psicoanalisti già dall’inizio del secolo scorso, avevano dato maggiore rilievo al ruolo che l’empatia gioca nelle relazioni interpersonali. In particolare, per chi per primo si è avventurato nello studio dell’empatia, inserendola nell’ambito della psicologia sociale, essa è imitazione spontanea di gesti e posture osservate negli altri, e quindi condivisione dei loro vissuti; d’altro canto per alcuni psicoanalisti, empatizzare significa provare quello che prova l’altro, dando motivo al soggetto di capire ciò che prova egli stesso. Secondo invece la natura di tipo cognitivo l’empatia è considerata la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro. Per i cognitivisti, a partire dagli anni ’60, empatizzare con qualcuno significa comprendere i suoi pensieri, le sue intenzioni, riconoscere le sue emozioni in modo accurato e riuscire a vedere la situazione che sta vivendo dalla sua prospettiva, pur non negando che vi sia anche una piccola partecipazione dell’emotività che entra in gioco, ma considerandola come un epifenomeno cognitivo.

Dagli anni ’80, empatizzare significa provare un’esperienza di condivisione emotiva e di comprensione dell’esperienza dell’altro, dando quindi spazio ad una componente affettiva ed una cognitiva, in modo tale che esse possano coesistere nel processo empatico. Questa nuova idea di vedere il fenomeno, fa riferimento ai modelli multifattoriali (o multidimensionali) dell’empatia. Malgrado alcuni distinguano due tipi diversi di empatia (cognitiva e emozionale), come A. Mehrabian (1997), vi sono altri studiosi, come N.D. Feshbach, la quale considera l’empatia come un costrutto multicomponenziale. In essa vi è un incontro affettivo (affect match), in cui però si prova certezza nel fatto che ciò che si prova è ciò che prova anche l’altro (condivisione vicaria). Vi è quindi un’integrazione delle due componenti affettiva e cognitiva.

Secondo Nancy Mc Williams l’empatia è uno strumento non solo utile, ma necessario allo psicoanalista di professione per percepire ciò che il paziente prova dal punto di vista emotivo. Capita spesso infatti, che vi siano molti terapeuti che si lamentino di essere poco empatici nei confronti dei propri pazienti, ma in realtà questa loro insicurezza, paura e spesso ostilità verso la clientela, è provocata da affetti poco positivi, che scaturiscono proprio dal loro elevato livello di empatia, il quale permette di entrare talmente nello stato del paziente, da sentirne i sentimenti, a tal punto da confondere i propri con quelli degli altri. Gli affetti dei pazienti quindi, molte volte causano una sofferenza talmente grande allo stesso terapeuta, che a lui risulta difficile indurre negli stessi risposte di uguale intensità. Tutto ciò in realtà è molto positivo, perché in questo modo l’infelicità del paziente diventa percepita in maniera sincera e genuina. Non è quindi frutto di una meccanismo dettato dalla mera compassione professionale, ma tenendo conto dell’unicità della persona si entra autenticamente a far parte del suo vissuto emotivo.

L'empatia interculturale rappresenta la capacità di percepire il mondo come esso viene percepito da una cultura diversa dalla propria. Ad esempio, quale sia la diversa concezione della morte nella cultura Italiana rispetto a quella Indiana (utile per capire come essa generi diversi rituali e comportamenti che altrimenti non troverebbero spiegazione), quale sia l'approccio verso il tempo (scadenze, precisione temporale, prospettiva temporale) in una cultura Nord- Europea o Latina (e quindi come regolarsi nei casi di comunicazione interculturale, mantenendo efficacia anche all'interno di una cultura diversa), come negoziare con persone e organizzazione di culture diverse, e essere capaci di integrare ogni possibile differenza nella propria strategia comunicativa. La letteratura in materia distingue quattro livelli di empatia che qualificano le dimensioni utili per applicare una componente empatica sul piano interculturale:

Empatia comportamentale: capire i comportamenti di una cultura diversa e le loro cause, capire il perché del comportamento e le catene di comportamenti correlati.
Empatia emozionale: riuscire a percepire le emozioni vissute dagli altri, anche in culture diverse dalle proprie, capire che emozioni prova il soggetto (quale emozione è in circolo), di quale intensità, quali mix emozionali vive l’interlocutore, come le emozioni si associano a persone, oggetti, fatti, situazioni interne o esterne che l’altro vive.
Empatia relazionale: capire la mappa delle relazioni del soggetto e le sue valenze affettive nella cultura di appartenenza, capire con chi il soggetto si rapporta volontariamente o per obbligo, con chi deve rapportarsi per decidere, lavorare o vivere, quale è la sua mappa degli “altri significativi”, dei referenti, degli interlocutori, degli “altri rilevanti” e influenzatori che incidono sulle sue decisioni, con chi va d’accordo e chi no, chi incide sulla sua vita professionale (e in alcuni casi personale).
Empatia cognitiva (o dei prototipi cognitivi): capire i prototipi cognitivi attivi in un dato momento del tempo in una certa cultura, le credenze di cui si compone, i valori, le ideologie, le strutture mentali che il soggetto culturalmente diverso possiede e a cui si ancora" .

Già M. L. Hoffman dà rilievo all’empatia, come qualcosa che compare nella consapevolezza del bambino fin dai primi anni di vita. Madre e padre dovrebbero imparare anch’essi ad essere soggetti empatici, soprattutto tramite la sensibilità e non la punizione. Dovrebbero quindi educare ai valori dell'altruismo, dell’apertura verso il prossimo, in modo tale che il figlio impari a capire e condividere il punto di vista degli altri.

In generale, secondo John Bowlby, esiste la cosiddetta teoria dell’attaccamento, per la quale il legame relazionale che si crea tra il bimbo e le figure adulte (caregivers), che si prendono cura di lui, è innato. Inoltre tale legame può essere spiegato ricorrendo alla teoria evoluzionistica, secondo la quale il piccolo può sopravvivere più facilmente se vicino a qualcuno che lo protegge dai pericoli e gli è vicino nei momenti felici e in quelli di difficoltà.

Secondo J. Elicker, M.Englund e L. A. Stroufe, le figure adulte di attaccamento, non solo favoriscono al bambino aspettative sociali positive, ma inoltre fa sì che si rinforzi l’autostima del bambino assieme all’immagine che egli ha di sé.

Presupposto essenziale dell’educazione è la trasmissione di un messaggio dal contenuto relazionale-affettivo, perché solo con un clima positivo e di fiducia reciproca c’è un incremento dell’apprendimento negli allievi. Per questo l’insegnante stesso, per essere un buon insegnante deve ricorrere al raggiungimento di un buon livello di empatia con la sua classe.

Cooper ha voluto indagare quale sia il legame fra empatia-insegnante-alunni, e ha notato, che a livello morale, il livello di empatia dell’insegnante influenza enormemente la condivisione di affetti, sentimenti e conoscenze a livello interclasse. È insomma, egli stesso un esempio, una guida, una sorta di catalizzatore dell’apprendimento. L’importante per lui, è tenere conto individualmente di ciascun alunno, ma senza perdere di vista l’insieme, affinché questa sorta di partecipazione influisca anche sugli alunni più bravi, in modo che lo supportino nel suo obiettivo.

Fortuna e Tiberio (1999) hanno determinato dei criteri per stabilire quanto un insegnante sia più empatico di un altro. Nel caso sia più empatico, il docente è contraddistinto da una maggiore propensione a elogiare e premiare gli studenti che se lo meritano, più che a denigrare o svalutare coloro che non riescono a portare a termine un risultato. Inoltre sanno accogliere e guidare gli studenti che esprimono liberamente i propri sentimenti, incentivando le discussioni condivise in aula. Tali maestri non ricorrono all’atteggiamento autoritario, ma sono capaci di valorizzare i propri alunni, facendo emergere la loro creatività. Molto importante è il fatto che gli alunni che collaborano con insegnanti empatici abbiano un livello di autostima più alto e un concetto di sé sociale più positivo, senza contare che anche a livello sociale gli alunni si prestano molto più ad essere collaborativi, perché capiscono qual è il comportamento più rispettoso da tenere all’interno di un gruppo. L’empatia non è presente però in tutti gli insegnanti, essi stessi infatti ritengono che essa sia una sorta di caratteristica individuale più o meno esercitata nel tempo. Essa emerge soprattutto all’interno delle classi poco numerose. Condizione necessaria è che si instauri tra insegnante e alunni un rapporto di fiducia, positivo, cooperativo e volto all’ascolto reciproco.
L’empatia è un fattore fondamentale nelle relazioni di coppia. Nelle relazioni amorose l’uomo non dà cose materiali, ma se stesso in sostanza; dunque le persone che amano si sentono vive. C’è un desiderio di fondersi con l’altro essere, comprendendolo pienamente, che è proprio una dimensione dell’empatia stessa; pertanto l’empatia facilita il coinvolgimento della crescita all’interno della coppia.

L’empatia può produrre effetti positivi e negativi nella coppia. Nel primo caso può essere utilizzata per risolvere incomprensioni e litigi futili; nel secondo caso invece può danneggiarla evidenziando le differenze che minacciano la continuità della relazione. Infatti l’empatia prolunga l’amore quando non vi è una disparità tra i partner nella comprensione reciproca e nella capacità di sentirsi vicendevolmente.

Poiché non esiste una definizione condivisa di empatia, risulta particolarmente difficile definire quali sono i metodi e gli strumenti maggiormente idonei a misurarla. Alcuni studiosi, infatti, privilegiano l’approccio cognitivo e altri quello affettivo.

È quindi possibile distinguere diverse tecniche di misurazione dell’empatia facendo riferimento agli aspetti che esse considerano: cognitivi, affettivi o multidimensionali.

Tra di essi si possono distinguere due sottocategorie:

I test di predizione sociale, che identificano l’empatia come la capacità della persona di fare una stima di ciò che gli altri provano (emozioni e pensieri). Due famosi test di questo tipo sono quello di R. F. Dymond e quello di W. A. Kerr e B. J. Speroff.
I test di role taking affettivo, che identificano l’empatia come l’abilità dell’individuo di comprendere la prospettiva dell’altro in una determinata situazione. L’esempio più noto è il Test di Percezione Interpersonale (Interpersonal Perception Test) di H. Borke.
Strumenti basati su aspetti affettivi si possono individuare tre tipologie:

Resoconti verbali, cioè risposte che gli individui danno a situazioni stimolo come storie figurate, interviste e questionari.
Indici somatici, cioè posture, gesti, sguardi, vocalizzi ed espressioni facciali che le persone assumono nel momento in cui si trovano esposte a situazioni significative dal punto di vista emotivo.
Indici psicofisiologici, cioè risposte del sistema nervoso autonomo come, ad esempio, la sudorazione, la vasocostrizione, il battito cardiaco, la temperatura e la conduttanza della pelle.
Secondo alcuni autori non è sufficiente limitarsi a considerare solamente o l’aspetto cognitivo o quello affettivo, ma è necessario utilizzare strumenti più complessi che fanno riferimento ad entrambi. Due esempi significativi sono il Sistema di Punteggio Continuo (Empathy Continuum Scoring System) di Janet Stayer e l’Indice di Reattività Interpersonale (Interpersonal Reactivity Index) di M. H. Davis.

Alcuni disturbi e malattie mentali presentano come sintomi anche carenza di empatia. Mentre in questi tale caratteristica è solo conseguente o parallela ad altre caratteristiche disturbanti, esiste un disturbo comprendente a volte deficit di empatia cognitiva, la sindrome di Asperger; in questa, tale deficit non deve essere interpretato come negativo, ma neutro, in quanto se nei pazienti mancano i risvolti "positivi" dell'empatia, mancano anche quelli "negativi" (schadenfreude, acredine).

Secondo i concetti esposti dall'economista e saggista statunitense Jeremy Rifkin in un saggio del 2010 intitolato La civiltà dell'empatia, l'uomo moderno è naturalmente predisposto all'empatia, intesa come capacità di immedesimarsi negli altri - uomini o animali - attraverso i cosiddetti neuroni specchio, così da sentirne le sofferenze, le gioie, le fatiche ecc. Secondo Rifkin «sono circa 20.000 anni che non siamo più homo sapiens sapiens, ma homo empathicus. Leghiamo tra di noi, socializziamo, ci occupiamo l'uno dell'altro, siamo cooperativi. Ci basiamo su tre colonne portanti per il nostro benessere: la socializzazione, la salute (igiene e sanità, nutrizione), e la creatività. Quando una di queste tre colonne o l'empatia viene a mancare o repressa, vengono fuori i nostri alter-eghi, da cui la violenza, l'egoismo, il narcisismo ecc. Poi però, ci pentiamo di aver fatto del male, perché non è proprio nella nostra natura.

La partecipazione ai problemi e alle sofferenze di chi non appartiene al nostro gruppo, ossia che è in qualche modo "straniero", è tendenzialmente minore di quella che riserviamo ai membri del cosiddetto in group. Tuttavia, bastano poche esperienze positive con questi estranei per apprendere la capacità di esprimerla pienamente anche verso di essi

Verso gli estranei, ossia verso i membri dell'out group, in genere l'empatia si sviluppa invece molto più debolmente, specie se appartengono a gruppi verso i quali sono presenti stereotipi negativi. Questo – osservano gli autori del nuovo studio – può alimentare i conflitti sia tra persone di differenti nazionalità, sia fra gruppi culturali non omogenei che vivono in una società multiculturale.

Grit Hein e colleghi si sono chiesti se era possibile dimostrare sperimentalmente che questo bias sfavorevole può essere superato grazie a un
apprendimento effettuato con le stesse modalità di quando si impara a riconoscere un potenziale pericolo: coinvolgendo le stesse aree cerebrali e in seguito a pochissime esperienze (negative nel caso del pericolo, positive nel caso del superamento del bias).

I ricercatori hanno sottoposto a un test alcuni soggetti di cui hanno monitorato l'attività di alcune aree cerebrali coinvolte nell'espressione dell'empatia. I soggetti sono stati monitorati -  sia prima sia dopo la “fase di apprendimento” dell'esperimento - mentre osservavano membri del proprio gruppo e membri dell'out group che ricevevano una scossa elettrica. La fase di apprendimento consisteva in una serie di sessioni sperimentali in cui a ricevere la scossa erano i soggetti stessi. In questo caso, tuttavia, la scossa poteva essere evitata se un membro dell'out group interveniva in soccorso del soggetto.

Dall'esame dei risultati è apparso che quando i soggetti testati erano stati aiutati a evitare la scossa – anche solo un paio di volte – da membri dell'out group, la loro risposta cerebrale empatica alla vista di un membro dell'out group che riceveva una scossa era molto superiore sia a quella che avevano prima della fase di apprendimento sia a quella manifestata da soggetti che non erano stati aiutati. Ossia, i soggetti avevano imparato a provare maggiore empatia per quegli “stranieri”.







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martedì 29 dicembre 2015

INCIDENTI DI CAPODANNO



E' a Capodanno che si verifica il maggior numero di incidenti, talvolta mortali, provocati dall'abitudine di accendere petardi e fuochi d'artificio senza adottare adeguate misure di sicurezza per tutelare la salute delle persone. Le principali lesioni sono su mani, viso, occhi, parti del corpo per le quali è importante un rapido accesso in ospedale.

Gli incidenti più gravi derivano, quasi sempre, dalla mancata adozione delle misure di sicurezza imposte dalla legge e dalle precauzioni suggerite dal buon senso. Dal punto di vista statistico i ragazzi tra gli 11 e i 14 anni sono i più colpiti dalle esplosioni e gli organi più interessati sono mani e occhi. Spesso sono proprio loro, i più giovani che credono di mostrare il loro coraggio usando i fuochi in modo spavaldo, a meravigliarsi dei danni che possono provocare giochi pirotecnici apparentemente innocui. Anche se può sembrare strano, molti incidenti avvengono il "giorno dopo" a causa dei botti inesplosi che si trovano per strada, in un giardino o dietro una macchina.

Pericolosi in se’, da maneggiare con cura e attenzione, diventano pericolosissimi se non sono realizzati a regola d’arte. E in realtà il mercato dei fuochi pirotecnici abusivi e fuori norma continua purtroppo a fiorire. L’allarme è lanciato da FareAmbiente, con il suo consueto rapporto di fine anno. Dai dati della Consulenza statistica attuariale dell’Inail – sottolinea il rapporto – emerge che dal 2012 al 2014 sono stati 72 gli incidenti sul lavoro registrati nel settore dei fuochi pirotecnici e di questi 12 hanno avuto esito mortale. A questi si sono aggiunti nel 2015 i 14 morti causati dagli incidenti di Qualiano e Modugno, dove il 13 maggio 2015 e il 24 luglio sono morte 4 e 10 persone. In Italia il comparto, secondo l’Inail conta meno di 300 aziende, per un totale di circa 500 lavoratori, a questi si devono aggiungere le aziende che lavorano in nero e quindi non censite (che sono almeno un altro 30% che si sommano a quelle censite). Il 60% degli infortuni dal 2010 al 2014 hanno subito ferite e contusioni, in particolare agli arti inferiori e alla testa. Tra le cause più frequenti si registrano la “perdita di controllo di macchinari/utensili” (più di un terzo dei casi), lo “scivolamento, inciampamento con caduta” (un quarto dei casi) e ovviamente “esplosione, incendio” (un quinto dei casi). È il centro sud a subire i maggiori danni sul lavoro in suddetto comparto, anche perché è la zona in cui sono presenti in modo più capillare le imprese (di carattere principalmente familiare con in media due addetti). A questi tipi di incidenti si legano quelli causati dall’uso scorretto da parte degli utenti, che usano in modo inappropriato materiale esplosivo durante le festività natalizie. Nel 2014 sono stati del – 30% circa i feriti dal 2013, passando da 361 a 251, mentre il totale dei feriti con prognosi superiore a 40 giorni è sceso da 16 a 12. La città con il maggior numero di feriti è stato Napoli con 48 persone. I dati evidenziano anche una riduzione sul numero dei minori di 18 anni. In base ai dati scaturiti dall’indagine posta in essere dall’Ufficio Studi e ricerche di FareAmbiente, il 56% degli italiani acquista fuochi pirotecnici non a norma,il 46% sa che sono pericolosi ma sono convinti di poterli usare senza problemi. Il 62% del campione non rinuncerebbe mai a sparare fuochi pirotecnici in quanto fanno parte della tradizione. Il 12% è contrario in quanto possono causare problemi agli animali.



Il discriminante per l’acquisto, in caso di botti non è il prezzo (13%) ma il rumore e i colori ( 49%), seguito poi dalla sicurezza (25%). Analizzando i dati della Guardia di Finanza si evince come il periodo buio e pericoloso è il mese di dicembre, i dati evidenziano infatti come i sequestri sono inferiori al 10% di quelli totali (anno 2015). I dati evidenziano anche una riduzione nei sequestri fra il 2013-2014, con invece un incremento i persone denunciate a piede libero e arrestare. Nel 2015 sono invece aumentate le persone arrestate. In base ai dati scaturiti dall’indagine posto in essere dall’Ufficio Studi e ricerche di FareAmbiente, il 56% degli italiani acquista fuochi pirotecnici non a norma,il 46% sa che sono pericolosi ma sono convinti di poterli usare senza problemi.
Il 62% del campione non rinuncerebbe mai a sparare fuochi pirotecnici in quanto fanno parte della tradizione. Il 12% è contrario in quanto possono causare problemi agli animali. Il discriminante per l’acquisto, in caso di botti non è il prezzo (13%) ma il rumore e i colori (49%), seguito poi dalla sicurezza (25%).




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lunedì 28 dicembre 2015

LA DENQUE



Il primo caso di dengue mai documentato risale probabilmente all'enciclopedia medica cinese realizzata durante la Dinastia Jìn, tra il 265 e il 420, in riferimento a un "veleno acquoso" associato a insetti volanti. Numerose epidemie sono state descritte durante il XVII secolo, ma la prima documentata è quella che, tra il 1779 e il 1780 colpì Africa, America Settentrionale e gran parte dell'Asia. Nel 1906 fu confermata la trasmissione della malattia mediata da zanzare del genere Aedes e, nel 1907, la dengue divenne la seconda malattia dopo la febbre gialla dove fosse stata dimostrata un'eziologia virale.

Fino agli anni quaranta del XX secolo, le epidemie furono infrequenti. La grande diffusione della dengue durante e dopo la seconda guerra mondiale è stata attribuita al dissesto ecologico causato dalla guerra stessa, che portò alla diffusione della malattia in varie aree del mondo prima risparmiate e alla comparsa della sua forma emorragica. Questa forma fu descritta per la prima volta nelle Filippine nel 1953, diventando, a partire dagli anni settanta, una delle principali cause di mortalità infantile nelle Americhe e nelle isole dell'oceano Pacifico. Nel 1981 si venne a sviluppare un'epidemia da virus DENV-2 in pazienti dell'America Centrale e Meridionale che avevano contratto il DENV-1 diversi anni prima e fece per la prima volta la sua comparsa lo shock caratteristico della fase critica della malattia.

Di origine virale, la dengue è causata da quattro virus molto simili (Den-1, Den-2, Den-3 e Den-4) ed è trasmessa agli esseri umani dalle punture di zanzare che hanno, a loro volta, punto una persona infetta. Non si ha quindi contagio diretto tra esseri umani, anche se l’uomo è il principale ospite del virus. Il virus circola nel sangue della persona infetta per 2-7 giorni, e in questo periodo la zanzara può prelevarlo e trasmetterlo ad altri.

Nell’emisfero occidentale il vettore principale è la zanzara Aedes aegypti, anche se si sono registrati casi trasmessi da Aedes albopictus. La dengue è conosciuta da oltre due secoli, ed è particolarmente presente durante e dopo la stagione delle piogge nelle zone tropicali e subtropicali di Africa, Sudest asiatico e Cina, India, Medioriente, America latina e centrale, Australia e diverse zone del Pacifico. Negli ultimi decenni, la diffusione della dengue è aumentata in molte regioni tropicali. Nei paesi dell’emisfero nord, in particolare in Europa, costituisce un pericolo in un’ottica di salute globale, dato che si manifesta soprattutto come malattia di importazione, il cui incremento è dovuto all’aumentata frequenza di spostamenti di merci e di persone.



Normalmente la malattia dà luogo a febbre nell’arco di 5-6 giorni dalla puntura di zanzara, con temperature anche molto elevate. La febbre è accompagnata da mal di testa acuti, dolori attorno e dietro agli occhi, forti dolori muscolari e alle articolazioni, nausea e vomito, irritazioni della pelle che possono apparire sulla maggior parte del corpo dopo 3-4 giorni dall’insorgenza della febbre. I sintomi tipici sono spesso assenti nei bambini.

La diagnosi è normalmente effettuata in base ai sintomi, ma può essere più accurata con la ricerca del virus o di anticorpi specifici in campioni di sangue.

La misura preventiva più efficace contro la dengue consiste nell’evitare di entrare in contatto con le zanzare vettore del virus. Diventano quindi prioritarie pratiche come l’uso di repellenti, vestiti adeguati e protettivi, zanzariere e tende. Dato che le zanzare sono più attive nelle prime ore del mattino, è particolarmente importante utilizzare le protezioni in questa parte della giornata.
Per ridurre il rischio di epidemie di dengue, il mezzo più efficace è la lotta sistematica e continuativa alla zanzara che funge da vettore della malattia. Ciò significa eliminare tutti i ristagni d’acqua in prossimità delle zone abitate, ed effettuare vere e proprie campagne di disinfestazione che riducano la popolazione di Aedes.
Non esiste un trattamento specifico per la dengue, e nella maggior parte dei casi le persone guariscono completamente in due settimane. Le cure di supporto alla guarigione consistono in riposo assoluto, uso di farmaci per abbassare la febbre e somministrazione di liquidi al malato per combattere la disidratazione. In qualche caso, stanchezza e depressione possono permanere anche per alcune settimane.
La malattia può svilupparsi sotto forma di febbre emorragica con emorragie gravi da diverse parti del corpo che possono causare veri e propri collassi e, in casi rari, risultare fatali.
Attualmente sono allo studio una serie di vaccini, anche se la conoscenza del virus e del suo meccanismo di azione sono aumentate solo in anni recenti, dopo che si è registrato un incremento della diffusione della malattia. Purtroppo, l’aver contratto la dengue protegge la persona solo contro il virus che l’ha causata ma non contro gli altri tre tipi virali.






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domenica 27 dicembre 2015

LA PSICHIATRIA



Gli antichi Egizi ritenevano che tutte le malattie, indipendentemente dalle manifestazioni, avessero un'origine fisica e ponevano nel cuore la sede dei sintomi che oggi chiamiamo psichici: non vi era dunque alcuna distinzione tra malattia fisica e mentale.
La storia della psichiatria in senso stretto, così come la stessa medicina scientifica, nasce con i Greci i quali, per primi, spezzarono le catene dell'interpretazione e della sottomissione alla malattia mentale vista come dato esclusivamente mistico-soprannaturale esprimendosi in maniera molto chiara e definita a favore delle cause naturali di quest'ultima. In altri ambiti del pensiero greco i concetti a carattere religioso naturalmente sopravvissero, esprimendosi come causa scatenante e inconfondibile di alcune malattie, con metodi di trattamento che andavano anche al di fuori da quelli che erano i canoni della medicina ufficiale, basti pensare al cosiddetto morbo sacro: ovvero l'epilessia.

Ippocrate (460 a.C.-377 a.C.) introdusse il concetto innovativo che la malattia e la salute dipendessero da specifiche circostanze della vita umana e non da superiori interventi divini ("la divinità vive nel metabolismo del cervello stesso"): la condizione di salute o malattia veniva spiegata, organicamente, come risultante dello sbilanciarsi di quattro umori (teoria umorale), in particolare la depressione era considerata legata ad un eccesso di bile nera. Basandosi sull'osservazione clinica, Ippocrate individuò nelle freniti le malattie psicotiche organiche primitive del cervello (disturbo mentale acuto con febbre); nelle manie i disturbi mentali acuti senza febbre; nella melanconia il disturbo mentale stabilizzato o cronico (insania); sottrasse l'epilessia al mondo magico ("morbo sacro", dovuto alla maledizione degli dei), attribuendole un significato simile a quello odierno.

Per quanto concerne i sintomi somatici senza danno fisico, ovvero le somatizzazioni, essi prendevano il nome di isteria, dal termine greco indicante l'utero: si riteneva che tale organo si spostasse all'interno del corpo, entrando in contatto con cuore, fegato, testa, arti, che così influenzati dolevano, l'isteria fu vista per la prima volta come il frutto dell'insoddisfazione erotica, il che coincide sostanzialmente con l'interpretazione fornita dalla scuola psicoanalitica di Freud.

La nostra fonte migliore per quanto riguarda i rudimentali e iniziali metodi terapeutici nei confronti delle malattie mentali si devono al metodista Sorano d'Efeso, il quale nella sua opera di medicina generale ci ha anche offerto il suo punto di vista nei riguardi delle principali malattie psichiatriche; punto di vista che, nonostante appartenga ad un esponente del pensiero metodista e quindi non al pensiero tradizionale umorale ippocrateo, è talmente simile a quello degli altri autori da poter essere usato tranquillamente come sintesi generale dell’intera psichiatria greco-romana. Sorano distingue tre tipi di malattie mentali principali: La frenite ovvero la malattia dello spirito (originariamente localizzato nel diaframma dal greco fren) descritta come “malattia acuta accompagnata da stati febbrili e polso piccolo”, la mania e la malinconia. Esse derivano tutte, secondo i criteri generali del pensiero metodista, da un eccessivo rilassamento (status laxus) o costrizione dei tessuti (status strictus). Per quanto riguarda la frenite i metodi terapeutici proposti sono l’ isolamento in una camera illuminata o oscurata a secondo del livello di tensione dei tessuti, in stanze dove al paziente non sia possibile fuggire e dove possa essere tenuto costantemente sotto controllo. Egli individua inoltre il centro nevralgico di tale malattia nella testa. Per quanto riguarda la mania Sorano smentisce immediatamente i filosofi platonici che la identificavano esclusivamente come una malattia dello spirito riportandola su un piano squisitamente clinico e naturale. Coloro che si ammalavano di tale malattia mostravano come sintomi sbalzi di umore improvvisi, stati di furore febbrile o profonda tristezza, oppure stati di delirio continuo (non mancavano persone che credevano di essere cavalli o grandi attori) ; i metodi di trattamento erano molto simili a quelli della frenite con l’ unica differenza che venivano consigliati anche primitivi trattamenti psicoterapeutici a seconda del tipo di mania che affliggeva il paziente, venivano comunque sconsigliati l’ eccessivo uso di salassi e purghe(invece abbondantemente utilizzati dagli ippocratici). La malinconia o “rabbia nera” viene descritta come una malattia caratterizzata da stadi di profonda depressione, chiusura in sé stessi, desiderio di morire, contornata occasionalmente da una breve e labile giovialità. Il punto di sviluppo di tale malattia viene visto non più nella testa bensì nell’apparato digerente. L’ isteria invece non viene neppure nominata da Sorano, ma altri esponenti della teoria umorale come Areteo la considerano una malattia dell’utero.

Sebbene le malattie mentali vengano descritte come malattie del corpo il cervello non viene mai nominato. Del tutto in contrasto con la tradizione della medicina greca Sorano non parla di prognosi delle malattie mentali, mentre Areteo parla di frequentissime ricadute che possono durare tutta la vita. A causa dell’ impossibilità da parte del medico di guarire definitivamente le malattie mentali si ribadisce il diritto da parte del medico di rifiutarsi di trattare coloro che sono affetti da tali malattie, principio che rimarrà sostanzialmente inalterato fino agli inizi del Settecento.

Un'opinione ci manca invece riguardo ad un eventuale ricovero dei malati mentali, sebbene alcuni passi del diritto romano ci lasciano intendere che le prigioni potessero avere anche questa funzione, la problematica rientrava probabilmente nella più estesa sfera della vita privata, Ospedali non ce n’erano proprio.

Sulla psichiatria medievale non c’è molto da dire, probabilmente perché della medicina medievale in generale ne sappiamo ben poco, o forse perché il Medioevo ha prodotto ben poco di positivo nel campo della medicina. Si può dire che la più valida conquista del Medioevo in questo campo fu dato dal livello di organizzazione dell’assistenza ospedaliera ai malati mentali, soprattutto nei paesi arabi: siamo a conoscenza infatti di reparti per malati mentali negli ospedali di Baghdad (750), Cairo (873), e di vere e proprie strutture nate appositamente per la cura e la gestione dei malati di mente (Damasco 800, Aleppo 1270, Kaladun 1283). Nonostante il notevole livello di compassione e umanità dimostrato dai Musulmani nei confronti della pazzia, le conoscenze cliniche e terapeutiche eguagliavano grosso modo quelle dei Greci. Istituti simili a quelli già visti nel mondo arabo potevano essere ritrovate anche in Europa già a partire dal XIII secolo ad esempio a Parigi, Lione, Montpellier, Londra, Monaco, Friburgo, Zurigo; resta il fatto che il Medioevo portò ad un’ imbarazzante regressione di tutta la conoscenza e del livello di sviluppo della medicina raggiunto dal mondo classico. I malati mentali venivano spesso associati a gente indemoniata o sotto il controllo del diavolo, a streghe o maghi; per questo motivo si pensava che non dovessero essere curati da figure professionali mediche, bensì da sacerdoti e inquisitori. Altro fenomeno tipico del Medioevo sono le cosiddette ‘’epidemie psichiche’’ che investirono larghe fasce della popolazione: basti pensare ai flagellanti, al tarantismo, alla persecuzione degli ebrei, alle crociate dei pezzenti e ai veri e propri stati di possessione di interi gruppi nei conventi.



Il Rinascimento non fece alcun passo avanti nel campo della psichiatria, anzi i passi indietro furono mostruosi. Infatti mentre nel Medioevo la preoccupazione principale del mondo credente era quella di cacciare il demonio piuttosto che bruciare le streghe, nei secoli successivi si assiste ad una drammatica inversione di tendenza, per cui numerosi malati mentali, soprattutto donne, vengono fatte curare dalle fiamme piuttosto che da interventi clinici. Tuttavia alcuni grandi nomi della medicina del tempo si opposero a questa sanguinaria e disumana tendenza proponendo l’ origine delle malattia mentali non esclusivamente su un piano demoniaco ma anche ad un livello clinico-naturale. Si tratta della cosiddetta “prima rivoluzione psichiatrica” tra i cui fautori possiamo ricordare famosissimi nomi come Cornelio Agrippa, Paracelso, Girolamo Cardano, Lemnius e Johann Weyer. Nonostante questa aspra e sanguinaria persecuzione il Rinascimento si dimostra un secolo all’ insegna della contraddizione: numerosi istituti per malati mentali nascono infatti in questo periodo in Spagna (Valencia 1409, Saragozza 1425e Toledo 1440) e in America latina (San Hyppolito).

Lo scritto della “nuova psichiatria” che suscitò più opposizioni da parte della tradizione inquisitoria fu il “De praestigiis daemonum” di Johannes Weyer; il punto centrale di tale distanza dalla sanguinaria e primitiva tendenza inquisitoria è la concezione delle malattie mentali viste come eventi non solo esclusivamente demoniaci e soprannaturali, ma anche naturali; per questo motivo avendo a che fare con i malati mentali è necessario primariamente l’intervento di un professionista medico, e solo in seguito l’ assistenza spirituale di un sacerdote in modo che possa attuare una sorta di rieducazione spirituale del paziente, indemoniato o no. La linea comune che contraddistingueva gli appartenenti a questa prima rivoluzione psichiatrica era dunque il dubbio nei confronti dell’ origine squisitamente soprannaturale della pazzia, e l’ introduzione di un nuovo comune denominatore nella spiegazione razionale di tali disturbi, ovvero il concetto di immaginatio, (non molto distante in verità dalla nostra concezione di ‘’suggestione’’) ovvero quel tipo di forza psichico-spirituale capace di condizionare e di scatenare malattie psichiche e fisiche.

Indipendentemente da come si voglia giudicare la figura di Paracelso, egli fu senza dubbio il medico più famoso del suo tempo, e si dedicò alla psichiatria molto più dei suoi contemporanei dando un contributo sicuramente non indifferente allo sviluppo di tale disciplina. Nel 1520 scrisse infatti “Delle malattie che ci derubano della ragione" in cui innanzitutto riappropriava le malattie mentali della loro iniziale base naturale, quindi propone una principale distinzione delle malattie mentali in cinque tipologie differenti ovvero: epilessia, mania, “pazzia vera e propria”, ballo di San Vito e suffucatio intellectus. L’epilessia, distinta da Paracelso in altre 5 tipologie a seconda della zona di sviluppo, viene considerata un disturbo del cosiddetto spiritus vitae e paragonata, in accordo con la sua concezione del macrocosmo-microcosmo, ad un terremoto interiore. La mania viene descritta come un’alterazione della ragione e non dei sensi dovuta alla presenza di vapori malsani che a seconda della loro zona d’ azione, possono intaccare lo spiritus vitae provocando squilibri psichici ed emozionali piuttosto netti. La pazzia vera e propria, invece, viene divisa in alte 5 categorie ovvero:lunatici, insani, vesani, melancholici e obsessi ed è originata da cattive influenze astrali o dallo sperma difettoso del padre. Il ballo di San Vito viene attribuito all’ immaginatio o a sali irritanti che disturbano lo spiritus vitaee viene visto come una sorta di corea lasciva; la suffucatio intellectus, infine, viene considerata una forma mista di isteria e epilessia causata da vermi intestinali o problemi uterini. I metodi di trattamento di tali malattie da parte di Paracelso hanno il vanto di aver introdotto la chimica come nuova e utilissima forma terapeutica, sebbene la chimica proposta da Paracelso sia ancora legata alla misticheggiante arte dell’alchimia. Gli ultimi testi pubblicati da Paracelso come il “Delle malattie invisibili” (1531) o il “De lunaticis” rinnegano infine le più importanti innovazioni proposte dallo stesso Paracelso riportando le malattie mentali su un piano del tutto mistico e soprannaturale. Nonostante queste evidenti contraddizioni e la confusa mancanza di logica della sua produzione, Paracelso ha comunque il merito di aver introdotto la chimica anche nel trattamento delle malattie mentali provocando un non trascurabile passo avanti.

Uno dei contributi più importanti alla psichiatria del Seicento viene da uno svizzero: Felix Plater (1536-1614) autore del testo “Medizinische praxis”. In quest’opera Plater propone una sistematica suddivisione dei malati mentali per i quali manifestò uno straordinario interesse facendosi persino rinchiudere in un manicomio; tale suddivisione prevedeva due filoni principali ovvero: l'imbecillitas e la costernatio. In terzo luogo veniva l'alienatio, in cui inseriva anche l'alcolismo che a partire dal Seicento iniziava a divenire un problema generale su larga scala per numerosissimi individui, la malinconia, l’amore e la gelosia, mania e possessione demoniaca. Ne include infine la rabbia, il ballo di San Vito e la frenite. Il suo quarto gruppo di malattie mentali va sotto il nome di defatigatio, è in parte di origine soprannaturale (divina o diabolica) e può anche essere trattato come tale. Il livello di conoscenze e di suggerimenti terapeutici non rappresentano un così grande passo avanti rispetto al secolo precedente, tuttavia non si può non riconoscere al Plater un certo livello nell'osservazione clinico-patologica.

In linea di massima il Seicento non sviluppò poi grandissimi passi avanti rispetto ai traguardi raggiunti durante il Rinascimento; sicuramente si assiste ad un ridimensionamento della caccia alle streghe e agli indemoniati, tuttavia riportando il malato di mente su un piano nettamente umano la società inizia il lento ma progressivo slittamento del malato mentale in essere asociale e perciò costretto al totale isolamento fisico. Non a caso i regimi assolutistici di questo periodo, soprattutto in Francia, promossero numerose campagne di internamento dei poveri per ridurre la crisi sociale; in queste strutture come Bicetre e Salpêtrière, ma anche le Workhouses inglesi e le Zuchthaus tedesche, non vennero confinati solo i poveri, ma anche gli omosessuali, i delinquenti, coloro che non sottostavano all'autorità della Chiesa e infine proprio i malati mentali, che erano un numero così elevato da dover rendere necessario la creazione di reparti speciali per accoglierli, mentre a volte venivano rinchiusi direttamente nelle prigioni e incatenati senza un briciolo di umanità e senza nessun consulto medico; persino nelle istituzioni a carattere religioso come Il St. Lazare a Parigi istituito da San Vincenzo de' Paoli nel XVII secolo i malati mentali mantennero il loro carattere di esclusione sociale.

Se la psicosi nel corso del Seicento ancora sfugge all'attenzione del medico, discorso del tutto differente va fatto per le nevrosi, malattie molto di moda all'epoca, che iniziano ad essere investigate con l'occhio critico della ricerca medica. È proprio a questo punto della storia della psichiatria infatti che le nevrosi iniziano ad essere sottoposte a trattamento ambulatoriale da parte del medico. Testimonianze di famosi medici come Girolamo Mercuriali (1530-1606) e Thomas Sydenham lamentano la frequenza di nevrosi nei loro pazienti come ipocondrie, isterie, e problemi d'alcolismo.

Elemento comune a tutti questi grandi nomi della medicina è la ricerca di un denominatore comune nell'origine di tali patologie. Vale la pena citare l’importanza di Sydenham nella trattazione dell’isteria; egli la considera una malattia che affligge prevalentemente le donne, mentre negli uomini prende il nome di ipocondria, essa può manifestarsi sotto numerosissime forme: come epilessia, crisi di tosse, emicrania localizzata, tachicardia, o senso di costrizione a livello toracico. Essa deriva da un'”atassia” oppure uno spasmo degli “spiriti animali” che conosciamo già da Celso o Galeno. Degno di nota il fatto che Sydenham non identifichi esattamente l'isteria né con una malattia prettamente psichica né con una nettamente fisica, bensì rimanendo un appartenente alla tradizione umorale ippocratea, nel suo caso fa un’eccezione identificandola come una malattia degli spiriti animali che, non a caso nelle donne, sono particolarmente sensibili. La sua terapia è molto semplice e si basa essenzialmente su una dieta a base di latte e sullo stare a cavallo, da lui considerato essenziale.



Molte delle teorie di Sydenham sono state accusate di ispirarsi troppo a quelle del suo contemporaneo Thomas Willis, il quale oltre a dare una lucida descrizione di alcune comunissime nevrosi come l'isteria (sebbene ne vedesse il centro di sviluppo nel cervello e non nell’utero come Sydenham e il resto della tradizione medica classica) è anche considerato il padre della moderna neurologia (ne coniò lui stesso la parola), a cui diede un serio e decisivo contributo in campo anatomico (descrizione dei nervi cranici e del sistema nervoso autonomo, neurofisiologico (a lui dobbiamo il concetto della parola “riflesso”, così come la spiegazione della funzione della corteccia cerebrale) e neuropatologico. Significativi furono anche i contributi nella spiegazione della paralisi progressiva.

Di importanza rilevante fu anche l'opera del medico personale del papa Paolo Zacchia “Questiones medico-legales” del 1621 che tratta anche di molti problemi psichiatrici. Ultimo autore degno di nota è il medico Jean Denis che per primo diede alla luce la soluzione terapeutica della trasfusione di sangue per il trattamento delle malattie mentali, ottenendo anche discreti successi dopo aver trasfuso sangue di capra in alcuni suoi pazienti (shock?); tuttavia questa soluzione terapeutica venne presto messa fuori legge per via del decesso di alcuni suoi pazienti in seguito al trattamento e verrà ripresa dalla chirurgia soltanto nel corso dell'Ottocento.

Nel corso del XVIII secolo vennero fatti giganteschi passi avanti nel campo della psichiatria così come in altri settori grazie alla straordinaria e importantissima influenza dell'Illuminismo. Uno dei primi contributi fu la completa cancellazione del vecchio medievale preconcetto che identificava il malato mentale con il posseduto dal demonio. Inoltre, venendo meno con l'illuminismo il concetto dell'anima immortale, le malattie mentali iniziano a essere trattate con criteri decisamente più scientifici, e inizia a essere riconosciuta l'importanza della psicoterapia nel trattamento di tali malattie, andando oltre quello che era il punto di vista somatico.

Il sostanziale ottimismo verso il progresso dell'umanità da parte dei pensatori illuministi provocò una profonda fiducia nei confronti della completa guarigione dei malati mentali che scatenò un'ondata di filantropismo e di umanità nei vari istituti per il trattamento di tali malattie. Numerosi medici che si interessarono di questo problema come: Abraham Joly a Ginevra, Pinel nell'ospedale parigino di Bicetre, William Tuke a York e Vincenzo Chiarugi in Toscana, liberarono i malati mentali dalle catene che li imprigionavano promuovendo un trattamento più umano e rispettoso nei loro confronti.

Nel Settecento dunque il baricentro dell'interesse può tornare dalle nevrosi alle psicosi, rimane tuttavia utile precisare che la culla della ricerca psichiatria non era rappresentata dal grandissimo numero di istituti che iniziavano a sorgere in tutta l'Europa, bensì dalle piccole case di cura private (le ‘Maisons de Santè’) in cui gli autori classici ebbero i loro primi contatti con i malati mentali.

Altri traguardi raggiunti dall'illuminismo Settecentesco furono l'ingresso della psichiatria nei tribunali e un'iniziale forte attenzione per la prevenzione delle malattie mentali. Ciò non deve stupirci, essendo l'Illuminismo la corrente ideologica e di pensiero che diede inizio alle cosiddette scienze sociali, pare ovvio prevedere un loro utilizzo in campo sanitario, soprattutto per un tema di così scottante problematicità come la pazzia, e non devono neppure stupirci l'abbondante fioritura di teorie sociologiche sull'insorgenza di malattie mentali, così come di disturbi quali l'alcolismo, che molti di questi autori dipingono come un vero e proprio disturbo mentale.

La svolta decisiva viene sicuramente dall'influsso del chimico e clinico di Halle Geor Ernst Stahl (1660-1734), che con la sua teoria nosologica, notevolmente influenzata dalle moderne correnti mediche della iatrofisica e della iatrochimica, dal nome “animismo”, influenzò notevolmente le generazioni successive. Punto cardine di questa concezione era l’idea che tutte le trasformazione fisico-chimiche del nostro corpo potevano essere regolate solo da un principio comune come l’anima, rappresentando dunque la malattia come una serie di impulsi e reazioni dell’anima contro gli influssi nocivi che ne ledono la stabilità e l'integrità.

Questo tipo di concezione psicogena scosse la precedente tradizione somatica, riscuotendo uno straordinario successo soprattutto in Germania, dove non a caso in quegli stessi anni si andava sempre più affermando la corrente filosofica dell'idealismo. Nel XVIII secolo, comunque, l'interpretazione somatica non si andò semplicemente affiancando a quella psicologica, ma subì un processo di radicale trasformazione, soprattutto grazie ai successi delle teorie solidistiche e localiste promosse dagli anatomopatologi quali Giovan Battista Morgagni, che sezionò numerosi malati mentali. A questo punto, come così spesso è accaduto nella storia della medicina, le nuove scoperte condussero ad un'accentuazione eccessiva e alla generalizzazione non giustificata dalla verità di singoli dati di fatto. Le scoperte di Albrecht Von Haller (1752) sulla sensibilità del sistema nervoso e sull'irritabilità dei muscoli furono immediatamente utilizzate e trasformate da Cullen di Edimburgo, che coniò una nuova teoria nosologia sulla patogenesi delle malattie mentali basta su un disturbo o su una malformazione fisica dei nervi, è a lui che dobbiamo il termine attuale di “nevrosi”, ed è sempre a lui che derivano le prime sollecitazioni all'uso della camicia di forza inventata da Mc Bride.

Nel tardo XVIII secolo si assiste ad una sintesi del pensiero somatico e di quello psicologico da parte del filosofo e medico Pierre Cabanis (1757-1808). Nel suo celebre “Traitè du physique et du moral de l’homme” egli tenta di spiegare i disturbi psicogeni su un piano fisiologico, non negando comunque l’importanza di traumi psichici nell’insorgere delle malattie mentali. Per questo motivo veniva finalmente riconosciuta l’importanza della psicoterapia, sebbene a quel tempo avesse delle connotazioni piuttosto rudimentali e grossolane. Comunque anche se il Settecento fu il secolo della psicoterapia, esso rappresentò anche il secolo in cui si introdussero metodi piuttosto barbari di trattamento psicoterapeutico come le violentissime terapie di shock delle immersioni in acqua gelida, o l'uso, per la prima volta, della corrente elettrica sui pazienti (non a caso a quel periodo risalgono le scoperte di Galvani e Volta) e la celebre sedia di Darwin (ideata dal medico Erasmus Darwin nonno del famoso Charles Darwin) in cui i malati mentali venivano fatti girare finché non usciva loro sangue da bocca naso e orecchie.

L'ampiezza dello sviluppo della psichiatria nel Settecento portò anche allo sviluppo di numerosissimi manuali di psichiatria sia in Inghilterra che a quel tempo dominava la scena della medicina clinica ( William Battie 1758, Arnold 1782, Harper 1789, Haslam 1798) che in Francia (Le Camus 1769, Dufour 1770, Daquin 1791) e persino negli Stati Uniti (Benjamin Rush 1801). Vale la pena citare il testo del medico inglese William Battie “Treatise on madness” come sintesi generale del pensiero della psichiatria scientifica del XVIII secolo. Egli in questo testo propone la classica classificazione delle malattie mentali, che lui divide in pazzia originaria e quindi congenita e pazzia secondaria, che può avere numerosissime cause, suggerendo infine alcuni metodi di trattamento piuttosto inutili e grossolani e non sfiduciando una lenta ma progressiva guarigione naturale del paziente.

Nonostante tutti questi passi avanti la vera svolta epocale della psichiatria si ebbe solo con Philippe Pinel e Jean-Etienne-Dominique Esquirol.

Pinel nacque nel 1745 in un piccolo villaggio del Sud della Francia quale rampollo di medici, trasferitosi a Parigi entrò nel gruppo degli idèologues che si riunivano a casa della vedova Helvètius e in seguito alla Rivoluzione francese ottenne nel 1795 la direzione del manicomio di Salpêtrière, dove ebbe luogo il famoso atto di liberazione dei malati dalle loro catene. Sebbene presso i suoi contemporanei fosse più famoso come internista che non come psichiatria il suo Traitè mèdicophilosophique sur l'aliènation mentale del 1801 rappresentò una svolta decisiva per la psichiatria del tempo. Questo trattato prende inizialmente le distanze dai suoi predecessori, insistendo sull'importanza del fattore filantropico della sua ideologia.

In seguito affronta il problema delle cause delle malattie mentali identificando innanzitutto l'ereditarietà, poi le istituzioni sociali carenti, uno stile di vita irregolare, le passioni spasmodiche (collera e panico) indebolenti e commoventi, il passaggio da una vita attiva a una inattiva, il conflitto tra pulsioni istintuali e dogma religioso e solo infine fenomeni fisici come l'alcolismo i lesioni craniocerebrali. A questo punto, dopo una breve descrizione della sintomatologia, Pinel propone la sua classificazione delle malattie mentali appoggiandosi essenzialmente al giudizio dei classici che l'hanno preceduto; egli ne distingue infatti 4 tipo ovvero: mania, malinconia, demenza e idiozia.

La mania, o delirio generalizzato, rappresenta nella sua visione il più semplice dei disturbi mentali, essendo derivato da un disturbo dei nervi della regione dello stomaco (punto di vista simile ad una vecchia idea di Platone), si manifesta come un generale disturbo del comportamento ed è quella da cui è più semplice guarire. La malinconia consiste in un'ossessione delirante che affligge il paziente e può sfociare sia in mania che in stati di depressione acuta e perfino nel suicidio; la demenza, che di solito deriva dalla dissolutezza sessuale, consiste in una completa mancanza di logica a livello di pensiero, mentre l'idiozia consiste in una completa assenza di attività spirituale. Di importanza decisiva dal punto di vista terapeutico sono soprattutto i consigli sul livello di organizzazione degli istituti per malattie mentali. L'atteggiamento doveva essere deciso e al tempo stesso liberale, essenziale la suddivisione degli istituti in reparti, sconsigliatissimo l’uso delle catene mentre la camicia di forza poteva essere utilizzata seppur con un uso limitato. Importante inoltre la continuità del rapporto, il mantenimento di un certo ordine e lo studio della personalità dei malati; andava incoraggiata l’attività fisica e meccanica, bisognava evitare invece di lasciare eccessivo spazio alla religiosità del paziente che rischiava spesso di esaltarli, certamente fondamentale l'isolamento dei malati dalle proprie famiglie il cui contatto aveva spesso esiti solo controproducenti. Consiglia inoltre un controllo continuo dei malati malinconici essendo il pericolo del suicidio sempre presente, condannata invece la violenza come terapia di shock e l'uso delle docce fredde definito dallo stesso Pinel “delirio medico peggiore del delirio stesso del malato”, in caso di presunta guarigione occorreva infine prestare molta attenzione alla dimissione dei malati convalescenti.



Riassumendo si può dire che i punti focali della produzione di Pinel sono: l'indifferenza nei confronti di teorie e classificazioni, la sua forte enfasi sull'osservazione dei fatti clinici e sulla loro interpretazione statistica, il suo “ippocratismo” ovvero il suo atteggiamento improntato all'attesa, all'osservazione e ad una visione etica della vita, la sua preferenza per le ipotesi eziologiche di natura psicogena, la sua filantropia e la sua fiducia nella guarigione dei pazienti. Tra i suoi allievi psichiatri quello che sicuramente ebbe un'importanza decisiva nello sviluppo della psichiatria ad un livello molto simile a quello del suo maestro fu sicuramente Esquirol.

Esquirol proveniva dalla stessa regione della Francia di Pinel, anch'egli figlio di medici, con lo stesso orientamento ideologico del maestro. Di enorme importanza per il moderno sviluppo della psichiatria Esquirol tenne molti corsi di psichiatria che contribuirono a rendere la scuola francese una delle più importanti della prima metà dell'Ottocento, fu uno statista migliore di Pinel e non esitò a mettere in pratica ogni tipo di nuovo rimedio terapeutico nella cura dei suoi pazienti. Fu inoltre uno dei primi ad accettare l'interpretazione di Franz Joseph Gall che identificava nel cervello, e non più nello stomaco l’origine della mania. Esquirol evidenziò l'importanza dei cambiamenti sociali e dell'isolamento dell'uomo moderno come genesi delle malattie mentali, non a caso il termine aliènation è una delle espressioni francesi per indicare le malattie mentali. A Esquirol risale inoltre la distinzione tra illusione e allucinazione e una particolare attenzione per la scottante questione investigata dal punto di vista statistico sul presunto aumento delle malattie mentali nell’epoca moderna rispetto al passato. Dal punto di vista delle riforme sociali a lui risale la legge del 1838 che stabiliva le norme di gestione degli istituti psichiatrici in Francia, legge poi presa a modello da numerosi paesi europei. Un famoso istituto privato fondato su questo modello è '’istituto privato parigino del dottor Esprit Blanche e di suo figlio Emile in cui trovarono rifugio molti famosi artisti e letterati, da Nerval a Maupassant. Degli allievi di Esquirol è interessante citare Etienne-Jean Georget (1795-1828), amico del pittore Gèricault, che si interessò soprattutto di psichiatria forense e di localizzazione cerebrale delle malattie mentali. Jean-Pierre Falret fu pioniere dello studio del suicidio, fu il primo nel 1853 a descrivere la “follia circolare” e, quale importante innovazione sociale, promosse la creazione di fondi speciali per malati dimessi (1843). Louis Florentin Calmeil fu uno dei primi a considerare la paralisi progressiva come una malattia specifica (1826) e fu inoltre l'autore di una classica storia sulle psicosi di massa. La teoria sulla paralisi progressiva vista come una malattia a sé stante apparteneva in realtà a Antoine Laurent Bayle, un esponente del movimento somatico. La contrapposizione tra orientamento psicologico e orientamento somatico sulla genesi delle malattie mentali non raggiunse in Francia lo stesso livello di antagonismo di paesi come la Germania, tuttavia tra i due schieramenti prevalse quello somatico, che anzi assunse la peculiare forma della teoria della degenerazione psichiatrica.

Per quanto riguarda la storia della psichiatria dell'Ottocento è necessario ora addentrarci ed esaminare lo sviluppo di tale disciplina scientifica in Germania, che nel corso del XIX secolo offrirà la psichiatria dominante su piano internazionale. Nei primi decenni del secolo essa era stata dominata dal movimento Romantico, così come tutte le altre discipline culturali e la stessa medicina; non a caso molti psichiatri di quel tempo furono anche poeti. L'espressione più pura del movimento Romantico in psichiatria è rappresentata dal movimento degli Psychiker, ovvero coloro che consideravano le malattie mentali patologie pure di un'anima senza corpo; in contrapposizione ai Somatiker che intendevano le malattie mentali esclusivamente nella loro componente somatica, accompagnata da disturbi più o meno grave di carattere di tipo psicologico. Occorre precisare che gli appartenenti al movimento psichico erano del tutto distanti dalle moderne concezioni psicopatologie, e ciò che loro intendevano per “psichico” apparteneva in realtà prevalentemente alla sfera morale. Numerosi prominenti medici romantici consideravano infatti le malattie come frutto del peccato. Il più eminente promotore di questo punto di vista in psichiatria fu Johann Christian August Heinroth, egli infatti nel suo manuale del 1818 considerava la malattia mentale una vera e propria malattia dell'anima, e quindi essenzialmente una forma di non-libertà individuale. Il peccatore veniva infatti punito da Dio con la perdita della volontà personale, questa teoria rifiutava ovviamente il concetto di ereditarietà in quanto ogni individuo è dotato di un'anima propria unica e irripetibile. Accanto a questi “psichici” ad orientamento religioso ve ne erano anche alcuni ad orientamento etico, per cui il criterio ultimo della salute psichica era l'agire rettamente e moralmente ispirati; le deviazioni mentali erano pertanto causate da passioni smodate e immorali. Molte di queste teorie rappresentarono sicuramente dei passi indietro rispetto alle conquiste ottenute in altri paesi, basti pensare che alcuni di questi psichiatri riconsiderarono perfino le possessioni demoniache come causa delle malattie mentali. Molto più sobrio era l'atteggiamento mentale dei somatici, sebbene non privo anch'esso di influenze mistiche di chiaro sapore romantico. Tra di essi ricordiamo Friederich Nasse che fondò numerose riviste psichiatriche e Carl Wigand Maximilian Jacobi che si interessò di tutte le manifestazioni somatiche delle malattie mentali.

Sul piano organizzativo la psichiatria tedesca di quegli anni fu caratterizzata da una notevole crescita: furono fondati numerosissimi istituti moderni (nel 1811 Sonnenstein, nel 1825 Siegburg, nel 1830 Sachsenberg) e furono proprio i direttori di questi istituti a rappresentare tra il 1830 e il 1860 la forza trainante della psichiatria tedesca. Sul piano ideologico costoro erano orientati nel senso di un'antropologia filosofica che si basava su un'unità innegabile tra anima e corpo e rappresentarono una sorta di punto intermedio tra il Romanticismo e il meccanicismo più grezzo della seconda metà del secolo; grazie al contributo di Wilhelm Griesinger fu quest'ultimo punto di vista a prendere il sopravvento e la “psichiatria istituzionale” tedesca fu rimpiazzata dalla “psichiatria universitaria” tedesca ottenendo vasto credito sul piano internazionale. La prima metà del XIX secolo vide anche l'utilizzo smodato di metodi di trattamento terapeutico piuttosto brutali come la sedia girevole, le docce fredde e la cosiddetta terapia “della vergogna e del dolore”.

Wilhelm Griesinger rappresentò per la psichiatria tedesca di quel tempo un decisivo punto di svolta. Nato a Stoccarda nel 1817 studiò medicina a Tubinga e a Zurigo diventando un ottimo internista e un ottimo psichiatra, nel 1845 pubblicò il suo testo più importante nel campo della psichiatria ovvero Patologia e terapia delle malattie psichiche. In questo testo egli esprime l'esigenza di poter conferire una localizzazione patologica del cervello nella diagnosi delle malattie psichiche, sebbene sia consapevole che per non tutte le malattie mentali possano essere riscontrate lesioni cerebrali corrispondenti; egli riconosce inoltre l'importanza delle cause psicologiche nell'insorgere delle patologie mentali ma ammonisce in una loro sopravvalutazione. Nel suo secondo testo di carattere psichiatrico, ovvero le Considerazioni preliminari a carattere fisiopatologico, egli afferma che tutte le percezioni sensoriali mettono capo al cervello dove vengono trasformate in rappresentazioni, le quali possono anche rimanere inconsce; egli molto prima di Freud sosteneva che la maggior parte della vita psichica potesse aver luogo a livello inconscio. Le stimolazioni esterne del cervello davano dunque luogo a rappresentazioni anormali, che producevano disturbi soprattutto a livello della sfera emotiva. Il dolore psichico, elemento costitutivo delle malattie mentali, si può spiegare in maniera analoga al dolore fisico e dipende, nella sua visione, dall'irritabilità del cervello. Il soggetto affetto da un dolore psichico troppo grande manifestava un disturbo dell'attività sensoriale con la proiezione di idee false (deliri) che conducevano poi ad azioni motorie e quindi a decisioni fuori strada. Questo disturbo dei riflessi formava la base della teoria psichiatra di Griesinger che appunto si fondava su una sorta di teoria dell'azione riflessa.

In maniera impercettibile Griesinger passa poi dalla fisiologia ad una primitiva analisi psicologica dell'esistenza umana, ovvero la sua “psicologia dell'Io”. Egli concepisce l'Io (ego) come un'istanza in cui sfociano tutte le varie rappresentazioni elaborate dal cervello, quando l'Io è in salute queste rappresentazioni sono in equilibrio reciproco le une con le altre e il soggetto è capace di autodominio e capacità critico-razionali che gli permettono di realizzare il suo senso di libertà. Quando l'Io subisce degli influssi esterni, che possono essere di natura psichica ma anche fisiologica, esso tende inizialmente ad opporsi all'insorgere di queste alterazioni con lo sviluppo di emozioni altrettanto forti come la tristezza, a lungo andare se le alterazioni risultano essere troppo gravi l'Io può risultarne frantumato e addirittura distrutto; nel caso di una distruzione dell'Io la guarigione risulta assolutamente impossibile. Dopo aver delineato questi peculiari e primitivi elementi di psicologia Griesinger analizza infine in dettaglio i disturbi del tono dell'umore, della sensibilità, del pensiero, del sensorio, della volontà e della motricità. I disturbi mentali iniziano spesso con stati d'ansia in cui il soggetto diviene eccessivamente sensibile alle influenze esterne diventando, a lungo andare, apatico e ottuso. Il corso delle idee subisce un'accelerazione provocando confusione mentale e idee deliranti che prendono le basi dalle precedenti convinzioni del malato; la memoria rimane in genere ben conservata. I disturbi della volontà variano dalla totale assenza della stessa (stupore), all'iperattività e l'estasi. I disturbi elementari della sensibilità consistono in stati allucinatori e deliranti che manifestano anche alcune analogie con stati di normalità che producono gli stessi effetti come il sogno, il delirio febbrile e gli stati di intossicazione. La guarigione poteva aver luogo sotto forma di “risveglio” così come essere il risultato di una lunga e sofferta lotta interna. Risultava ovviamente difficilissimo effettuare una diagnosi precisa nel trattamento delle malattie mentali in quanto bisognava tener conto di tutto il vissuto psichico del paziente, infatti l'anomalia fisica di una sezione del cervello, che deve essere individuata dal medico, poteva essere stata originata da una serie di fattori psichici di difficile individuazione.

Ulteriori brillanti osservazioni di Griesinger possono essere considerati la credenza in base alla quale i diversi paesi stranieri sembravano essere predisposti a differenti malattie mentali, la convinzione che la civiltà moderna avesse prodotto un consistente aumento delle malattie mentali e il rifiuto del concetto di ereditarietà, che veniva piuttosto visto come conseguenza di un'educazione troppo rigida o come maggiore predisposizione e sensibilità dell'anima nei confronti del dolore. La terapia doveva essere umana e non brutale, l'obiettivo principale era quello di rafforzare e ricostruire la frammentata identità dell'Io per cui non aveva senso assecondare i deliri del malato.

C'è da dire infine che Griesinger era piuttosto ottimista nei confronti di una possibile guarigione del malati mentali. L'eccezionale importanza di Griesenger sta nella sua enfasi sull'anatomia patologica del cervello e sulla sua visione unitaria della neurologia e della psichiatria; non a caso è considerato il padre della moderna neuropsichiatria. Il suo contributo va però anche oltre questo, egli ci offre nella sua opera una sintesi sistematica dal punto di vista anatomico, fisiologico-psicologico e clinico. La malattia mentale non viene più vista come una serie di sintomi ma come un processo unitario (fa sua infatti la concezione del maestro Zeller di “psicosi unica”) in cui per la prima volta vengono messe in luce in modo molto brillante le cause psicologiche della patogenesi dei disturbi mentali.

Con Griesinger ed i suoi allievi ha dunque di fatto inizio la fase di transizione dalla psichiatria asiliare alla psichiatria universitaria e grazie al suo contributo la psichiatria tedesca si apprestava sempre più a svolgere un ruolo di guida sul piano internazionale.

Le radici degli odierni sistemi di cura affondano nel XVIII secolo, quando furono concepiti i primi asili per gli alienati. Da queste strutture derivano i manicomi od ospedali psichiatrici che, anche in Italia, sono stati rifugio/prigione per i malati durante gran parte del XX secolo. In tali ambienti l'elevata concentrazione di pazienti favoriva l'osservazione e la classificazione delle malattie da parte degli psichiatri (o alienisti). In tale epoca la storia della psichiatria coincide di fatto con la storia della schizofrenia; Emil Kraepelin (1856-1926) ed Eugen Bleuler (1857-1939) ne furono i due principali studiosi.

Fino ad allora, la malattia mentale era considerata sostanzialmente inguaribile, progressiva ed incomprensibile. Questo giustificava la segregazione dei pazienti per la salvaguardia delle "persone civili e del pubblico decoro". Gli strumenti terapeutici in molte istituzioni mediche ottocentesche erano spesso improvvisati: docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e contenzione fisica sono solo alcune delle pratiche cui venivano sottoposti i pazienti. La situazione era destinata a migliorare notevolmente nel corso del Novecento, grazie all'introduzione di varie forme di psicoterapia ed alla scoperta degli psicofarmaci.



Un ulteriore contributo, sebbene in maniera del tutto autonoma, è contemporaneamente derivato dall'opera di Sigmund Freud (1856-1939), che criticava l'idea di incurabilità. Freud, basandosi sugli studi da lui effettuati insieme a Jean-Martin Charcot e Joseph Breuer e sulle nuove idee riguardanti l'inconscio, elaborò il primo modello completo sulle malattie mentali e un approccio psicoterapeutico per il loro trattamento (psicoanalisi). Il suo rimase il modello predominante utilizzato nella professione medica per il trattamento dei disturbi mentali fino alla metà del XX secolo, quando lo sviluppo della terapia elettroconvulsivante (introdotta negli anni trenta) e delle cure basate sui farmaci riportarono la pratica psichiatrica verso un approccio più meccanicistico.

Nella Germania nazista e poi nell'Unione Sovietica le conoscenze di psichiatria furono strumentali all'eliminazione di oppositori politici e all'attuazione di politiche eugenetiche. In Germania esistevano commissioni formate da psichiatri e medici incaricate di "selezionare" i malati fisici e psichici che dovevano subire l'eutanasia; in URSS la dissidenza politica poteva essere diagnosticata come alienazione mentale e l'oppositore veniva allontanato dal posto di lavoro e spesso rinchiuso in ospedale psichiatrico. Anche in Italia ci fu, sembra, qualche caso simile. Emblematica la vicenda di Ida Dalser e del figlio, che coinvolse la figura di Mussolini.

I primi psicofarmaci, destinati a cambiare in modo radicale e diffondere le metodologie di cura, furono sintetizzati fra gli anni quaranta e cinquanta e conobbero una rapida diffusione. Nei decenni seguenti, il netto miglioramento delle conoscenze di neurochimica ed il continuo sviluppo di nuove molecole (che possono agire sempre più incisivamente e selettivamente su particolari siti e tipi di recettori neurotrasmettitoriali, con effetti secondari progressivamente sempre più ridotti) hanno migliorato ed arricchito notevolmente le opzioni terapeutiche disponibili per la gestione e la cura delle principali malattie psichiatriche.

Dal secondo dopoguerra, i sostanziali progressi della ricerca nelle scienze del comportamento hanno dato origine a forme di psicoterapia che si sono dimostrate efficaci, in prove controllate, nel ridurre o eliminare molte condizioni psicopatologiche, specie con il supporto della terapia farmacologica. Il panorama delle psicoterapie oggi disponibili è vasto e complesso, facente capo a scuole di diverso orientamento e talora in conflitto tra loro, ma ha notevolmente ampliato la possibilità di scelta dei pazienti e di trattamento dei disturbi. Vanno ricordate: le psicoterapie psicodinamiche (d'ispirazione psicoanalitica), le terapie sistemiche e familiari, le psicoterapie di gruppo, la terapia del comportamento e la terapia comportamentale-cognitiva, talora denominata brevemente terapia cognitiva. In diversi casi, le psicoterapie possono essere integrate con trattamenti farmacologici, al fine di massimizzare l'efficacia congiunta dei due approcci.

Nel 1948 G. Brock Chisholm e J.R. Rees fondarono la Federazione Mondiale della Salute Mentale (WFMH, World Federation for Mental Health), che promosse iniziative governative per l'aumento degli psichiatri e dei fondi per le politiche di salute mentale.

Nel corso dei decenni successivi l'APA (American Psychiatric Association) produsse diverse edizioni del suo Diagnostic and Statistical Manual (DSM) dei disturbi mentali, che al momento attuale rappresenta la più diffusa tipologia di categorizzazione nosografica delle patologie psichiatriche, caratterizzata (secondo i suoi sostenitori, ma tale posizione è stata spesso criticata) da criteri di universalismo ed ateoriticità.

Sebbene tuttora non si conoscano terapie in grado di guarire completamente le forme più gravi di malattia mentale, psicofarmaci e psicoterapie, se usati in modo esperto, contribuiscono a migliorare in modo sostanziale la condizione dei pazienti; in molti casi è possibile arrivare ad una completa remissione o almeno ad un significativo controllo della sintomatologia.

Nel 1978 Franco Basaglia, famoso esponente dell'antipsichiatria, portò nel Parlamento italiano una legge che prevedeva la dismissione degli ospedali psichiatrici e la cura dei malati negli ambulatori territoriali. La Legge 180/78, tuttora vigente, prevede il ricovero solo in caso di acuzie (presso gli SPDC, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), rendendo l'Italia un paese pioniere nel riconoscere i diritti del malato e nel favorire la territorializzazione dei Servizi di cura del disagio psichico (CSM - Centri di Salute Mentale; SERT - Servizi per le Tossicodipendenze; Centri diurni; Residenze Protette o Semiprotette; Consultori).



La Psichiatria è una branca della medicina che si occupa della diagnosi e della cura delle malattie mentali, tra cui ad esempio la Depressione, il Disturbo Bipolare, i Disturbi d’Ansia, la Schizofrenia e i Disturbi alimentari. Rispetto alla psicologia, la psichiatria tende ad leggere il disturbo mentale come esito di un malfunzionamento del sistema nervoso centrale e per questo lo cura principalmente attraverso terapie farmacologiche. A proposito della concezione del disagio psichico da parte della psichiatria appare emblematico quello che scrive, alla vigilia della propria morte, il famoso psichiatra francese Henry Ey: “la nozione di malattia mentale deve muoversi nell’orbita della biologia e della medicina”. Va comunque considerata una disciplina di sintesi perché cerca di valutare contemporaneamente vari ambiti tra i quali quello psicologico, psichiatrico, neurologico e sociale. Per questo come dice lo psichiatra francese Henry Ey la psichiatria può essere vista come “una branca della medicina che ha per oggetto la patologia della vita di relazione a quel livello che assicura l’autonomia e l’adattamento dell’uomo nelle condizioni della propria esistenza”.

Lo psichiatra si occupa del trattamento dei disturbi psichici, tra cui  i più noti sono i Disturbi dell’Umore (ad esempio Depressione Maggiore Ricorrente e Disturbo Bipolare), i Disturbi d’Ansia (ad esempio Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Disturbo d’Attacchi di Panico e Disturbo d’Ansia Generalizzato), la Schizofrenia e i Disturbi Alimentari (ad esempio Anoressia Nervosa e Bulimia).

La psichiatria forense definisce un campo di sapere in cui la clinica psichiatrica si rapporta con la giurisprudenza: si occupa infatti dei disturbi mentali per quanto attiene ai principi legali.

Una nuova psichiatria senza più medicine, e che può ridurre i costi della sanità pubblica. Lo afferma in un libro, Anatomia della guarigione (Anima Edizioni), la dottoressa Erica Francesca Poli: una laurea in medicina e chirurgia, una specializzazione in psichiatria, e da oltre 10 anni alle prese con il metodo ISTDP, validato scientificamente e affermatosi negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Scandinavia, Australia, ma soprattutto in Canada, dove è integrato anche nel settore sanitario statale. Neuroscienze alla base, lavoro di terapia più sul corpo che sull’intelletto, ma soprattutto la possibilità di una nuova medicina integrata dove confluiscono tradizioni differenti dal solo dogma occidentale.

A farne simbolicamente le spese sembra essere la psicologia classica, con Freud e Jung pronti alla rottamazione. “In realtà, più che metterla da parte la dobbiamo trasformare ed integrare alla luce di nuovi dati neuroscientifici”, spiega la Poli al FQMagazine. “Le analisi junghiana e freudiana che ho sperimentato anche su me stessa, mi hanno insegnato molto ma nel lavoro clinico portavano a una fase di stallo per molto tempo. Ho aperto la mente ad altre tecniche e mi sono imbattuta nelle scoperte degli ultimi quindici anni nell’ambito delle neuroscienze dove si parla di cervello emotivo”. Il cosiddetto “sistema limbico” che sta sotto la corteccia cerebrale, sede del linguaggio e del pensiero, condiviso dall’uomo con gli altri mammiferi. “Questa parte del cervello è un ‘grande serbatoio’ che funziona come l’inconscio freudiano, dove hanno sede i misteri del cambiamento e anche dell’autoguarigione, perché a questo cervello risponde tanto un’emozione quanto un impulso fisico – continua la Poli –.  Parla il linguaggio delle immagini, dei sogni e delle sensazioni che tra l’altro è il linguaggio della psicanalisi, solo che poi è stato distorto dal punto di vista intellettuale. Il cervello emotivo non fa ragionamenti ma sente, e quando sente attiva una serie di reazioni fisiche”. Rabbia, tristezza, gioia, paura, le più classiche emozioni non sono pensieri, ma in primis eventi corporei. Basti pensare che se un’emozione permane nella persona in quanto non risolta, e magari repressa per tanto tempo, “equivale a centinaia di ormoni, sostanze, messaggi da cellula a cellula, da organo a organo, e di solito c’è un organo target più colpito di altri, che si tradurrà in manifestazione fisica. Questa ‘malattia’ non viene dal niente, ma è il risultato di un lungo processo di informazioni prima emotive, poi energetiche poi fisiche”.
Ed è qui che interviene il metodo di lavoro ISTDP creato dallo psichiatra Habib Davanloo e sviluppato ai massimi livelli dal medico d’urgenza e psichiatra Allan Abbass che Poli, e pochissimi altri colleghi in tutta Italia, applica ai pazienti nel suo studio di Milano: “Viene riattivata la stessa catena, la stessa via neurovegetativa che è alla base del problema. Il  sistema limbico riparte, infatti se facessimo una risonanza il consumo di glucosio e il flusso sanguigno in quelle aree cerebrali sarebbero altissimi: è come se ci fosse un incendio che dura da tanto tempo ma viene affrontato finalmente in maniera da spegnerlo, invece che reprimerlo e far sì che si riaccenda al prossimo stimolo, come nella coazione a ripetere di Freud. Ad esempio se c’è un sentiero nel bosco 9 persone su 10 percorrono il sentiero già tracciato, lo stesso avviene nel cervello. Una rete neurale legata all’esperienza d’infanzia, attivata tante volte, che aveva il genitore e ripresa per imitazione, può essere invece sentita  e affrontata diversamente da come è accaduto prima e dunque non più ripetuta: è come uno che entra nel bosco col machete e apre un nuovo sentiero”.




In Canada dove l’ISTDP è affiancato pari grado nei pronto soccorso alle analisi di routine, ha permesso di ridurre drasticamente i costi della sanità pubblica, i giorni di malattia dei lavoratori, e l’uso di medicinali invasivi come: antidepressivi, ansiolitici, antiacidi, antidolorifici, sonniferi. “Parliamo di una psichiatria senza medicine, ciò non vuol dire che i farmaci non debbano più essere necessariamente utilizzati, ma nel protocollo ISTDP il target non sono i sintomi ma le emozioni represse da cui questi sintomi provengono. Il Prof. Abbass, con cui collaboro da anni, ha effettuato studi su moltissime patologie come il colon irritabile, la sclerosi multipla, la cefalea, l’ipertensione, la fibromialgia per citare solo alcuni esempi.  Recentemente, è stato svolto anche uno studio sui tremori essenziali, privi di causa precisa, che vengono curati con betabloccanti o impianti chirurgici a livello cerebrale per bloccarli. Il risultato è che chi aveva usato l’impianto non ha tratto benefici, mentre facendo sedute di questa nuova terapia il tremore è scomparso”. “Sono tutti dati rintracciabili in rete e pubblicati su importanti riviste scientifiche – prosegue la dottoressa –. Del resto è l’OMS fin dal 2009 ad aver richiesto a tutti gli stati membri di introdurre le medicine tradizionali, alternative e olistiche nei piani sanitari nazionali. Io stessa sono stata chiamata da tre deputati del Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati nel marzo 2015 per dare il mio contributo alla Nuova Legge Sanitaria che recepirà i dettami dell’OMS. L’unica regione italiana ad aver già applicato le direttive è la Toscana: a Putignano c’è il primo ospedale integrato con agopuntura e omeopatia. Ci tengo a precisare che ho solo suggerito parti della Proposta di Legge. Poteva chiamarmi qualunque partito, a me basta far passare il messaggio”.

Al cuore del nuovo paradigma c’è infine anche l’integrazione della medicina occidentale con tecniche mediche tradizionali, come l’ayurveda, la cinese, la tibetana: “Integrative, non alternative. È ora di superare questo conflitto tra fazioni. Noi siamo fatti di anima, mente, emozioni e anche di corpo, siamo integrati per definizione, quindi la medicina deve essere integrata. La terapia farmacologica non va necessariamente buttata. Dipende dalla fase, dalla situazione, dalla consapevolezza della persona che magari in un dato momento non ha disposizione d’animo per quella cura: sarebbe assurdo non utilizzare altri metodi. La “nostra” medicina occidentale utilizza un paradigma meccanicistico: considera il corpo fatto di parti come una macchina, gli arti si rompono e noi li aggiustiamo. Cerchiamo una parte esterna, un incidente, un inquinante per spiegare come mai il pezzo si è rotto. Invece le medicine alternative hanno un paradigma diverso: sono medicine del ‘terreno’, se capita quella cosa il tuo terreno era permissivo, la malattia è quindi il risultato composito del tuo terreno e di un agente esterno. Chiaro che per eliminare il bacillo non c’è niente di meglio di un antibiotico, ma se contemporaneamente non ti curi del tuo terreno, non guarisci”.

Nello studio della Poli si curano “persone” per 10/11 ore al giorno, talvolta anche il sabato e nei festivi, e la lista d’attesa è di due mesi (“ci stiamo comunque attrezzando con una equipe e uno dei miei collaboratori ora è in grado di sostituirmi”). E se all’inizio la predominanza di pazienti era al femminile (70%) oggi si è arrivati a un pareggio (“gli uomini quando ci si mettono sono dei panzer”), con una media di sedute, per i disturbi cosiddetti dell’area nevrotica, che farebbe rabbrividire qualunque blocco delle ricevute dello psicanalista di lungo corso: 7 a paziente, di circa un’ora e mezzo o talvolta anche tre, e il problema è risolto: “In Canada è stato fatto un esperimento. Sono stati presi 58 terapeuti diversi, alcuni si stavano ancora formando, e la media delle sedute per risolvere la malattia dei pazienti è stata di 7,8. Insomma, non è il carisma del singolo a far aumentare i risultati, ma la validità del metodo. Se ciò ha cambiato la politica sanitaria in altri paesi, spero la cambi anche nel nostro”.

Le critiche più comuni storicamente rivolte dai movimenti antipsichiatrici (tra i cui fondatori vi fu Szasz) sostengono che la psichiatria, a loro dire, utilizzerebbe concetti e strumenti medici impropriamente; che la classificazione fornita per i disturbi mentali è troppo rigida e metodica rispetto alle caratteristiche del disturbo in sé che può evolvere in moltissimi modi differenti e per il quale la psicodinamica si rivelerebbe invece più appropriata e flessibile; che in alcuni casi (quelli in cui il paziente è incapace di intendere e di volere) tratterebbe i pazienti contro la loro volontà, o sarebbe troppo "autoritaria" rispetto ad altri approcci; che, come le altre specializzazioni mediche, sarebbe "compromessa" in legami finanziari e professionali con l'industria farmaceutica.

Il ricovero ospedaliero, solitamente di tipo volontario, viene attuato solo in casi gravi e per periodi di tempo definiti.

Eccezionalmente, in casi gravi ed acuti, ed in condizioni ben determinate (con specifiche tutele di legge), può essere necessario un Trattamento sanitario obbligatorio (TSO), di durata limitata nel tempo. Il TSO viene disposto dal Sindaco su proposta motivata di un medico controfirmata poi da un secondo medico, generalmente psichiatra, dipendente di una struttura pubblica. Il ricovero in regime di TSO viene effettuato in una Struttura Pubblica appositamente disposta nell'Ospedale Generale (i reparti di "Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura", SPDC). Il TSO, che viene attuato solo in caso di gravi scompensi psichiatrici acuti con assenza di capacità di intendere e di volere, viene per legge disposto solo qualora una persona presenti pericolo per sé o per altri, richieda cure urgenti e le rifiuti, e non sia possibile prendere adeguate misure alternative extraospedaliere; il TSO ha sempre una durata precisa (una settimana massima, rinnovabile solo in presenza di gravi problematiche cliniche), e può essere trasformato in qualunque momento in un ricovero volontario.


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