La mononucleosi infettiva fu riconosciuta e descritta, per la prima volta, in sei pazienti da E. Larey e Douglas H. Sprunt sul Bulletin of the Johns Hopkins Hospital del 1920 con il titolo:
«Mononuclear leukocytosis in reaction to acute infection (infectious mononucleosis)» (it.) Leucocitosi mononucleare in reazione alle infezioni acute (mononucleosi infettiva).
All'epoca il virus di Epstein-Barr (EBV) non era stato ancora isolato e scoperto.
Comunque già dal 1800 la mononucleosi era stata individuata come una sindrome clinica costituita da febbre, faringite e adenopatia. Il termine di febbre ghiandolare fu usato nel 1889 da medici tedeschi tra cui Emil Pfeiffer; mentre l'associazione tra il virus di EBV e la malattia (mononucleosi infettiva) venne riconosciuta nel 1968 da Diehl V, Henle G, Henle W, Kohn G. del Virus and Genetics Laboratories, The Children's Hospital of Philadelphia, School of Medicine, University of Pennsylvania, Philadelphia.
La relazione del virus di EBV con il linfoma di Burkitt fu trovata in quegli anni dallo stesso gruppo di ricerca in collaborazione con ricercatori del Karolinska Institute Medical School.
La mononucleosi è una malattia infettiva virale dovuta al Virus di Epstein-Barr (EBV), appartenente alla famiglia degli Herpes Virus.
Si chiama anche malattia ghiandolare perché interessa le ghiandole: una delle manifestazioni più tipiche è infatti l’ingrossamento delle tonsille, accompagnato in quasi tutti i casi da ingrossamento dei linfonodi del collo, talvolta della milza (nella metà dei pazienti) e del fegato (in circa un terzo dei pazienti).
Spesso la mononucleosi ha sintomi molto sfumati, che la fanno scambiare per altre forme di infezioni, pertanto non viene diagnosticata. Ad esser più precisi, solo il 5-10% di coloro che prendono la mononucleosi ha sintomi manifesti, un altro 10% ha disturbi vaghi, come mal di gola e piccole macchioline sulla pelle, mentre la gran parte degli individui che entra in contatto con il virus di Epstein-Barr non presenta sintomi.
Si è riscontrato però che, se in età adulta viene fatta la ricerca degli anticorpi nel sangue, nella maggioranza dei casi l’esito è positivo, segno che l’individuo ha avuto in passato contatti con il virus.
La mononucleosi si manifesta prevalentemente dall’asilo in poi e in particolare nell’adolescenza (tra i 15 e i 24 anni c’è il massimo picco di incidenza), mentre è rara sotto i 2 anni e dopo i 40 anni.
Non sempre la mononucleosi dà sintomi. Inoltre, più è piccolo il bambino, meno evidenti sono le manifestazioni, mentre nel bambino più grande e nell’adolescente è più facile che dia segnali, che sono differenti a seconda della fase della malattia.
Nella fase iniziale (7-15 giorni) compaiono sintomi di tipo influenzale, come un malessere generico, con stanchezza, svogliatezza, mal di gola, mal di pancia, un po’ di nausea e di mal di testa, febbricola, talvolta sudorazione e brividi.
Successivamente compaiono i sintomi più tipici della malattia:
- infiammazione della gola, chiazzette rosse sul palato, ingrossamento e presenza di secrezioni sulle tonsille, che somigliano alle classiche placche della tonsillite e che rendono difficile e dolorosa la deglutizione;
- febbre alta, sui 38-39°, almeno nella fase più critica della malattia;
- ingrossamento delle ghiandole del collo e, meno di frequente, di altre sedi, come ascelle e inguine;
- nel 10% circa dei casi, può comparire anche un esantema simile a quello del morbillo, determinato talvolta dalle stesse tossine dell’EBV, ma più spesso collegato all’assunzione di un certo tipo di antibiotico, l’amoxicillina: se il bambino cioè assume amoxicillina (magari perché la mononucleosi non viene riconosciuta e si pensa ad un’infezione batterica), può veder comparire chiazze su tutto il corpo. Tale reazione è praticamente un segnale in più che si tratta di mononucleosi.
- negli adolescenti è molto facile che si ingrossino la milza (splenomegalia) e il fegato (epatomegalia);
- meno di frequente, ci può essere gonfiore alle palpebre.
La mononucleosi è chiamata anche malattia del bacio perché il bacio è il canale di trasmissione preferenziale, visto che il virus è veicolato dalle goccioline di saliva. Questo significa che il contagio avviene anche attraverso tosse e starnuti, così come attraverso la condivisione di bicchieri, posate o rossetti usati da un soggetto infetto.
La diagnosi è principalmente clinica, se i sintomi sono manifesti. Se si hanno sospetti, si fa un esame del sangue per dosare gli indici di infezione, la transaminasi, la bilirubina, ma soprattutto si fa la ricerca degli anticorpi specifici anti EBV, con il dosaggio delle IGM, che segnalano l’infezione in atto, e le IGG, che sono gli anticorpi ‘della memoria’ perché restano nel tempo e sono la traccia che si è avuta l’infezione.
Altri esami, come la reazione di Paul-Bunnel-Davidsohn, il cosiddetto monotest e il monospot, sono ormai considerati superati.
Il periodo di incubazione della mononucleosi è di circa 10-15 giorni nei bambini, di 1 mese-1 mese e mezzo negli adulti.
La mononucleosi è contagiosa dal momento in cui compaiono i primi sintomi, mentre non è contagiosa nella fase di incubazione. La durata della contagiosità è variabile: se nella grande maggioranza dei casi il virus viene eliminato in poche settimane, in alcuni soggetti può permanere nella saliva anche per molti mesi. Si può dire che una persona è contagiosa fino a quando le IGM risultano positive, segno che il virus è ancora in circolo nell’organismo.
Nella stragrande maggioranza dei casi, la mononucleosi è una malattia fastidiosa, ma non grave, che ha un decorso benigno. Dopo la fase iniziale con sintomi blandi, che dura 7-15 giorni, la mononucleosi ha una fase acuta di circa 15 giorni, con la comparsa dei sintomi più importanti, dopodiché la gran parte dei disturbi scompare spontaneamente. Solo la stanchezza può durare ancora per settimane o anche mesi.
La complicanza da sempre più temuta è la rottura della milza, ma è un’evenienza che può capitare solo quando la milza si presenta particolarmente ingrossata e si subisce un trauma nella zona. Rare anche altre complicanze, che possono essere tra le più svariate e possono riguardare vari apparati dell’organismo, inoltre si può riscontrare riduzione temporanea del numero di alcune cellule del sangue (piastrine, granulociti) e dell’emoglobina.
Nei casi in cui la mononucleosi presenti sintomi più importanti e persistenti, sarà il medico a monitorare con attenzione il decorso della malattia.
Difficile prevenire la mononucleosi, proprio perché i sintomi sono spesso sfumati e non si sa di averla e quindi di essere contagiosi. Come regole generali, sono sufficienti le normali misure di igiene, come usare bottigliette, stoviglie ed asciugamani personali, lavare le stoviglie con il detersivo, a mano o in lavastoviglie. Non occorrono lavaggi ‘sterilizzanti’ a temperature particolarmente elevate: quel che bisogna evitare è di risciacquare solo con acqua le stoviglie usate.
Il bambino con la mononucleosi può tornare a scuola di norma dopo 2-3 giorni dalla scomparsa della febbre. Se poi ha avuto disturbi più importanti, con una stanchezza più marcata, può essere opportuno tenerlo a casa qualche giorno in più. E’ vero infatti che si tratta di una malattia debilitante, soprattutto dal punto di vista immunitario, per cui il bambino per alcune settimane è più vulnerabile nei confronti di altre infezioni.
Il bambino con la mononucleosi può riprendere l'attività sportiva dopo una settimana senza febbre, a meno che non ci sia stato un notevole aumento del volume della milza, che rende consigliabile evitare sforzi o rischio di traumi. In tal caso sarà il pediatra a suggerire i tempi della ripresa.
Dopo aver contratto la malattia si sviluppano gli anticorpi (le IGG, che sono la traccia dell’infezione passata), che proteggono da nuove infezioni provenienti dall’esterno; ma il virus persiste a lungo nell’organismo e può dar luogo, sia pure di rado, a fenomeni di riattivazione, specie in momenti in cui le difese immunitarie si abbassano. Un po’ come succede al virus della varicella, che resta latente e può riacutizzarsi nel corso della vita dando origine al cosiddetto ‘fuoco di Sant’Antonio’, anche se per la mononucleosi le riattivazioni sono molto meno frequenti rispetto alla varicella.
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