Distacco, separazione sono temi ricorrenti nell’arte, nella poesia, nel cinema.
La propensione a stringere e mantenere relazioni emotive intime è scritta nel nostro patrimonio genetico e presente dai primi giorni di vita, all’inizio sotto forma di riflessi innati (pianto, suzione, prensione, orientamento, sorriso) che diventeranno, in seguito alle risposte dell’ambiente, schemi di comportamento sempre più sofisticati.
L’angoscia di abbandono compare nel bambino piccolissimo non appena si rende conto di non essere un tutt’uno con la madre. Non c’è niente di più angoscioso del pianto di un neonato quando vede la madre allontanarsi e teme che non torni più.
L’ansia di separazione è sempre stata considerata una delle prime manifestazioni psicopatologiche infantili, alla base di sintomi come la fobia della scuola o di paure che possono gettare un’ombra sull’infanzia, come il timore del divorzio dei genitori.
Anche nell’adulto questo sentimento atavico può riemergere in modo più o meno violento di fronte ad una perdita, rievocando lo stesso senso di vuoto e l’angoscia in cui precipitavamo da piccoli.
La perdita rappresenta un “lutto” e può essere vissuta come una grave minaccia alla propria esistenza, un’amputazione di una parte di sè. Spesso si accompagna alla percezione di non poter sopravvivere senza l’altro, e ad una visione catastrofica della vita e del mondo.
In questo momento possono venire a galla inaspettati aspetti nascosti della personalità: attacchi di panico, depressione o addirittura far esplodere la follia.
E’questo lo scenario che fa da sfondo alla maggior parte dei crimini passionali, così inquietanti anche perchè nascono sull’onda di sentimenti connaturati al genere umano. Spesso si tratta di persone insospettabili, rispettabili, rivestite da una coltre di normalità, in cui la perdita di un legame affettivo risveglia sentimenti primordiali.
Il tema del distacco tocca le corde più sensibili dell’animo umano perchè spezza uno degli istinti più forti non solo nell’uomo ma anche in alcune specie animali: l’attaccamento, inizialmente alla madre, poi spostato sulla persona amata.
“L’attaccamento” è un concetto usato in psicologia per esprimere l’insieme di comportamenti, pensieri, emozioni orientati alla ricerca della vicinanza, della protezione e del conforto da parte di una figura privilegiata.
La teoria dell’attaccamento studia i processi attraverso i quali si costruiscono quei modelli interni da cui dipenderà come ci rapportiamo nei legami intimi, ossia come ci rappresentiamo l’altro, come viviamo noi stessi, le nostre aspettative, le nostre paure. Tali schemi, che si costruiscono nel bambino piccolissimo (tra i 7 e i 15 mesi) agiscono al di là della consapevolezza e organizzano le informazioni relative ai rapporti affettivi, determinando cosa portiamo all’attenzione, che significato diamo agli eventi, che emozioni ci suscitano, che comportamenti adottiamo in risposta. Lo stile di attaccamento rispecchia l’unicità delle aspettative di ciascun individuo riguardo alla disponibilità degli altri per la soddisfazione del bisogno di protezione, vicinanza e condivisione.
In questo contesto assumono un peso rilevante le esperienze tra il bambino e la figura che si prende cura di lui, poiché rivestono una funzione cruciale nella costruzione dell’identità personale e nel modo di rapportarsi agli altri.
A volte esperienze infantili non ci permettono di interiorizzare l’altro come base sicura, come presenza interna stabile e positiva, minando anche la costruzione della propria identità e individualità.
La reazione all’abbandono può divenire patologica quando il primo legame di attaccamento non è stato sicuro.
Esperienze attuali possono rievocare antiche ferite, facendo riaffiorare costellazioni di angosce primitive, mai metabolizzate, confermando le aspettative di tradimento, inaffidabilità da parte dell’altro e un’immagine di sè come vulnerabile, destinato ad essere ferito, rifiutato nei rapporti.
La separazione diventa non solo perdita dell’altro ma anche perdita di sè, come persona degna di amore.
Il mondo diventa improvvisamente un deserto privo di senso, dove niente è stabile e ogni rapporto intimo porta con sè il fantasma dell’abbandono e del dolore insostenibile che comporta.
Il tipo di attaccamento tende ad essere piuttosto stabile, può comunque modificarsi in seguito ad esperienze particolarmente significative. La psicoterapia può costituire un’esperienza emozionale correttiva in grado di modificare i vecchi schemi e interrompere i circoli viziosi che rinnovano le esperienze traumatiche del passato.
Tale concetto trae le sue origini dalla “teoria dell’ attaccamento”, che si sviluppò in seguito agli studi condotti da John Bowlby, in Inghilterra intorno agli anni cinquanta. Egli studiò gli effetti della “deprivazione materna”, cioè della assenza della madre in bambini istituzionalizzati e ospedalizzati.
Il bambino ha una predisposizione innata a ricercare la vicinanza di una figura di riferimento che se ne occupi e che gli attribuisca un valore. Egli di conseguenza arriva ad attaccarsi a chi lo cura. Un neonato da solo sarebbe esposto a qualsiasi rischio, ha perciò bisogno di qualcuno che gli dia protezione e che faccia da “filtro” tra sè e il mondo. In genere è la madre che da al bambino le cure necessarie: lo alimenta, lo coccola e lo riscalda, lo pulisce e lo cura nel corpo, gli parla e risponde a tutti i suoi bisogni.
C’è comunque un’azione reciproca nella formazione del legame, la reciprocità è la giusta base per consentire gradualmente al bambino di rendersi autonomo. Nella dinamica dell’attaccamento, una madre “sufficientemente buona”, creerà con il suo bambino un clima in cui siano possibili sia l’esplorazione creativa (nel cibo, nel contatto con l’ambiente, nell’espressione dei bisogni) che la verifica della realtà per poi arrivare al successivo distacco da lei.
Secondo la teoria dell’attaccamento, tale processo inizia dopo la nascita e continua durante i primi tre anni.
Gli effetti sono riscontrabili sin dal primo e secondo anno di vita del bambino, infatti a partire da un anno di possono distinguere quattro tipologie di attaccamento dal modo in cui il bambino reagisce alla separazione dalla mamma.
Attaccamento sicuro: il bambino è sereno e tollera bene le assenze della mamma, non protesta se rimane con persone che conosce bene. Però ci può essere protesta breve soprattutto in presenza di situazioni nuove, o a persone sconosciute, che è comunque indice di un buon legame e di equilibrio.
Attaccamento insicuro-evitante: il bambino sembra essere autonomo, invece nasconde il bisogno della presenza costante e continua della mamma. Il legame è mascherato e nascosto, poichè la madre è tendenzialmente rifiutante e non responsiva ai bisogni. Sarà in seguito che si manifesteranno delle difficoltà, nel momento in cui il bambino dovrà realmente misurarsi con la sua autonomia, come: l’entrata alla scuola materna o elementare.
Attaccamento ambivalente o resistente: è tipico dei bambini molto affettuosi e coccoloni, ma che non sopportano l’idea di non avere sempre accanto la mamma. Sono generalmente bambini molto ansiosi. L’idea o “la minaccia” che la mamma non sia visibile o “toccabile” li manda in ansia e si allarmano appena accenna ad allontanarsi. La madre ha un atteggiamento ambivalente e tendenzialmente intrusivo.
Attaccamento disorientato o disorganizzato: sono quei bambini inibiti dalla presenza della mamma e disturbati dalla sua assenza. Sono situazioni di gravi carenze materne sui bisogni di base del bambino sin dalla nascita. Potrebbero essere madri depresse, maltrattanti o con difficoltà psicologiche tali da non riuscire a rispondere adeguatamente ai bisogni primari di accudimento. Questi bambini sono ad elevato rischio di sviluppare psicopatologie e disturbi di personalità.
Tale processo inizia già dopo la nascita e continua durante i primi tre anni. Davanti alla separazione dalla mamma, è anche sano e giusto che ci sia una protesta del bambino che rientra in un comportamento tollerante e che conferma il legame di tipo sicuro. Il distacco, le piccole separazioni possono essere inizialmente difficili da affrontare, non solo per il bambino piccolo, ma anche per la mamma. Ne sono un esempio: il ritorno al lavoro dopo il parto e lo svezzamento, che rappresenta l’abbandono non solo di un’abitudine e di un piacere condiviso, ma con il seno materno, di una forte intimità. Simbolicamente si potrebbe dire che se si è instaurato un buon legame tra madre e bambino in queste prime fasi, anche successivamente, di fronte alle separazioni il piccolo sa che in quel distacco “non perde la mamma”, perchè tiene in sé, interiorizza, quel legame e quella fiducia di base.
La sicurezza ricevuta dal bambino rappresenta per lui fiducia e “base sicura” che gli eviterà successivamente di cadere in preda all’insicurezza e all’angoscia per la separazione.
C’è un altro momento evolutivo critico, in cui il bambino può vivere male il distacco. Accade quando tra i 7/8 mesi le sue figure di attaccamento si allontanano, o sono presenti, ma ci si trova con estranei, intesi anche come persone che il bambino non vede abiltualmente tutti i giorni o tutte le settimane, di cui non sa prevedere le reazione ed i comportamenti, questa fase è chiamata - fase dell’ansia dell’estraneo o angoscia dell’ottavo mese.
Il bambino intorno ai tre anni dovrebbe già essere in grado di tollerare l’assenza della mamma per breve periodo di tempo durante la giornata, come avviene alla scuola materna. A tre anni il bambino può attingere a quella sicurezza interiore, frutto del buon legame con lei. Attenzione perché ciò non significa totale autonomia, ma lascia spazio ancora a quella fluttuazione tipica tra bisogni di autonomia nel “fare le cose da solo” da un lato, e bisogni di protezione, coccole e consolazione dall’altro. Il bambino di tre anni, è infatti ancora molto dipendente dalle figure di riferimento, ma inizia anche a possedere le necessarie competenze, cioè risorse intellettive, motorie, linguistiche, emotive, per sperimentare la separazione e per dirsi “che ce la posso fare”.
La fobia scolare colpisce tra l'1% e il 5% dei ragazzi in età scolare senza differenze di genere socio-economico. Esordisce in infanzia intorno ai 5-6 anni, ma colpisce anche i bambini compresi nella fascia di età 10-11 anni, mentre in adolescenza può verificarsi tra i 12 e i 15 anni, evidenziando la diffusione del fenomeno durante specifici punti critici e importanti cambiamenti evolutivi quali il passaggio dalla scuola materna alla scuola elementare, dalle scuole elementari alle scuole medie inferiori e dalle scuole medie inferiori a quelle superiori. Nell'80% dei casi colpisce soprattutto i soggetti maschi e in genere si tratta di figli unici, primogeniti o prediletti.
La fobia scolare può essere considerata una forma di fobia sociale che insorge nei bambini i quali, solitamente senza nessun preavviso, si rifiutano di andare a scuola mostrando disturbi d'ansia, che a loro volta possono evolvere in attacchi di panico nel momento in cui si esce da casa o ci si avvicina all'edificio scolastico. Dal punto di vista fisiologico la fobia si manifesta con un'ampia serie di sintomi somatici quali vertigini, mal di testa, tremori, palpitazioni, dolori al torace, dolori addominali, nausea, vomito, diarrea, dolori alle spalle e dolori agli arti. Nella maggior parte dei casi, se il bambino rimane a casa assentandosi da scuola, questi sintomi scompaiono o si attenuano, per poi ricomparire la mattina successiva. Inoltre, i bambini che soffrono di fobia scolastica possono manifestare crisi di pianto o avere attacchi di collera. Il livello di angoscia può raggiungere picchi elevati sin dalla sera prima, disturbando il riposo e il sonno del bambino, il quale è caratterizzato da incubi o risvegli nel pieno della notte (talvolta con enuresi), andando a interferire col comportamento emotivo e cognitivo, con allucinazioni fatte di fantasmi e mostri.
I sintomi possono includere continue lamentele e rimostranze nel frequentare la scuola, ritardi o assenze ingiustificate nelle giornate significative (compiti in classe e interrogazioni), richieste frequenti di chiamare o tornare a casa o di recarsi in infermeria o in bagno a causa di disturbi fisici. La fobia può colpire anche chi, in precedenza, aveva mostrato un buon rapporto con l'ambito scolastico, buoni risultati e nessun problema nei rapporti sociali tra compagni e docenti. I soggetti colpiti, in alcuni casi, non sono in grado di giustificare il loro comportamento, riversando le responsabilità su non chiare delusioni subite da qualche professore o compagno.
Sebbene il rifiuto scolastico non sia classificato come disturbo clinico dalla quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, esso può essere associato a diversi disturbi psichiatrici, tra cui ansia da separazione, fobia sociale e disturbo della condotta. In casi estremi, può sfociare in schizofrenia o in un disturbo narcisistico di personalità, ove i bambini o ragazzi si convincono di essere in qualche modo speciali o diversi dagli altri, accompagnando questo comportamento con la richiesta di un insegnante privato. Quest'ultimo aspetto è dovuto al fatto che, nonostante la marcata repulsione nel frequentare la scuola, essi continuano a impegnarsi nelle attività scolastiche e nello studio, discostando la natura del fenomeno da motivazioni quali lo scarso interesse o lo scarso impegno. In altri casi, la fobia scolare può essere accompagnata da un disturbo depressivo, qualora il soggetto provi un senso di vergogna per il fallimento scolastico, da insicurezza, bassa autostima e inadeguatezza, soprattutto nei periodi di passaggio da una scuola inferiore a una di livello superiore.
È possibile ricercare le cause di tale disturbo classificandole in due diversi principali tipi di fobia scolare:
la fobia scolare associata all'ansia da separazione
la fobia scolare associata ad altre tipologie di fobia
La prima tipologia include quei soggetti che hanno una madre anch'essa soggetta a crisi d'ansia o che in passato ha presentato gli stessi sintomi da fobia scolastica. Secondo la teoria dell'attaccamento, la madre è in grado di trasmettere tali stati d'ansia nel figlio, rafforzando in lui il comportamento evitante e dipendente. Secondo questa teoria, quindi, il rifiuto scolastico sarebbe alla base di un disturbo d'ansia da separazione, uno dei disturbi classificati dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali e che sarebbe causato dal distacco dalla madre. L'iper-protettività della madre, sommata all'assenza di una figura maschile (la quale può essere causata da lavoro o problemi familiari del padre) impedisce lo sviluppo psicologico autonomo e indipendente nel figlio.
La seconda tipologia trarrebbe origine da una vera e propria paura della scuola con conseguente fobia sociale. Nei soggetti più grandi, tale fobia può sfociare in un disturbo evitante di personalità, e potrebbe essere dovuta, ad esempio, ai fallimenti scolastici o alle difficoltà incontrate nelle relazioni sociali coi compagni. A questa tipologia possono accompagnarsi vari disordini quali il disturbo della condotta, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, il disturbo oppositivo-provocatorio e i disturbi specifici dell'apprendimento.
Il problema, inoltre, può verificarsi dopo un periodo di vacanze, sia durante l'anno che al rientro dell'estate, dopo che il ragazzo ha trascorso un periodo medio-lungo lontano dalla scuola. In altri casi, eventi traumatici come un trasloco o la morte dell'animale di casa, la nascita di un fratellino o una crisi della coppia coniugale possono causare tale disturbo. Infine, la paura di abbandonare la casa, inteso come luogo sicuro e confortevole, la paura che un genitore possa partire e non tornare più o morire mentre il soggetto è a scuola, sono tra i motivi dell'insorgenza della fobia scolare.
Il protrarsi della fobia scolare può, col tempo, andare a intaccare lo sviluppo emotivo e sociale dei soggetti colpiti, le acquisizioni scolastiche, i rapporti con la famiglia e con i coetanei. Tra le conseguenze a lungo termine vi sono le difficoltà in ambito lavorativo, in ambito sociale, ove è possibile che si vada a compromettere l'autostima e la fiducia in se stessi, il processo di crescita e il processo di differenziazione ed emancipazione dalla famiglia. Pertanto è fondamentale che i giovani colpiti da tale disturbo ricevano una valutazione completa da un professionista della salute mentale, attuando un trattamento terapeutico che preveda, ove necessario, un percorso di psicoterapia individuale, con somministrazione di farmaci antidepressivi o ansiolitici.
Uno dei percorsi terapeutici alternativi è quello della terapia familiare, la quale mira a risolvere il problema attraverso la ricerca di nuove forme di comunicazione e collaborazione tra i componenti della famiglia. Tuttavia, non è raro che gli stessi genitori si rifiutino di optare per questo tipo di terapia, in quanto non sono in grado di capire il motivo per il quale tutta la famiglia debba occuparsi di un disturbo che affligge un solo membro.
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