giovedì 29 ottobre 2015

I BENEFICI DELLA CORSA



Se avete deciso di darvi alla corsa, fareste bene a partire col piede giusto per godere appieno dei numerosi benefici che offre questa “medicina” a costo zero, piacevole, con poche controindicazioni e, che in vista della prova costume, potrebbe rivelarsi anche una valida alleata per perdere qualche chilo di troppo. 

La prima cosa da fare è un controllo medico sportivo per verificare lo stato di salute complessiva e l’assenza di controindicazioni, soprattutto a livello cardiovascolare (ipertensione, aritmie, malattie della valvole cardiache). Se si ha una certa età, bisogna anche essere certi che le articolazioni di anche, ginocchia e caviglie possano reggere le sollecitazioni dello jogging. In alternativa conviene accontentarsi della camminata veloce. Stabilita l’idoneità, è saggio iniziare in modo graduale, alternando camminata a corsa, dando così tempo all’organismo di dare il là a una serie di trasformazioni positive che rendono più forti e resistenti. Attenzione alla scelta delle scarpe, che devono essere concepite per il running. Ai principiante conviene usare calzature ammortizzate, mentre i professionisti possono utilizzare anche le ultraleggere.

Essendo lo jogging un’attività aerobica, a trarne vantaggio è innanzitutto l’apparato cardiovascolare. Man mano che si intensifica la corsa e la si pratica con regolarità nell’organismo avviene una piccola rivoluzione: diminuiscono la pressione, la frequenza cardiaca, il colesterolo “cattivo” (Ldl), la glicemia (glucosio nel sangue) e aumenta il colesterolo buono (Hdl). Tutte queste variazioni metaboliche si traducono in un minor rischio di diabete, ictus, infarto e trombosi in generale. Migliora anche la capacità polmonare, si dorme meglio e si tiene alla larga l’osteoporosi. La corsa è un toccasana anche per il cervello, perché favorisce la produzione di endorfine e di altri oppioidi naturali, le encefaline, che riducono l’ansia e migliorano l’umore. Se non bastasse, correre aiuta a dimagrire. Se si corre a lungo e spesso, i chili di troppo se ve vanno senza troppe difficoltà, altrimenti meglio abbinare una dieta ipocalorica equilibrata. Un corretto stile di vita, con un’alimentazione sana, alcolici con moderazione e senza sigarette, è consigliabile a tutti per godere appieno i benefici dell’attività fisica. 



Per allenarsi in modo corretto è utile seguire semplici accorgimenti. Innanzitutto, curare l’idratazione, bevendo un paio di bicchieri d’acqua mezz’ora prima di correre, e poi anche durante l’attività, soprattutto se si suda molto. L’obiettivo di un principiante non dev’essere correre veloce per molti chilometri, ma riuscire a farlo il più a lungo possibile. Correre “una tantum” non serve a molto, meglio essere regolari, almeno due o tre volte a settimana, dopo aver recuperato la seduta precedente. Anche se il programma di allenamento che ci si è prefissati è abbastanza blando, conviene sempre farlo precedere da un breve riscaldamento, per esempio con qualche esercizio a corpo libero e alcuni minuti di camminata a passo spedito: un avvio graduale prepara all’attività e riduce il rischio di infortuni. Infine, visto che spesso per un principiante è difficile trovare gli stimoli per uscire a correre, può essere utile trovare un compagno con cui condividere fatica e gioie della corsa.
Praticare attività fisica, corsa compresa, fa bene all'umore: aiuta a scaricare lo stress e la tensione, a tenere sotto controllo l'ansia, in definitiva a sentirsi meglio. È un fenomeno che si spiega facilmente grazie alle reazioni chimiche che avvengono nell'organismo e che influiscono anche sull'umore. Stress e ansia sono strettamente correlati alle ghiandole surrenali, che sono quelle che producono e immettono in circolazione le catecolamine. Si tratta di ormoni, di cui i più conosciuti sono adrenalina, noradrenalina e dopamina. Questi ormoni vengono rilasciati in condizioni di stress perché si tratta di una normale reazione di difesa dell'organismo: lo stress e l'ansia potrebbero essere associati a un pericolo che il corpo deve fronteggiare al meglio, aumentando ad esempio la frequenza cardiaca. Nel caso dei disturbi d'ansia, però, non c'è nessun pericolo "reale" che il corpo deve affrontare, e l'immissione in circolo delle catecolamine finisce per essere per esempio responsabile dei cosiddetti attacchi di panico, come di altri disturbi. Di contro, la corsa o l'attività fisica in generale stimola nell'ipofisi la produzione di endorfine, neurotrasmettitori con proprietà analgesiche, che causano, a seconda della quantità rilasciata, euforia o sonnolenza: sono in tutto e per tutto sostanze con proprietà analoghe a quelle di oppio e morfina. Esiste, a proposito della sensazione di euforia che può essere causata dalle endorfine, un fenomeno chiamato Runner's high: si riscontra perlopiù in sportivi professionisti, poiché per verificarsi è necessario uno sforzo prolungato di almeno trenta minuti; è tipico ad esempio dei maratoneti.

La corsa femminile è stata spesso oggetto di pregiudizi, molti dei quali, purtroppo, avvelenano ancora il contatto della donna con il running, anche se, per onestà, molte cose sono cambiate in meglio negli ultimi quindici anni.

È comunque importante sottolineare che ancora troppe donne non riescono a interpretare correttamente il gesto atletico, soprattutto per mancanza di conoscenze specifiche. Compito di ogni runner dell’altro sesso è informare l’amica, la compagna o la moglie che vogliono iniziare a correre, puntualizzando subito le cose più importanti.
Non lasciatevi influenzare da chi giudica il vostro stile di corsa o i vostri tempi. Voi correte per voi stesse.
Non lasciatevi influenzare da chi vi suggerisce (perché siete donna!) un allenamento blando.



Il test del moribondo (altresì noto come Fit People Test) applicato a un campione di popolazione fra i 23 e i 60 anni darebbe circa i seguenti risultati: uomini positivi 15%, donne positive 4%. Ricordo che si tratta di percorrere 10 km in un’ora. Si potrebbe subito obiettare che per le donne, fisiologicamente più deboli degli uomini, si dovrebbe o diminuire la distanza o dilatare il tempo. In realtà, fisiologicamente fra un uomo e una donna ci sono circa 20?/km di differenza. Anche tenendo conto di questa correzione (6’20?/km per le donne e 6’/km per gli uomini), la percentuale di donne in grado di superare il test non arriverebbe alla metà della percentuale dei maschi.

Se consideriamo anche il risultato della prova di ammissione all’accademia di Modena effettuato diversi anni fa (correva l’anno 2003) dove solo 41 donne su 569 riuscirono a superare i quattro test fra cui il più duro si era rivelato essere l’ultimo, ovvero percorrere un chilometro in 4’30”, si deve concludere che lo sport ha grossi problemi a entrare nell’universo femminile. Se è vero che l’educazione fisica nelle scuole è particolarmente carente per bambine e ragazze, è altrettanto vero che moltissime donne cercano di seguire un’alimentazione corretta e frequentano le palestre.
Le battaglie femministe purtroppo non sono riuscite a far emergere la donna nel mondo dello sport, anzi si direbbe che abbiano avuto come unico effetto quello di allontanarla: da un lato donne in carriera che per essere uguali agli uomini imitano la parte peggiore della psicologia maschile (cioè la dedizione al lavoro per raggiungere il successo, la fama, i soldi), dall’altro donne che, rifiutando il femminismo, continuano ad alimentare una visione tradizionale (direi preistorica) della donna, tutta votata (direi immolata) all’amore per il compagno, per i figli, la famiglia. Ciò che manca è cioè il giusto compromesso che si è invece realizzato in altri Paesi dove la donna ha affermato sé stessa senza perdere di vista la qualità della vita e senza entrare in una competizione continua con l’uomo.
È vero che moltissime donne sono a dieta, leggono ogni pagina di fitness delle riviste femminili, vanno in palestra ecc., ma è anche vero che la motivazione non è quasi mai l’efficienza fisica, ma piuttosto l’apparire belle e desiderabili per l’uomo. Così da una parte troviamo le anoressiche (deboli e magre anziché forti e magre), dall’altra tutte quelle per cui andare in palestra o rinunciare alla brioche è uno sforzo immenso, che vale la pena fare finché non si è trovato l’uomo della propria vita.



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mercoledì 28 ottobre 2015

LA GELOTOLOGIA



La Gelotologia è la disciplina che studia il fenomeno del ridere, con particolare riguardo alle potenzialità terapeutiche di esso.

La gelotologia studia ed applica la risata e le emozioni positive in funzione di prevenzione, riabilitazione e formazione. Essa concorre al processo di cura del paziente non visto più solo ed unicamente in funzione della sua malattia ma invece come centro di un approccio sistemico globale, che va dalla terapia farmacologica tradizionale al supporto emotivo, dall'intervento chirurgico al semplice buon umore, con l'obiettivo unico di migliorare la qualità della vita sotto tutti i punti di vista.

La gelotologia, il cui precursore può essere considerato il dott. Norman Cousins (divulgatore scientifico guarito da una spondilite anchilosante, grazie ad una cura a base di risate, vitamina C ed alimentazione naturale), è applicata in molte parti del mondo in svariati campi: nel settore sanitario, in particolare con i bambini, ma anche con altre tipologie di pazienti. Nel settore socio-sanitario con anziani, disabili, persone detenute, persone con disagio psichiatrico, nelle scuole. Nel campo della formazione, con personale sanitario (medici, infermieri, specialisti della riabilitazione), con personale scolastico (docenti, personale ATA), con manager e quadri d'impresa.

L'operatore della gelotologia è il Clown Dottore. A livello di studio e ricerca, la gelotologia si è concentrata per lo più sulla pediatria e sulla diversabilità, con diverse ricerche cliniche a Roma, Como, Firenze, Pisa. Esistono diverse metodologie di applicazione della gelotologia: il metodo Comicità è Salute; il metodo dello Yoga della risata; lo Yoga demenziale di Jacopo Fo.

La gelotologia trova le sue radici nella PNEI (PsicoNeuroEndocrinoImmunologia), branca della medicina che ha sostanziato la diretta correlazione tra le emozioni ed il sistema immunitario. Esistono infatti importanti correlazioni tra sistema nervoso, sistema endocrino e sistema immunitario. Sostanziali mutamenti provocano cambiamenti anche negli altri, condizionando in maniera rilevante le condizioni di salute di un individuo. La gelotologia si basa sul fatto che attraverso il fenomeno della risata viene favorita la produzione di endorfine.

E’ ormai provato che il buon umore, l’allegria una sana disposizione mentale al riso e non in ultimo una sana e liberatoria risata aiutano a vivere meglio a tutti e soprattutto coloro che versano in condizioni non ottime di salute fisica o psichica. Vari studi hanno dimostrato che farsi una bella risata non solo provoca effetti positivi sulla mente ma aumenta le difese immunitarie, attraverso il rilascio delle beta endorfine migliora lo stato neuroendocrino allentando la tensione muscolare  riequilibrando la circolazione sanguigna e il ritmo cardiaco.

I ricercatori hanno trovato una relazione importante : quando si è allegri nel nostro organismo avvengono delle reazioni chimiche: si produce un aumento di endorfine e di catecolamine e una diminuzione di secrezione di colozolo(colesterolo cattivo).

Una ricerca della Stanford University ha dimostrato che sorridere è salutare. Essa ha messo in evidenza che sorridere e ridere attiva le aree cerebrali della ricompensa e del piacere. Allan Reiss, autore della ricerca, ha spiegato che questa scoperta migliora la conoscenza dei meccanismi biologici dell’umorismo e che con il metodo utilizzato per lo studio sarà possibile individuare precocemente i soggetti a rischio di depressione.



“Nello studio alcuni volontari sono stati sottoposti a una risonanza magnetica funzionale mentre guardavano dei cartoni animati”, spiega Reiss, “le immagini più divertenti attiravano sia le aree dedicate al linguaggio che il sistema libidico e una particolare struttura chiamata “nucleo accumbens”, che regola i meccanismi di ricompensa”.

Lo psicologo Rod Martin, alla Western Ontario University, dell’88 fu tra i primi a verificare che l’umorismo modera il calo delle difese immunitari che si verifica in periodi di stress.

Secondo William Fry, psichiatra alla Stanford una buona dose di risate quotidiane puo ridurre il rischio di infarto cardiaco e della depressione.

Ma che il ridere potesse diventare veramente una terapia utile per accelerare la guarigione anche di mali fisici è un intuizione abbastanza recente secondo alcuni studiosi, tutti noi nasciamo con una tendenza naturale verso il divertimento in genere.

Anche la psicologia, la sociologia e l’antropologia hanno giocato un ruolo importante nello sviluppo della gelotologia.
D’altro canto essa si avvale dell’arte comica, della poesia, della magia, della musica, dell’affabulazione: tutte Arti in grado di attivare la relazione empatica tra chi è in difficoltà (persone ammalate o socialmente svantaggiate) e chi ha intenzione di esercitare la relazione d’aiuto.
L’approccio gelotologico tende infatti a ricercare, sperimentare ed applicare modalità relazionali che, coinvolgendo positivamente l’emotivo della persona, attraverso le strettissime relazioni tra corpo, mente, emozioni e spirito, ne migliorino l’equilibrio immunitario da un lato, e le abilità psico-relazionali dall’altro. Si incide, così, profondamente, sulle aspettative, sulle motivazioni e sui vissuti dei degenti/utenti e del personale sociosanitario e si è così in grado di migliorare la salute (intesa in senso sociale e sanitario) delle persone, l’efficienza complessiva della strutture (di cura, riabilitazione e sociali in generale) ed umanizzare la comunità di riferimento.
Secondo la gelotologia è la stessa Comunità, che, una volta attivata positivamente da elementi estetici, spirituali, energetici è in grado di essere terapeutica.
Il termine gelotologia è da poco stato accettato come neologismo della lingua italiana ed una voce è stata inserita nel dizionario “Il grande Italiano" di Aldo Gabrielli.

La gelotologia vanta, in Italia, una puntuale metodologia applicativa. E’ il metodo “Comicità è Salute”, applicato da Sonia Fioravanti e Leonardo Spina fin dal 1990 ed esplicitato per la prima volta nel 1999 nel volume “La Terapia del Ridere”.
Si tratta di un efficace mix di tecniche psicologiche e teatrali, basato su solidi presupposti scientifico-antropologici, concepito a gradini propedeutici, testabile e ripetibile: si sviluppa mediante un laboratorio teorico-pratico. La parte teorica è costituita di elementi di psicofisiologia del ridere ed antropologia del comico. La parte pratica è costituita da tre percorsi; il primo mette in gioco il corpo in esercizi di fiducia, contatto, ascolto empatico, espressività. Il secondo mette in moto la mente, secondo un ragionamento altro, il pensiero laterale, mediante la scrittura umoristica. Il terzo coinvolge il profondo della persona, mediante visualizzazioni guidate alla ricerca della parte gioiosa, fanciulla che ognuno di noi nasconde e/o reprime.



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LE PARALISI



Per paralisi si intende la perdita totale o parziale (nel primo caso si parla di paralisi propriamente detta o plegia - sebbene quest'ultima dizione, benché ampiamente utilizzata in clinica, non costituisca un vocabolo della lingua italiana, ma solo una desinenza in termini come tetraplegia, paraplegia, etc. -, mentre nel secondo caso si parla di paresi) non irreversibile della funzione motoria di un organo, causata da lesione del nervo motore o da patologia di natura tossica, infiammatoria, o meccanico-traumatica del sistema nervoso o delle fibre muscolari.

Dal punto di vista sintomatologico si distinguono due tipi di paralisi: la paralisi flaccida, nella quale la muscolatura si presenta ipotonica, come nel caso di botulismo e la paralisi spastica, tipica del tetano nella quale, al contrario, i muscoli si presentano ipertonici. La paralisi può decorrere o meno con la perdita della sensibilità, dipendendo questo fatto dalla contemporanea lesione della componente sensitiva nervosa.

L'atrofia muscolare è una condizione patologica caratterizzata dalla progressiva diminuzione delle dimensioni di uno o più muscoli. Questa può essere la conseguenza di una ridotta ossigenazione (immobilizzazione prolungata di varia origine), ischemia, compressione (ernia discale e sindrome del tunnel carpale), ridotta stimolazione funzionale (lesioni del midollo spinale o malattia del motoneurone) e danno muscolare (distrofia o traumi).
L'atrofia può associarsi a debolezza o, nel caso la perdita della funzione motoria sia completa, a paralisi. La paralisi atrofica è caratterizzata, quindi, dalla perdita della motilità volontaria associata alla riduzione del tono muscolare (in pratica, i muscoli appaiono flaccidi ed assottigliati).
Cause di natura infettiva comprendono botulismo, lebbra, poliomielite e sifilide. Atrofia e paralisi muscolare si possono associare, inoltre, a quadri clinici di artrosi ed artrite, borsite, piede diabetico, ittiosi e cirrosi epatica.

Un fenomeno misterioso e inquietante, che può colpire il 10-40% delle persone nel corso della vita. Sono le paralisi del sonno, situazioni in cui ci si sveglia da un sogno vividissimo e si è totalmente incapaci di muoversi. Talvolta si hanno anche terribili allucinazioni, e la tentazione di cercare una spiegazione sovrannaturale può essere forte. Ebbene, secondo una ricerca condotta da un team dell'Università di Padova molte 'vittime' delle paralisi del sonno ancora oggi chiamano in causa una specie di strega o gatto umanizzato, la 'Pandafeche', che ritorna nelle tradizioni popolari di mezzo mondo. La ricerca sarà presentata il 10 luglio al Congresso Europeo Della Psicologia a Milano, che si terrà all’Università Bicocca.

Lo studio ha visto la collaborazione di Università di Padova, Università della California e Università di Harvard. "Ero a un congresso a Città del Capo - racconta Andrea Romanelli del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova, autore dello studio -quando ho conosciuto gli altri colleghi e abbiamo avuto modo di renderci conto che per molte persone questo fenomeno, che può essere davvero spaventoso, aveva una spiegazione sovrannaturale. Il nostro è il primo studio che ha mostrato come una larga percentuale della popolazione generale anche in Italia - spiega Romanelli - avalli spiegazioni sovrannaturali della paralisi del sonno. Con una specifica interpretazione culturale del fenomeno, chiamato appunto 'attacco della Pandafeche''.

Si tratta di un essere soprannaturale che prende le sembianze di una strega o di una bestia demoniaca - un fantasma o un gatto dalle sembianze umanoidi - e che sarebbe, secondo la tradizione popolare, la causa della paralisi nel sonno. I ricercatori delle tre Università hanno scoperto che il 38% del gruppo di persone esaminate, composto da individui che hanno avuto almeno un episodio di paralisi nel sonno, riteneva che questa esperienza potesse essere causata dalla creatura soprannaturale, e il 28% era certo che la paralisi fosse causata proprio dalla Pandafeche.

Ma che cosa succede, in realtà? "La paralisi nel sonno - ricorda l'esperto - è un'incapacità di muoversi quando ci si risveglia durante la fase del sonno Rem, quella nella quale avvengono i sogni e il corpo normalmente si paralizza proprio per impedirci di 'vivere i sogni', agire, e farci male involontariamente. Insomma, se tutto funziona normalmente si tratta di un meccanismo di sicurezza. Invece nel caso delle paralisi il soggetto 'sogna con un occhio aperto': è ancora immerso nell'attività onirica di sonno Rem ma è sveglio, solo che non può muoversi e non capisce il perché. Oltretutto l'attività onirica ancora in corso può creare allucinazioni, anche terrificanti, durante gli episodi". Insomma, si tratta di esperienze spaventose, "probabilmente anche influenzate dalle interpretazioni culturali" che se ne danno.



"Abbiamo visto infatti che, se ci sono allucinazioni e scatta la spiegazione sovrannaturale, tende anche ad aumentare il numero degli episodi", aggiunge il ricercatore. L'esperienza, in realtà "è del tutto innocua: è come essere svegli e sognare contemporaneamente". Ma non per questo è meno spaventosa. Non deve essere un caso che l'attribuzione di questo disturbo a fenomeni soprannaturali sia presente anche in altre culture estranee a quella italiana: in Egitto ad esempio si ritiene che sia colpa del demone Shaitan o degli spiriti Jinn, presenti nel Corano.

L'articolo, pubblicato in 'Culture, Medicine, and Psychiatry', ricostruisce il fenomeno e analizza la figura della Pandafeche, "tipica della tradizione dell'Italia centrale, soprattutto Abruzzo, Umbria e Marche". Ma altri esempi di spiegazioni soprannaturali della paralisi nel sonno includono la 'old hag' (letteralmente 'vecchia strega' a Terranova), il demone Kanashibari in Giappone, "l’oppressione del fantasma" in Cina, "il fantasma che ti spinge in basso" tra i cambogiani e persino il rapimento alieno negli Stati Uniti potrebbe avere la stessa origine.







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L'EFFETTO PLACEBO



Una pillola di zucchero può far guarire quanto una medicina vera: è l’effetto placebo, ed è ben noto a medici e ricercatori. Da decenni, ormai, l’efficacia di un farmaco viene confrontata nelle sperimentazioni cliniche con quella di una pillola finta, per vedere se davvero funziona o se si tratta semplicemente dell'effetto – per niente trascurabile – attribuibile al placebo. Soprattutto in disturbi che hanno una forte componente psicologica, dal mal di testa alla depressione, dalla sindrome del colon irritabile al dolore, si sa che una finta medicina può funzionare molto bene per alcune persone e niente o quasi per altre.
Una nuova analisi sostiene che l’effetto placebo potrebbe essere più o meno potente su ciascuno di noi a seconda delle caratteristiche genetiche. Nella revisione pubblicata sulla rivista Trends in molecular medicine un gruppo di ricercatori ha analizzato le conoscenze attuali in materia di radici genetiche dell’effetto placebo e identificato, sulla base degli studi pubblicati, undici geni che avrebbero un’influenza diretta su quanto rispondiamo a una pillola finta.

«La comprensione del ‘placeboma’ – l’insieme dei geni collegati alle risposte al placebo – apre nuove possibilità per migliorare le reazioni dei pazienti ai trattamenti clinici e farmaceutici e per sviluppare progetti di ricerca sull’analisi delle differenze farmaco-placebo» ha detto Kathryn Hall, della Harvard Medical School, autore dello studio.
Alcune ricerche hanno identificato dei tratti caratteriali che sembrano collegati al fatto di essere un buon "risponditore" al placebo, come l’essere socievoli, estroversi, mentre studi di neuroimmagine hanno identificato le aree del cervello più attive nelle persone in cui l'effetto è più pronunciato.

Studi precedenti hanno anche stabilito che certi sistemi di neurotrasmettitori nel cervello, specialmente quello della dopamina, della serotonina e degli endocannabinoidi, fanno da mediatori biochimici importanti. L'analisi dei ricercatori di Harvard ha esaminato gli studi disponibili su come le variazioni genetiche che influiscono su questi sistemi possano modificare anche la risposta al placebo, identificando undici geni che in maniera più probabile hanno a che fare con i “miglioramenti” alla somministrazione della famosa pillola di zucchero. Per esempio, possedere due copie di una particolare mutazione del gene che codifica per la molecola che scinde il neurotrasmettitore dopamina renderebbe più suscettibili all’effetto placebo.

Resta il problema, una volta accertate, del che cosa fare di queste conoscenze. Gli autori dello studio suggeriscono che, sulla base delle informazioni genetiche, sarebbe possibile selezionare i pazienti arruolati negli studi clinici in modo da escludere quelli su cui la pillola finta ha un forte effetto, oppure fare in modo distribuirli in entrambi i bracci della sperimentazione di un farmaco. In teoria, in futuro, sarebbe possibile mirare meglio le cure per ciascun paziente in base al suo profilo genetico di buon o cattivo “risponditore” al placebo. O sfruttare meglio la componente "placebo" in alcuni tipi di medicine alternative, come l'omeopatia.

Diversi studi hanno indicato che l'effetto placebo è mediato da numerose vie di segnalazione nel cervello, ma finora era stata dimostrata chiaramente soltanto una correlazione fra una maggiore sensibilità all'effetto placebo in situazioni di anestesia locale e una particolare variante (polimorfismo di singolo nucleotide, o SNP) del gene COMT, che produce un enzima, la catecol-O-metiltrasferasi, che interviene nel metabolismo della dopamina e di altre catecolamine.

Nel nuovo studio Kathryn T. Hall e colleghi hanno passato in rassegna la letteratura scientifica sull'argomento riuscendo a identificare almeno altri dieci SNP a carico di altrettanti geni che appaiono coinvolti nell'effetto placebo in molte, differenti situazioni cliniche.

Questa scoperta, osservano i ricercatori, ha potenziali ricadute sia sul piano clinico sia su quello della definizione dei protocolli sperimentali per stabilire l'efficacia dei farmaci. "Una maggiore comprensione dell'effetto placebo attraverso l'identificazione dei geni a cui è legato offre la possibilità di migliorare le risposte dei pazienti alle terapie e di rendere più accurati i test progettati per rilevare le differenze fra farmaco e placebo” ha detto la Hall, che ha anche proposto un nuovo nome per il complesso dei geni e delle variazioni geniche coinvolti nell'effetto placebo : placeboma.

Negli studi clinici di efficacia – in cui a metà dei soggetti arruolati viene somministrato un farmaco e all'altra metà un placebo per poi confrontare le differenze nello stato di salute –  per esempio, bisognerebbe selezionare più attentamente i pazienti, escludendo quelli che probabilmente trarrebbero un beneficio da qualsiasi trattamento. Una soluzione alternativa potrebbe dividere equamente il numero dei “soggetti placebo” fra il gruppo che riceve il farmaco da testare e il gruppo di controllo. O ancora: affiancare a questi due gruppi di soggetti, un terzo gruppo che non riceva alcun trattamento, neppure placebo, in modo da poter correggere in fase di analisi dei dati le distorsioni statistiche indotte dalla presenza di soggetti placebo.

Ma l'esistenza del placeboma pone anche questioni di tipo etico: se i nuovi farmaci fossero sperimentati solo su “soggetti non placebo” – si chiedono i ricercatori – sarebbe poi corretto somministrarli ai soggetti placebo? Prima di prescriverli, il medico dovrebbe richiedere il test sulla propensione genetica del paziente all'effetto placebo? E il paziente dovrebbe potersi rifiutare di sottoporsi a quel test? Il paziente dovrebbe essere avvertito della sua eventuale propensione? E potrebbe rifiutarsi di venirlo a sapere? E infine, e soprattutto: sapere di essere un soggetto placebo può influire sulla risposta all'effetto?

Il termine placebo deriva dal futuro del verbo latino placere, letteralmente "io piacerò". Il termine usa la prima parola dell'Antifona dell'Ufficio dei Defunti: "Placebo Domino in regione vivorum", ovvero "Piacerò al Signore nella terra dei viventi".

L'effetto placebo e i suoi principi di funzionamento sono prevalentemente stati compresi ed interpretati in termini psicologici: il meccanismo alla base è psicosomatico nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria. In una certa misura possono confondersi con l'effetto placebo anche la guarigione spontanea di un sintomo o di una malattia, così come pure il fenomeno della regressione verso la media. In altre parole il paziente si rivolge al medico "quando proprio non ne può più" e poi i suoi disturbi rientrerebbero comunque nella media. Questo ritorno ai livelli normali del disturbo può essere scambiato per effetto placebo.

Alcuni sostengono che è difficile analizzare il fenomeno del placebo e dell'effetto, poiché in base ai propri modelli culturali si privilegiano ora le caratteristiche del placebo, ora le dinamiche del rapporto medico-paziente, ora l'ipotesi di una determinante personologica; da qui anche la distinzione tra chi risponde al placebo (placebo responders) e chi non è ricettivo all'effetto placebo (non responders). Alcuni autori affermano che ci sono alcuni fondamentali elementi costitutivi dell'effetto placebo: il farmaco placebo o mezzo, l'operatore o terapeuta, la capacità del paziente di rispondere o di essere refrattario al placebo, l'ambiente nel quale si effettua il trattamento.




Negli studi clinici controllati (in cui un farmaco "nuovo" lo si confronta spesso con il placebo per definirne l'efficacia specifica) il dilemma etico è invece se sia corretto usare come confronto il placebo quando esistono già in commercio farmaci di efficacia documentata i quali potrebbero venire essi usati per il confronto con il farmaco nuovo.

Ci sono al riguardo posizioni più radicali negative e altre più conciliative, secondo le quali l'uso del placebo è ammissibile anche in questo caso, ma condicio sine qua non è che:  i soggetti avviati a trattamento con placebo abbiano dato ad hoc un consenso libero e adeguatamente informato e che la non erogazione di un trattamento efficace già disponibile non comporti comunque pericoli o conseguenze gravi.

La determinazione e l'accertamento dei meccanismi d'azione del placebo è complicata dal numero di variabili che intervengono nel determinare l'effetto e ogni studioso tende a privilegiare ora una strada ora un'altra (ad esempio i ricercatori di indirizzo biologico cercano spiegazioni dell'effetto placebo in meccanismi molecolari e neurochimici, così quelli di indirizzo psicologico si rifanno alle teorie psicodinamiche).

È tuttavia plausibile sostenere che nell'effetto placebo entrino in gioco molteplici fattori, tra questi:

fattori biologici (ad es. le endorfine che medierebbero l'effetto antalgico placebo)
suggestione e l'autosuggestione
In definitiva, il placebo, sebbene mal definibile in termini di causazione, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.

L'effetto placebo è riscontrabile anche in patologie organiche come l'artrite reumatoide, l'osteoartrite o l'ulcera peptica e persino in pazienti sottoposti ad intervento chirurgico. In alcuni interventi di cardiochirurgia, o in artroscopia, o anche attuati in soggetti sofferenti di dolore addominale persistente, sottoposti a precedenti interventi sull'addome per rimuovere le aderenze, la terapia chirurgica fasulla (sham operation) ha prodotto gli stessi benefici di quella vera. Moerman sottolinea come non si tratti solo di un effetto di suggestione ma di una risposta biochimica, ormonale e immunitaria del corpo, in risposta al significato attribuito dal soggetto all'atto terapeutico.

È dimostrato che qualunque terapia medica, comprese quelle complementari alternative, se attuata in un clima di fiducia reciproca tra paziente e terapeuta, anche grazie all'effetto placebo, può apportare benefici al paziente stesso.

Alcuni studi hanno provato a dimostrare che i placebo possono anche avere effetti positivi sulla esperienza soggettiva di un paziente che è consapevole di ricevere un trattamento senza principi attivi, rispetto a un gruppo di pazienti controllato che consapevolmente non ha ottenuto un placebo.

L'effetto placebo non è circoscritto solo ad alcune patologie ma si può manifestare nel corso di terapie sia di malattie mentali che di psicosomatiche e somatiche, potendo coinvolgere quindi ogni sistema o organo del paziente.

Simmetricamente, un atto terapeutico che provochi un effetto negativo su di un sintomo o una malattia indipendentemente dalla sua specifica efficacia viene chiamato nocebo (il futuro del verbo latino nocere, letteralmente "nuocerò"). Può essere spesso ricondotto ad un atteggiamento ansiogeno da parte del medico o, più in generale, ad un rapporto medico-paziente impostato in modo non corretto. D'altra parte è necessario considerare la componente "nocebo" in una terapia farmacologicamente attiva e validamente testata, qualora ci si trovi in presenza di effetto psicosomatico negativo dovuto a scarsa fiducia nel farmaco o nel medico curante.



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martedì 27 ottobre 2015

IL CANCRO



Il tumore, detto anche neoplasia o cancro, è una neoformazione di tessuto di tipo autonomo, progressivo e irreversibile. I tumori sono composti da cellule che perdono la capacità di controllo della proliferazione, non rispondendo più all'inibizione da contatto con le altre cellule.
Il tumore può essere benigno o maligno.
I tumori benigni sono masse di cellule ben delimitate, circondate da una capsula di tessuto connettivo, incapaci di infiltrare i tessuti circostanti o di generare metastasi, e sono in genere ben differenziate.
I tumori maligni si differenziano dai tumori benigni solamente in base alla capacità di infiltrare altri tessuti e di formare metastasi, ovvero di lasciare il sito di origine (attraverso i vasi sanguigni, il sistema linfatico o per semplice diffusione attraverso le cavità corporee) per sviluppare tumori in altri tessuti.
La maggior parte dei tumori maligni originano dall'evoluzione di tumori benigni, che acquistano la capacità di infiltrare i tessuti e metastatizzare.

I tumori benigni si caratterizzano con il suffisso -oma (osteoma, fibroma, ecc). Se il tumore è di origine ghiandolare, allora si utilizza il termine adenoma seguito dal tipo cellulare (adenoma prostatico, del fegato, ipofisario, ecc). Il polipo, il papilloma e la cisti sono tumori benigni che originano dagli epiteli.
I tumori maligni si caratterizzano con il suffisso sarcoma se interessano i tessuti ossei e cartilaginei (osteosarcoma, fibrosarcoma), per gli altri si utilizza il termine carcinoma seguito dal tessuto interessato. I tumori di origine ghiandolare vengono denominati adenocarcinomi (adenocarcinoma del polmone, pancreatico, ecc).

La classificazione dei tumori si effettua valutando la gradazione e la stadiazione.
La gradazione è un parametro di malignità: viene valutata l'attività proliferativa delle cellule, attribuendo un valore da 1 a 3.
La stadiazione è un parametro di invasività: viene valutata la grandezza a partire dalla dimensione minima rilevabile (parametro T, da 1 a 4); l'invasione dei linfonodi (N, da 0 a 2); e la presenza o meno di metastasi (M, da 0 a 2).

Il tumore ha sempre origine monoclonale, ovvero si sviluppa a partire da una singola cellula che, esposta a un agente mutageno, subisce un danneggiamento irreversibile del proprio DNA. Il tumore non si sviluppa in una sola fase, occorrono in genere migliaia di mutazioni che vanno a colpire i geni deputati al controllo di alcune funzioni cellulari. I principali geni coinvolti nella formazione del tumore sono di 2 tipi:
i geni oncosoppressori. La cellula è in grado di riparare i danni del DNA, e lo fa utilizzando specifici geni, chiamati oncosoppressori proprio perché in grado di bloccare la formazione di una cellula tumorale. Se questi geni vengono mutati e la cellula non è più in grado di difendersi dagli attacchi al DNA, aumentano le probabilità di formazione di una cellula tumorale.
i geni protoncogeni o oncogeni. Sono i geni che controllano la proliferazione cellulare, che di norma vengono attivati e disattivati in funzione di ben determinati stimoli proliferativi. Se viene meno questo controllo a causa di una mutazione genica, la cellula inizia a proliferare senza controllo. Questi geni sono chiamati protoncogeni perché favorisono attivamente la formazione del tumore.




Attualmente sono stati individuati diversi geni che risultano mutati nella stragrande maggioranza dei tumori.
I tumori non si formano dall'oggi al domani, ma con un processo di trasformazione genetica progressivo, dove le mutazioni si accumulano nel tempo e trasformano gradualmente la cellula. La ricerca ha evidenziato che nessun tumore si forma per la mutazione di un solo gene, ma quasi sempre in seguito a modificazioni multiple che comportano l'attivazione di diversi geni protoncogeni e la perdita di più geni oncosoppressori.

Affinché una cellula venga trasformata in cellula neoplastica deve subire 2 processi: l'iniziazione e la promozione.
L'iniziazione consiste nella mutazione del DNA ad opera di una sostanza cancerogena. In genere non è sufficiente che una sostanza sia in grado di casuare mutazioni, poiché esistono sostanze mutagene, ma solo alcune di esse sono cancerogene, ovvero in grado di trasformare la cellula in tumore. Il danno causato dalle sostanze iniziatrici è lineare e non presenta una soglia: se 1 g della sostanza X provoca un danno Y, 2 g provocheranno un danno 2Y, 3 g un danno 3Y ecc. Inoltre, il danno è irreversibile e ha memoria, la promozione può cioè agire anche a distanza di tempo rispetto alla promozione, provocando il tumore.
La promozione avviene in seguito all'esposizione della cellula all'agente iniziatore ed è necessaria al fine di trasformare la normale cellula in tumore. Gli agenti promotori non sono cancerogeni da soli, ma devono agire dopo l'esposizione ad una sostanza cancerogena iniziatrice, hanno un'azione che può essere reversibile negli stadi iniziali, non formano legami con le macromolecole biologiche e di conseguenza non producono mutazioni.
Se l'agente promotore è in grado di agire per un tempo sufficiente con una dose sufficiente, si forma il tumore vero e proprio, che però può essere ancora benigno, non in grado di infiltrare e formare metastasi. A seguito di ulteriori mutazioni, il tumore benigno può trasformarsi in maligno.
Le sostanze promotrici presentano, a differenza di quelle iniziatrici, un effetto soglia. L'alcol, una tipica sostanza promotrice, non ha effetto promotore a basse dosi, ma quando l'assunzione raggiunge una soglia quantitativa scatta l'effetto promotore. Un promotore è una sostanza in grado di aumentare la proliferazione delle cellule iniziate, un effetto che può contribuire allo sviluppo di ulteriori mutazioni e alla trasformazione in cellule neoplastiche.
Esistono sostanze cancerogene che possiedono capacità iniziatrice e promotrice, in grado quindi di provocare il tumore indipendentemente dalla presenza di altre sostanze.



Ci sono quattro tipi di geni che, se alterati, possono essere alla base del cancro:
oncogéni (o geni oncògeni)
geni oncosoppressori
geni coinvolti nel cosiddetto "suicidio cellulare" (o apoptosi)
geni implicati nei meccanismi di riparazione del DNA
altri geni
Studi degli ultimi anni hanno inoltre messo in rilievo l'importanza per la genesi del cancro di piccole molecole regolatorie dette microRNA (miRNA), frammenti di acidi nucleici che modulano l'espressione di diversi geni.

Per svilupparsi il tumore ha bisogno di ossigeno e sostanze nutritive. Per questo produce sostanze capaci di stimolare la formazione di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi) che vadano a irrorare il nuovo tessuto in crescita.
Oltre alla complicità dei vasi sanguigni, il tumore in crescita riesce a ottenere l'aiuto di altre componenti del cosiddetto microambiente del tumore, cioè del contesto in cui si sviluppa. Una condizione di infiammazione cronica, per esempio, induce la produzione di sostanze che lo favoriscono e ormoni come l'insulina, prodotta oltre il dovuto in seguito a eccessi alimentari, ne stimolano la crescita. Entrambe queste circostanze sono favorite dagli stili di vita.
L'infiammazione, in particolare, è ormai considerata dagli esperti il più importante filo conduttore che unisce tra di loro gli stili di vita nocivi (alimentazione scorretta, sedentarietà, fumo) e le più importanti malattie croniche tipiche della nostra epoca: non solo il cancro, ma anche il diabete, le malattie del cuore e dei vasi e probabilmente anche alcune forme di demenza come l'Alzheimer, tutte favorite dalle stesse cattive abitudini.
Un ruolo fondamentale è poi svolto dal sistema immunitario, che in questi casi viene meno al suo dovere di proteggere l'organismo, ma spesso viene in un certo senso "reclutato" come complice dalle cellule tumorali per proteggere la massa tumorale in crescita. Talvolta invece può essere proprio un calo delle difese immunitarie a facilitare la comparsa della malattia.



Non esiste quasi mai, tranne in alcune rare forme ereditarie, un'unica causa che possa spiegare l'insorgenza di un tumore. Al suo sviluppo concorrono diversi fattori, alcuni dei quali non sono modificabili, come i geni ereditati dai propri genitori o l'età, mentre su altri si può intervenire per ridurre il rischio di andare incontro alla malattia.

L'invecchiamento è il più importante fattore di rischio per il cancro: la maggior parte dei tumori infatti si sviluppa in tarda età. È anche per l'aumento dell'età media della popolazione, quindi, che nell'ultimo secolo il numero di persone che hanno sviluppato la malattia è andato aumentando. Ad ogni modo, diverse forme di cancro si possono presentare, con frequenza variabile, a qualunque età, in particolare i tumori linfatici (leucemie, linfomi) e alle cellule germinali del testicolo e dell'ovaio.

Nella maggior parte dei casi, quando si tratta di tumori, non si parla di "ereditarietà" ma di "familiarità": ciò significa che con i geni non si trasmette la malattia, ma solo una maggiore predisposizione a svilupparla. Se quindi ci sono stati diversi casi di cancro in famiglia, non significa che tutti i membri prima o poi si ammaleranno, ma solo che occorre prestare maggiore attenzione a seguire stili di vita sani e sottoporsi con regolarità ai controlli suggeriti dal proprio medico.
È possibile infatti ereditare un gene mutato che rende la cellula più suscettibile alla malattia; ma perché il tumore possa cominciare a svilupparsi e crescere è necessario che si sommino altri errori.
Per questo per il momento gli esperti sconsigliano di sottoporsi senza una particolare indicazione medica ai test genetici che possano rivelare una maggiore probabilità statistica di andare incontro al cancro.
Questi esami infatti non escludono, se negativi, la possibilità di ammalarsi: chi riceve un verdetto rassicurante può tuttavia essere invogliato a prestare meno attenzione a una vita sana o ai controlli prescritti. Viceversa, sapere di avere una maggiore probabilità di ammalarsi può produrre ansie inutili, che non necessariamente si traducono in un beneficio per la salute.
Esistono tuttavia casi particolari da discutere con il proprio medico: se per esempio nella stessa famiglia si sono registrati diversi casi di tumore all'ovaio o al seno, soprattutto in età giovanile, si può valutare l'opportunità di sottoporsi al test per verificare la presenza di mutazioni del gene BRCA, che predispongono a queste forme e, negli uomini, al tumore della prostata. Un risultato positivo al test può suggerire, in accordo con il medico, di anticipare l'età a cui cominciare i controlli di screening per il tumore del seno, ed effettuare i percorsi terapeutici più appropriati al caso.
Allo stesso modo, devono sottoporsi a controlli più frequenti i portatori di poliposi adenomatosi familiare, che più facilmente vanno incontro a tumori dell'intestino.

Così come la familiarità, anche le abitudini della vita quotidiana non causano direttamente il cancro, ma aumentano le probabilità di svilupparlo: per questo sono detti fattori di rischio. Gli stili di vita che più influiscono sul rischio di sviluppare un tumore sono:
fumo
sole e raggi ultravioletti
alcol
tipo di alimentazione
sovrappeso e obesità
sedentarietà

Ci sono diversi elementi che possono favorire la comparsa della malattia anche nell'ambiente che ci circonda. Alcuni sono presenti in natura, come certi minerali o agenti infettivi, altri sono prodotti chimici cui possono essere maggiormente esposte alcune categorie di lavoratori, senza contare l'effetto delle radiazioni. Ecco i più importanti:
inquinamento atmosferico
agenti chimici
sostanze presenti in natura
agenti fisici



È vero che il cancro ha molte cause, che in ogni persona concorrono tra loro, insieme ad altrettanti fattori protettivi, a determinare il rischio individuale di ammalarsi. È vero anche, tuttavia, che la maggior parte di questi fattori sono modificabili: quasi un terzo delle morti per cancro si potrebbero evitare solo abolendo l'uso di tutti i prodotti a base di tabacco, e con una dieta sana, accompagnata da una regolare attività fisica, molte altre vite potrebbero essere salvate.

Diversi tipi di cancro possono comportarsi in modo molto diverso. Per esempio il cancro al seno e il cancro ai polmoni sono malattie estremamente diverse: crescono con ritmi diversi e rispondono a trattamenti differenti. E’ per questo motivo che le persone colpite necessitano di un trattamento specifico per il tipo di tumore sviluppato.

Le varie tipologie di possono essere raggruppate in categorie più ampie, tra cui ricordiamo:

Carcinoma, il cancro che inizia nella pella o in tessuti che rivestono o coprono gli organi interni.
Sarcoma, il cancro che inizia a svilupparsi nelle ossa, nella cartilagine, nel tessuto adiposo, nei muscoli, nei vasi sanguigni o in altri tessuti connettivi e di sostegno.
Leucemia, il cancro che inizia a svilupparsi nel sangue e negli organi dove questo viene prodotto (midollo osseo). E’ causa di un gran numero di cellule anomale che vengono prodotte ed immesse nel sangue.
Linfomi e mieloma, tumori che iniziamo nelle cellule del sistema immunitario.
Tumori del sistema nervoso centrale, tumori che iniziamo nel tessuto del cervello e del midollo spinale.

Il tumore è la seconda causa di morte negli Stati Uniti, quasi la metà di tutti gli uomini e un po’ più di un terzo di tutte le donne sviluppano un cancro nel corso della loro esistenza.

Oggi milioni di persone convivono con il cancro o ne sono state colpite in passato. Il rischio di sviluppare la maggior parte dei tumori può essere ridotto da cambiamenti nello stile di vita personale, ad esempio smettendo di fumare e seguendo una dieta migliore. In genere, quanto prima viene riscontrata la presenza di un tumore, tanto migliori sono le possibilità di vivere ancora per molti anni.






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lunedì 26 ottobre 2015

LA FOLLICOLITE



La follicolite è un disturbo in cui i follicoli piliferi (le minuscole sacche nella pelle alla radice del pelo o del capello) si infettano, nella maggior parte dei casi a causa di batteri, virus o funghi. La causa più frequente della follicolite è lo Staphylococcus aureus.

I follicoli piliferi hanno una densità maggiore sul cuoio capelluto, ma sono presenti in tutto l’organismo, tranne che sulle palme delle mani, sulle piante dei piedi e sulle mucose, ad esempio sulle labbra. Se i follicoli sono danneggiati, possono essere invasi dai microrganismi.

Alcune varianti della follicolite sono dette follicolite da bagno caldo e il prurito del barbiere.

Le infezioni gravi possono causare la caduta definitiva dei peli e dei capelli e cicatrici definitive; anche la follicolite lieve può provocare disagi ed essere molto imbarazzante.

L’infezione di solito si presenta sotto forma di brufoli piccoli e bianchi che compaiono intorno a uno o più follicoli piliferi; la maggior parte dei casi è superficiale, può causare prurito o, più raramente, far male. La follicolite superficiale spesso scompare da sola nel giro di alcuni giorni, invece per la follicolite profonda o ricorrente può essere necessaria una terapia.

Tra le cause più frequenti delle lesioni dei follicoli, ricordiamo:

Attrito dovuto alla rasatura o agli abiti troppo stretti,
Eccessiva traspirazione,
Malattie infiammatorie della pelle, come la dermatite e l’acne,
Lesioni della pelle, come le abrasioni o le ferite chirurgiche,
Pelle coperta, ad esempio da bende e cerotti adesivi in plastica.

La follicolite può colpire chiunque, ma alcuni fattori possono rendere maggiormente soggetti a questo disturbo; tra i fattori di rischio ricordiamo:

Patologie che diminuiscono la resistenza alle infezioni, come il diabete, la leucemia, il trapianto di organi o l’HIV/AIDS,
Disturbi preesistenti della pelle, come l’acne o la dermatite,
Trauma alla pelle, dovuto a lesioni o interventi chirurgici,
Terapia antibiotica a lungo termine per l’acne,
Terapia con corticosteroidi (cortisone) per uso topico,
Obesità (la follicolite colpisce con maggior frequenza chi è in sovrappeso),
Indossare per lunghi periodi abiti o accessori che non lasciano traspirare il calore, come gli stivali alti da pescatore,
Esposizione all’acqua calda, ad esempio nella vasca da bagno o nelle piscine riscaldate.



Follicolite da stafilococco. Questo tipo di follicolite piuttosto diffuso è caratterizzato da brufoli biancastri e pieni di pus che provocano prurito e possono colpire qualsiasi zona del corpo in cui ci sono i follicoli piliferi. Quando colpisce le guance e la zona della barba, è detta prurito del barbiere. Si verifica quando i batteri di tipo Staphylococcus aureus infettano i follicoli piliferi. Gli stafilococchi, normalmente, vivono sulla superficie della pelle, però in genere causano problemi solo quando riescono a entrare nell’organismo attraverso un taglio o una ferita, provocati ad esempio quando ci si rade o ci si gratta, oppure quando c’è una lesione alla pelle.
Follicolite da Pseudomonas (follicolite da bagno caldo). I batteri del genere Pseudomonas che causano questo tipo di follicolite crescono in molti ambienti diversi, ad esempio nelle piscine in cui i livelli del cloro e del PH non sono ben regolati. Dopo un periodo variabile dalle 8 ore ai cinque giorni dall’esposizione al batterio, compare un’eruzione cutanea con brufoli arrossati, rotondi e che provocano prurito; poi i brufoli si trasformano in pustole, cioè in piccole sacche piene di pus. L’eruzione cutanea, con ogni probabilità, è più grave nelle zone in cui il costume trattiene l’acqua contaminata a contatto con la pelle.
Pseudofolliculitis barbae. Quando, dopo la rasatura, i peli della barba si incarnano, si può verificare la pseudofolliculitis barbae, cioè l’infiammazione dei follicoli piliferi nella zona della barba. L’infiammazione, in alcuni casi, può causare la formazione di cicatrici scure in rilievo (cheloidi) sul viso e sul collo.
Follicolite da pityrosporum. Maggiormente diffusa tra gli adolescenti maschi e tra gli uomini, la follicolite da pityrosporum è causata da un lievito, e provoca la comparsa di pustole croniche, arrossate e pruriginose sulla schiena e sul torace e in alcuni casi anche sul collo, sulle spalle, sull’avambraccio superiore e sul viso.

Sycosis barbae. Si verifica tra gli uomini che iniziano a radersi e può comportare l’infiammazione dell’intero follicolo pilifero. Compaiono piccole pustole, prima sul labbro superiore, poi sul mento e sulla mascella, che diventano sempre più evidenti man mano che si continua a fare la barba. La sicosis barbae grave può lasciare cicatrici.
Follicolite gram-negativa. Può comparire quando ci si sottopone a una terapia antibiotica a lungo termine per combattere l’acne. Gli antibiotici alterano il normale equilibrio dei batteri nel naso, provocando la proliferazione dei batteri pericolosi (batteri gram-negativi). Nella maggior parte delle persone non si verificano problemi e la flora batterica nasale ritorna alla normalità una volta terminata la terapia antibiotica. In alcuni pazienti, tuttavia, i batteri gram-negativi si diffondono e causano nuove lesioni di tipo acneico, in alcuni casi anche gravi.
Foruncoli e favi. Compaiono quando i follicoli piliferi sono profondamente infettati dagli stafilococchi. I foruncoli, di solito, si presentano all’improvviso e sono dolorosi, rosati o arrossati. Anche la pelle circostante può essere arrossata e gonfia. Il foruncolo, poi, si riempie di pus, si ingrandisce e inizia a fare più male, fino a quando alla fine si rompe e si sgonfia. I foruncoli più piccoli di solito guariscono senza lasciare cicatrici, invece quelli più grandi possono lasciare una cicatrice. I favi sono gruppi di foruncoli che di solito colpiscono il collo, le spalle, la schiena o le cosce. I favi possono causare infezioni più profonde e più gravi rispetto ai foruncoli singoli; si sviluppano e guariscono più lentamente e hanno maggiori probabilità di lasciare cicatrici.
Follicolite da eosinofili. Presente soprattutto nelle persone affette da HIV, questo tipo di follicolite è caratterizzato da lesioni ricorrenti, infiammate, con presenza di pus, che colpiscono soprattutto il viso e in alcuni casi anche la schiena o l’avambraccio superiore. Le lesioni, di solito, si diffondono nelle zone circostanti; possono prudere molto e spesso, una volta guarite, lasciano zone di pelle più scura rispetto a quella circostante (iperpigmentazione). La causa della follicolite da eosinofili non è nota, tuttavia potrebbe essere connessa allo stesso lievito che provoca la follicolite da pityrosporum.

Gli episodi di follicolite lieve di solito scompaiono senza alcuna terapia tuttavia, se l’infezione non migliora nonostante i rimedi casalinghi, sembra diffondersi o è ricorrente, vi consigliamo di andare dal medico o dal dermatologo. Probabilmente avrete bisogno di farmaci antibiotici o antimicotici per tenere sotto controllo il problema.
I casi di follicolite lieve con ogni probabilità non causano complicazioni, quando si verificano, però, possono comprendere:

Infezioni ricorrenti o diffuse,
Placche ampie e pruriginose, causate dall’infezione da stafilococco.
La follicolite grave può provocare:

Foruncolosi. Questo disturbo comporta la crescita di molti brufoli sottopelle. Di solito i brufoli, all’inizio, sono piccoli e arrossati, ma diventano più grandi e iniziano a far male quando si riempiono di pus.
Cicatrici. La follicolite grave può lasciare cicatrici spesse e in rilievo (cicatrici ipertrofiche o cheloidi) oppure zone di pelle iperpigmentata, cioè più scura del normale.
Distruzione del follicolo pilifero. Può provocare la caduta permanente del pelo o del capello.

I casi di follicolite lieve di norma guariscono quasi completamente ricorrendo ad alcuni semplici rimedi pratici.



Applicate un impacco tiepido o un asciugamano bagnato con acqua tiepida sulla zona colpita diverse volte al giorno, per alleviare il disturbo e, se necessario, facilitare la fuoriuscita del pus.
Per alleviare il prurito, provate una lozione all’avena o una crema con idrocortisone in vendita in farmacia senza ricetta.
Lavate delicatamente la zona infetta due volte al giorno con un sapone antibatterico. Usate un asciugamano pulito per asciugarvi dopo ciascun lavaggio.
Non radete la pelle irritata. Se proprio dovete radervi, fatelo con un rasoio elettrico anziché con una lametta e, una volta finito, mettetevi un dopobarba idratante. Cercate inoltre di non radervi contropelo.
Non condividete con nessuno gli asciugamani e, dopo l’uso, lavateli in abbondante acqua calda e sapone. Lavate i vestiti che coprono le zone colpite subito dopo l’uso.

Gli impacchi caldi con aceto bianco possono essere utili per alleviare i sintomi della follicolite.

Evitate gli abiti troppo stretti. Gli abiti stretti, ad esempio i jeans e l’abbigliamento da ginnastica, possono essere alla moda, ma dovete fare attenzione alle lesioni alla pelle.
Fate attenzione alla rasatura. Usate un rasoio elettrico o una lametta nuova per ogni rasatura. Fate attenzione a tenere pulita la zona rasata e a evitare i tagli e i graffi. Se siete una donna e siete soggetta a infezioni, vi consigliamo di cambiare metodo di depilazione, passando ad esempio alla crema depilatoria.
Fate attenzione all’igiene delle vasche e delle piscine. Se avete una piscina, pulitela regolarmente e aggiungete il cloro. Andate in piscina solo se siete sicuri che l’impianto segua le norme igieniche.




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LA MENINGITE



Alcuni autori suggeriscono che già Ippocrate potrebbe essersi reso conto dell'esistenza della meningite, e sembra che il meningismo fosse già noto ai medici di epoca pre-rinascimentale come Avicenna. La descrizione della meningite tubercolare, allora chiamata "idropisia nel cervello" (cioè accumulo di liquidi sierosi nell'encefalo), è spesso attribuita al medico di Edimburgo Sir Robert Whytt e a uno scritto apparso postumo nel 1768. Tuttavia il legame con la tubercolosi e il suo agente patogeno non fu riconosciuto fino al secolo successivo.

Sembra che l'epidemia di meningite sia un fenomeno relativamente recente. Il primo focolaio epidemico di una certa importanza fu registrato a Ginevra nel 1805. In seguito sono state descritte molte altre epidemie in Europa e negli Stati Uniti, mentre la prima segnalazione di un'epidemia in Africa è del 1840. Nel corso del XX secolo le epidemie africane sono divenute molto più comuni, a partire da una grande epidemia che colpì la Nigeria e il Ghana tra il 1905 e il 1908.

Il primo rapporto relativo a un'infezione batterica come causa di meningite si ebbe per merito del batteriologo austriaco Anton Weichselbaum che nel 1887 descrisse il meningococco. I primi studi erano unanimi nel riportare un'elevata mortalità da meningite, con punte oltre il 90%. Nel 1906 lo scienziato statunitense Simon Flexner sviluppò un approccio terapeutico a partire da un antisiero (un siero contenente anticorpi specifici e ottenuto dal sangue di animali precedentemente inoculati con antigeni specifici della meningite) prodotto dai cavalli. Il trattamento ebbe successo e la mortalità per la forma meningococcica della malattia fu marcatamente ridotta. Nel 1944, la penicillina era considerata molto efficace nel trattare la meningite e, con l'introduzione dei vaccini alla fine del XX secolo, si è avuto un netto calo di casi dovuti all'agente patogeno Haemophilus. Nel 2002 è stato evidenziato come il trattamento con steroidi potrebbe migliorare la prognosi della meningite batterica.

Dal 1980, molti paesi hanno incluso l'immunizzazione contro l'Haemophilus influenzae di tipo B nei loro schemi di vaccinazione infantile di routine. Ciò ha praticamente eliminato in tali paesi questo patogeno come causa di meningite nei bambini. Nei paesi in cui la frequenza della malattia è più alta, il vaccino è ancora troppo costoso. Allo stesso modo, la vaccinazione contro la parotite ha portato a una netta diminuzione del numero di casi di meningite da parotite, che prima della vaccinazione si verificava nel 15% dei casi.

Per il meningococco esistono vaccini contro i sierotipi A, C, W135 e Y. Nei paesi in cui è stato introdotto il vaccino contro il meningococco di gruppo C, i casi provocati da questo patogeno sono diminuiti considerevolmente. Esiste un vaccino quadrivalente che comprende tutti e quattro i vaccini e l'immunizzazione con esso è ormai un obbligo per ottenere il visto necessario a compiere l'Hajj. Lo sviluppo di un vaccino contro il meningococco di gruppo B si è rivelato molto più difficile, in quanto le sue proteine di superficie, che vengono normalmente usate per creare il vaccino, suscitano una debole risposta del sistema immunitario. Tuttavia, alcuni paesi (Nuova Zelanda, Cuba, Norvegia e Cile) hanno messo a punto vaccini contro i ceppi locali di meningococco di gruppo B che hanno mostrato buoni risultati e che sono utilizzati in programmi di immunizzazione locale. Due nuovi vaccini, entrambi approvati per la commercializzazione nel 2014, paiono essere efficaci contro uno spettro più ampio di ceppe di meningococchi del gruppo B. In Africa, l'approccio per la prevenzione e il controllo delle epidemie da meningococco è basata sulla diagnosi precoce della malattia e sulla vaccinazione di massa di emergenza della popolazione a rischio.

La vaccinazione di routine contro lo Streptococcus pneumoniae con il vaccino pneumococcico coniugato (PCV), che è attivo contro sette sierotipi comuni di questo patogeno, riduce in modo significativo l'incidenza della meningite pneumococcica. Il vaccino pneumococcico polisaccaridico, che copre 23 ceppi, viene somministrato solamente ad alcuni gruppi di persone (ad esempio quelli che hanno subito una splenectomia, la rimozione chirurgica della milza), ma non suscita una risposta immunitaria significativa in tutti i destinatari, come ad esempio nei bambini piccoli. È stato riportato come la vaccinazione dei bambini con il bacillo di Calmette-Guérin sia in grado di ridurre significativamente il tasso di meningite tubercolare, ma la sua efficacia cala nell'età adulta e perciò si è alla ricerca di un vaccino migliore.

La profilassi antibiotica è un altro metodo di prevenzione a breve termine, in particolare per la meningite meningococcica. In caso di meningite meningococcica, il trattamento profilattico con l'assunzione di antibiotici (per esempio rifampicina, ciprofloxacina o ceftriaxone) può ridurre il rischio di contrarre la malattia, ma non protegge contro le possibili infezioni future. In seguito al suo uso è stato notato un aumento della resistenza alla rifampicina, che ha portato alla raccomandazione di considerare l'uso di altri farmaci. Nonostante gli antibiotici siano frequentemente utilizzati nel tentativo di prevenire la meningite negli individui con una frattura della base cranica, non vi sono dati sufficienti per determinare se questi siano utili o dannosi. Ciò vale per i pazienti sia con, sia senza una perdita di liquido cefalorachidiano.



La meningite è un’infiammazione delle membrane (le meningi) che avvolgono il cervello e il midollo spinale. La malattia è generalmente di origine infettiva e può essere virale, batterica o causata da funghi. La forma virale, detta anche meningite asettica, è quella più comune: di solito non ha conseguenze gravi e si risolve nell’arco di 7-10 giorni. La forma batterica è più rara ma estremamente più seria, e può avere conseguenze fatali.

In Italia dal 1994 è attivo un sistema di sorveglianza nazionale dedicato alle meningiti batteriche che negli anni successivi si è ampliato a includere tutte le malattie invasive da meningococco, pneumococco ed emofilo (i batteri più frequentemente responsabili di sepsi) . La sorveglianza è coordinata dall’Istituto superiore di sanità ed è estesa a tutto il territorio nazionale.
I batteri che sono più frequente causa di malattie batteriche invasive sono tre:
Neisseria meningitidis (meningococco) alberga nelle alte vie respiratorie (naso e gola), spesso di portatori sani e asintomatici (2-30% della popolazione). La sua presenza non è correlata a un aumento del rischio di meningite o di altre malattie gravi. È stato identificato per la prima volta nel 1887, anche se la malattia era già stata descritta nel 1805 nel corso di un’epidemia a Ginevra. Si trasmette da persona a persona attraverso le secrezioni respiratorie. Il meningococco è un batterio che risente delle variazioni di temperatura e dell’essiccamento. Dunque, fuori dell’organismo sopravvive solo per pochi minuti. La principale causa di contagio è rappresentata dai portatori sani del batterio: solo nello 0,5% dei casi la malattia è trasmessa da persone affette dalla malattia.Esistono 13 diversi sierogruppi di meningococco, ma solo sei causano meningite e altre malattie gravi: più frequentemente A, B, C, Y e W135 e molto più raramente in Africa, X. In Italia e in Europa, i sierogruppi B e C sono i più frequenti. I sintomi non sono diversi da quelli delle altre meningiti batteriche, ma nel 10-20% dei casi la malattia è rapida e acuta, con un decorso fulminante che può portare al decesso in poche ore anche in presenza di una terapia adeguata. I malati di meningite o altre forme gravi sono considerati contagiosi per circa 24 ore dall’inizio della terapia antibiotica specifica. La contagiosità è comunque bassa, e i casi secondari sono rari. Il meningococco può tuttavia dare origine a focolai epidemici. Per limitare il rischio di casi secondari, è importante che i contatti stretti dei malati effettuino una profilassi con antibiotici. Nella valutazione di contatto stretto (che deve essere fatta caso per caso) vengono tenuti in considerazione:

i conviventi considerando anche l’ambiente di studio (la stessa classe) o di lavoro (la stessa stanza)
chi ha dormito o mangiato spesso nella stessa casa del malato
le persone che nei sette giorni precedenti l’esordio hanno avuto contatti con la sua saliva (attraverso baci, stoviglie, spazzolini da denti, giocattoli)
i sanitari che sono stati direttamente esposti alle secrezioni respiratorie del paziente (per esempio durante manovre di intubazione o respirazione bocca a bocca).



La sorveglianza dei contatti è importante per identificare chi dovesse presentare febbre, in modo da diagnosticare e trattare rapidamente eventuali ulteriori casi. Questa sorveglianza è prevista per 10 giorni dall’esordio dei sintomi del paziente. Il periodo di incubazione è generalmente 3-4 giorni (da 2 fino a 10 giorni) Inoltre, bisogna considerare che il meningococco può causare sepsi meningococcica (un quadro clinico, talvolta molto severo, per la presenza del meningococco nel sangue con febbre alta, ipotensione, petecchie, insufficienza da parte di uno o più organi fino anche ad un esito fatale) che può presentarsi da solo o coesistere con le manifestazioni cliniche della meningite.
Streptococcus pneumoniae (pneumococco) è l’agente più comune di malattia batterica invasiva. Oltre alla meningite, può causare quadri clinici di sepsi (generalmente con una sintomatologia di febbre alta, con una forma non così severa come la sepsi meningococcica) polmonite o infezioni delle prime vie respiratorie, come l’otite. Come il meningococco, si trasmette per via respiratoria ma lo stato di portatore è assolutamente comune (5-70% della popolazione adulta). Esistono più di 90 tipi diversi di pneumococco. Le meningiti e le sepsi da pneumococco si presentano in forma sporadica, e non è indicata la profilassi antibiotica per chi è stato in contatto con un caso poiché non si verificano focolai epidemici.
Haemophilus influenzae b (emofilo o Hi) era fino alla fine degli anni Novanta la causa più comune di meningite nei bambini fino a 5 anni. Con l’introduzione della vaccinazione con l’uso del vaccino esavalente i casi di meningite causati da questo batterio si sono ridotti moltissimo. In passato il tipo più comune era l’Haemophilus influenza b (verso il quale è diretto il vaccino), mentre oggi sono più frequenti quelli non prevenibili con vaccinazione. In caso di meningite da Hi, è indicata la profilassi antibiotica dei contatti stretti.

I sintomi della meningite sono indipendenti dal germe che causa la malattia. I sintomi più tipici includono:
irrigidimento della parte posteriore del collo (rigidità nucale)
febbre alta
mal di testa
vomito o nausea
alterazione del livello di coscienza
convulsioni.
L’identificazione del microrganismo responsabile viene effettuata su un campione di liquido cerebrospinale o di sangue.
Nei neonati, alcuni di questi sintomi non sono evidenti. Si può però manifestare febbre, convulsioni, un pianto continuo, irritabilità, sonnolenza e scarso appetito.

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo della meningite batterica vanno elencati:
età: queste patologie colpiscono soprattutto i bambini sotto i 5 anni e altre fasce di età che variano a seconda del germe. Infatti le forme da meningococco interessano, oltre i bambini piccoli, anche gli adolescenti e i giovani adulti, mentre le meningiti da pneumococco colpiscono soprattutto i bambini e gli anziani. L’introduzione dei vaccini nel calendario vaccinale pediatrico e dell’adolescente (solo per il meningococco) stanno riducendo il numero dei casi in questa fascia di età
stagionalità: la malattia è più frequente tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, anche se casi sporadici si verificano durante tutto l’anno
vita di comunità: le persone che vivono e dormono in ambienti comuni, come gli studenti nei dormitori universitari o le reclute, hanno un rischio più elevato di meningite da meningococco e di Haemophilus influenzae
fumo ed esposizione al fumo passivo
patologie: altre infezioni delle prime vie respiratorie o alcune immunodeficienze possono determinare un maggior rischio di malattia meningococcica. Immunodepressione, asplenia, insufficienza cardiaca, asma e l’Hiv sono invece un fattore di rischio per la malattia invasiva pneumococcica.
La malattia può avere complicazioni anche gravi, con possibili esiti permanenti.

Il trattamento della meningite batterica si basa soprattutto sulla terapia antibiotica. L’identificazione del batterio che causa la malattia è importante sia per orientare la terapia antibiotica del paziente, sia per definire se è necessaria la profilassi dei contatti.

In caso di meningite da meningococco e, in misura minore, da Haemophilus influenzae b, i contatti stretti del malato hanno un maggior rischio di ammalarsi rispetto alla popolazione generale. Per questo è indicata la loro profilassi antibiotica e sorveglianza.

In caso di focolai epidemici da meningococco C, le attuali raccomandazioni internazionali indicano l’opportunità di introduzione della vaccinazione su larga scala nell’area geografica interessata quando l’incidenza è superiore a 10 casi per 100.000 abitanti nell’arco di tre mesi.




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