martedì 6 ottobre 2015

TSO- una vicenda barbara



Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in Italia è istituito nel 1978 “Legge Basaglia” (L.180), e la regolamentazione è data dalla Legge n. 833/1978.

Descrivere l'effettivo svolgimento della procedura fissata dalla legge per l'adozione di un Trattamento sanitario obbligatorio, presenta alcune difficoltà per lo più legate alla disinformazione che spesso dimostrano gli operatori in essa coinvolti. In particolare:
disinformazione a livello normativo (ad esempio sulla decorrenza dei termini richiesti per la presentazione di un ricorso);
disinformazione riguardo agli originali obiettivi e scopi della riforma psichiatrica (non abbandono del malato "liberato", ma preminenza assoluta dell'intervento terapeutico sul territorio rispetto a quello ospedaliero)
mancanza infine di dati a livello statistico (quanti trattamenti sanitari obbligatori vengono effettuati in media ogni mese? Sembra che non vi sia una risposta a questa banale domanda).
Complessivamente emerge una discordanza pressoché generalizzata nei modi di interpretare ed applicare la legge e dunque nei modi di procedere dei soggetti coinvolti. Ognuno di essi sembra perseguire obiettivi ristretti alla propria sfera di competenza senza che vi sia alcuna volontà di collaborazione e tentativi di coordinare ruoli e funzioni.

Particolare attenzione merita infine una sorprendente quanto totale disapplicazione di interi istituti introdotti dalla riforma psichiatrica a garanzia e tutela dei diritti del malato.

I fattori che influiscono, a volte in modo determinante sulla decisione di adottare un provvedimento estremo come il Trattamento sanitario obbligatorio sono eterogenei e mutevoli. Sicuramente un ruolo decisivo è da questo punto di vista assunto dalla carenza di strutture territoriali extraospedaliere in grado di coprire, almeno in parte, la funzione di contenimento di emergenze psicotiche svolta oggi quasi esclusivamente dal servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura.

Ciascun servizio psichiatrico di diagnosi e cura dispone di un numero di posti letto variabile, peraltro mai superiore a 15. Tuttavia, qualora in situazioni di affollamento si renda necessario un intervento ospedaliero immediato, altri letti vengono aggiunti nei corridoi o nelle sale da pranzo, superando così facilmente il tetto massimo fissato dalla legge.




Il servizio psichiatrico di diagnosi e cura oltre a disporre di 4-5 stanze da letto, ha normalmente una stanza in più adattata a sala da pranzo e sala tv. In alcuni servizi i pazienti di sesso maschile non sono separati da quelli di sesso femminile, mentre in altri, data l'impossibilità di usufruire di un ampio locale in grado di ospitare tutti i pazienti assieme, vige tale separazione.

Uno psichiatra a turno è sempre presente: la mattina, il pomeriggio, e durante la notte. Un altro psichiatra (in certi casi due), viene tutte le mattine per due, tre ore a svolgere compiti di coordinamento e supervisione. È previsto inoltre un turno di tre infermieri ed una caposala. Talvolta a psichiatri ed infermieri si aggiungono ausiliari, ossia persone con ridotte funzioni di assistenza e maggiori funzioni di pulizia delle persone e degli ambienti.

Nel passato la maggior parte degli infermieri proveniva dagli ex ospedali psichiatrici, oggi questi - a seguito dei pensionamenti - costituiscono una minoranza. All'indomani della chiusura degli ospedali psichiatrici ed al momento dell'apertura dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, essi più che dimostrarsi preparati od impreparati ad affrontare le nuove modalità di intervento terapeutico introdotte dalla riforma psichiatrica, hanno semplicemente saputo adattarsi, "digerire" il cambiamento; tenuto conto naturalmente della diversa sensibilità e delle motivazioni varie che hanno guidato la scelta dei singoli di non restare negli ex ospedali psichiatrici in via di smantellamento ma di entrare nei nuovi servizi.

Generalmente il personale infermieristico non viene sottoposto ad una preparazione specifica, anche se alcuni responsabili dei servizi curano più di altri tale aspetto, ad esempio convocando periodicamente (di solito ogni quindici giorni) riunioni allargate agli infermieri dedicate proprio all'aggiornamento.

Le porte del servizio psichiatrico di diagnosi e cura restano sempre chiuse, anche durante l'ora del passo (la stessa fissata per tutti gli altri reparti dell'ospedale). All'entrata vi è un campanello, suonandolo si affaccia un infermiere. I pazienti psichiatrici, volontari ed obbligatori, sono rigidamente separati dai pazienti degli altri reparti dell'ospedale. Quelli volontari possono uscire per recarsi al bar o in altri reparti soltanto con il permesso degli infermieri che sul punto ricevono precise direttive dal personale medico. Ai pazienti in Trattamento sanitario obbligatorio al contrario non è mai permesso di uscire, qualora si renda necessario uno spostamento (ad esempio per effettuare un esame) devono essere accompagnati dall'infermiere.

All'interno del servizio è consentita la massima libertà di movimento, un telefono pubblico è a disposizione di chiunque.

La rigida chiusura e separazione rispetto agli altri reparti dell'ospedale che caratterizza - come nessun altro luogo in esso - il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, è addebitata anche e soprattutto alla scarsa tolleranza normalmente manifestata dal personale medico e para-medico nei confronti del paziente psichiatrico. Gli psichiatri del servizio di diagnosi e cura incontrano non poche difficoltà e resistenze nei casi in cui si renda necessario, a causa di problemi intercorrenti di altra natura richiedenti un immediato intervento medico-chirurgico, il trasferimento temporaneo di pazienti psichiatrici in altri reparti. Il semplice fatto che si tratti di un paziente psichiatrico, rappresenta di per sé un rischio, e determina immediatamente nei medici un allarme addirittura definito "somatico".



La vita all'interno di un servizio psichiatrico è scandita dai rigidi orari dell'ospedale, sia per quanto riguarda le visite che i pasti, con l'avvertimento che una maggiore sorveglianza, un più accurato controllo vengono esercitati (essenzialmente dagli infermieri) in questi reparti. Sorprendente appare la normalità con la quale viene considerata l'eventualità di adottare misure contenitive consistenti essenzialmente nel legare il paziente per i polsi e le caviglie al letto. Tali mezzi vengono considerati leciti ed adottati in misura più o meno rilevante a seconda del servizio, del clima che lo caratterizza, dalla formazione e dei metodi degli psichiatri ed infermieri che vi lavorano.

Gli psichiatri più giovani e di formazione basagliana sostengono che uno dei principali intenti della legge 180, ovvero l'istituzione dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ed il trasferimento all'interno dell'ospedale civile delle nuove modalità di funzionamento, organizzative e terapeutiche - sperimentate con successo nelle esperienze di apertura dei vecchi manicomi nel corso degli anni sessanta e settanta -, è completamente fallito. È accaduto esattamente il contrario: l'introduzione dei servizi psichiatrici negli ospedali ha determinato in primo luogo una realtà di medicalizzazione nella terapia dei disturbi psichici - in ambito ospedaliero vengono infatti praticati quasi esclusivamente interventi medico-farmacologici -, e soprattutto sono stati il malato e lo psichiatra ad adeguarsi ai metodi e alle dinamiche dell'ospedale civile, un'istituzione questa caratterizzata già di per sé da un forte isolamento e separazione con l'esterno, da regole ben precise, procedure rigorose e scarsa contrattualità dell'azione terapeutica. Nelle esperienze di apertura degli ospedali psichiatrici praticate da quegli psichiatri che, convinti della dannosità del manicomio e delle sue regole, negavano ad esso qualsiasi valore terapeutico, gli infermieri non indossavano più il camice bianco, segno di distacco ed autorità, ed i degenti vestivano abiti civili.

Nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura gli infermieri hanno il camice, i pazienti, nonostante siano in grado di muoversi e fisicamente sani, restano tutto il giorno in pigiama. Camminano stancamente e in modo ossessivo avanti e indietro per dieci metri di corridoio in cerca di qualcosa da fare, fumano in continuazione ed appaiono in uno stato catatonico. Quand'anche non vi sia una contenzione fisica ve n'è una di tipo morale, culturale e sociale. Un luogo come questo non contribuisce certo a stimolare la crescita dell'autonomia, il riconoscimento come persona, l'emancipazione e la responsabilità del paziente; ciò che si è in grado di offrire è soltanto un modello di vita vissuta in funzione della malattia.

La procedura di internamento scatta generalmente nei confronti di soggetti, il più delle volte già conosciuti dai servizi territoriali, che manifestano, attraverso il compimento di azioni eclatanti e pericolose - minaccia di suicidio, minaccia o compimento di lesioni a cose e persone - oppure di segno negativistico - rifiuto di comunicare e conseguente isolamento, rifiuto di terapia, rifiuto di acqua e cibo -, un acutizzarsi del disturbo psichico.

In tali circostanze i familiari conviventi o in loro assenza i vicini, chiedono aiuto allo psichiatra del servizio (quando con questo è già in corso una terapia o comunque è già stabilito un contatto), oppure chiamano direttamente l'ambulanza e/o i vigili urbani o i carabinieri. In verità carabinieri e vigili vengono chiamati soltanto in casi di estrema pericolosità o violenza, oppure nell'ipotesi in cui il paziente rifiuti di recarsi in ospedale.

A questo punto un medico, che può essere il medico dell'ambulanza, lo psichiatra del servizio giunto sul posto o anche il medico di famiglia, redige una proposta di Trattamento sanitario obbligatorio, motivandola stringatamente. Talvolta indicando il disturbo dal quale si presume affetto il soggetto, altre volte limitandosi a scrivere "disturbo psichico". Accade spesso che, sia la proposta che la convalida, vengano effettuate da medici del servizio psichiatrico di diagnosi e cura, essendo di fatto il Trattamento sanitario obbligatorio una misura adottata sempre nei confronti delle stesse persone, già conosciute dai servizi e soggette ripetutamente nel tempo a ricoveri. Perciò in questo caso quando i familiari o l'ambulanza chiamano il servizio, i medici si organizzano anticipatamente predisponendo e firmando in tempi brevi i due certificati richiesti dalla legge.

Qualora ad essere chiamato sia il medico di famiglia, questi generalmente prima di redigere la proposta si consulta con uno psichiatra del servizio psichiatrico di diagnosi e cura, nel caso in cui non lo faccia, capita spesso che il servizio respinga la suddetta proposta ritenendola impropria o comunque mancante dei requisiti formali minimi richiesti dalla legge.


Interessante è rilevare le controversie che ancora oggi, dopo quasi quarant' anni dall'entrata in vigore della legge, si hanno riguardo alla specializzazione del medico che è chiamato a convalidare il primo certificato. In verità sul punto, sia la 180 che la 833, non offrono delucidazioni, limitandosi semplicemente ad indicare, la prima un medico della struttura sanitaria pubblica (art. 2, comma 3) e la seconda un medico della unità sanitaria locale (istituite dalla stessa legge 833). Il piano sanitario regionale emanato dalle Regione Toscana per il triennio '96-'98 specifica che deve trattarsi di uno psichiatra.

Il momento della procedura più controverso e che ha dato adito a numerose discussioni è quello riguardante l'intervento della polizia municipale o di rappresentanti delle forze dell'ordine (carabinieri e polizia di stato). I vigili sostengono di non poter intervenire prima dell'emanazione dell'ordinanza del sindaco che dispone il Trattamento sanitario obbligatorio in presenza dei due certificati medici. Sennonché i casi in cui si rende necessaria una misura così drastica come un ricovero coatto, sono caratterizzati da un'estrema urgenza ed i tempi dell'emergenza psichiatrica, a detta degli operatori, sono più stretti rispetto a quelli previsti dalla legge. Dunque il più delle volte non si riesce ad ottenere l'emanazione dell'ordinanza prima del ricovero. La diffusione di questa prassi determina un certo disagio negli operatori, soprattutto negli psichiatri, convinti di realizzare in simili frangenti una sorta di "fermo psichiatrico", in pratica un abuso. Per questo allo scopo di studiare una soluzione si sono svolti incontri fra gli psichiatri ed il giudice tutelare, a conclusione dei quali tuttavia essi non hanno potuto far altro che constatare quello che oramai è considerato un semplice dato di fatto, un abuso riconosciuto tacitamente da psichiatri e magistrati.

Se però gli psichiatri una volta ammessa l'anomalia ed assodata la propria impotenza rispetto ad essa non hanno sollevato particolari problemi, numerose obiezioni e resistenze sono state opposte in simili frangenti da alcuni corpi della polizia municipale, in specie da quello di Scandicci, dimostratosi, soprattutto in passato, particolarmente reticente ad intervenire in assenza dell'atto ufficiale del sindaco. Sennonché, di fatto, qualora si renda necessario l'uso della forza per effettuare il trasporto in ospedale, ad intervenire sono i vigili. Essi generalmente arrivano sul posto in tre o quattro. Il loro intervento giunge in un momento particolarmente difficile, caratterizzato da una forte tensione.

In un primo momento i vigili intraprendono una vera e propria azione di convincimento dell'interessato; tentano di tranquillizzarlo e persuaderlo dell'utilità del ricovero. Quasi sempre tale azione ha successo e non occorre usare la forza. Se ciò non avviene il paziente viene prelevato e messo in ambulanza. In questa operazione i vigili sono assistiti dal personale dell'ambulanza, raramente è presente anche lo psichiatra del servizio. La polizia municipale ritiene utile il proprio intervento, avendo questo spesso un effetto positivo sul paziente: in presenza dei vigili egli si tranquillizza sentendosi tutelato - contro eventuali abusi sanitari - da rappresentanti di pubblica sicurezza (tanto che spesso il soggetto preferisce salire sulla vettura dei vigili piuttosto che in ambulanza).



Nel frattempo il servizio psichiatrico di diagnosi e cura provvede ad inviare (generalmente via fax) all'ufficio del comune di residenza del paziente i due certificati medici. Come sappiamo la legge richiede per l'adozione di un Trattamento sanitario obbligatorio un'ordinanza del sindaco entro 48 ore dal certificato di convalida. Quasi mai tale ordinanza risulta firmata dal sindaco.

Una volta firmata, l'ordinanza viene numerata divenendo così un atto ufficiale del Comune. Entro 48 ore dal ricovero, che nella maggior parte dei casi, come già osservato, avviene prima dell'emanazione dell'ordinanza, un messo del Comune provvede a notificare in doppia copia al servizio psichiatrico di diagnosi e cura interessato ed al giudice tutelare della Pretura circondariale l'ordinanza stessa.

Il giudice tutelare competente per tutti i trattamenti sanitari obbligatori emanati dai Comuni rientranti nel circondario del tribunale, dovrà emettere, entro 48 ore dall'avvenuta notifica, un decreto di convalida o di non convalida dell'ordinanza. Tali termini sono generalmente rispettati, altrimenti occorre iniziare nuovamente la procedura con la proposta del medico.  Nel caso in cui la motivazione addotta dal medico proponente - indicata nel certificato e nell'ordinanza - non appaia, a giudizio del giudice, esauriente o chiara, il giudice stesso telefonicamente chiede precisazioni e spiegazioni al medico, allo scopo di evitare la mancata convalida.

La legge 180, all'art. 3 comma secondo, precisa che il giudice provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento "assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti". Si rientra in tale previsione - oltreché nell'ipotesi predetta di contatti e chiarimenti telefonici con gli psichiatri del servizio resisi necessari di fronte a motivazioni insufficienti ed ambigue - nel caso in cui, in presenza di certificati poco esaurienti, il giudice decida di procedere ad un accertamento più accurato attraverso la nomina di un consulente tecnico di ufficio. Simili accertamenti vengono in realtà disposti raramente: il giudice vi provvede soltanto in presenza di forti lamentele del soggetto sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio, il quale magari denuncia la natura persecutoria ed infondata del ricovero. Ad ogni modo, una volta emesso, il decreto di convalida viene notificato al sindaco e al servizio psichiatrico di diagnosi e cura.

Ai sensi dell'art 3 comma sesto della legge 180 (ed art. 35 comma sesto della legge 833) il giudice tutelare qualora ne sussista la necessità può adottare provvedimenti urgenti per conservare e amministrare il patrimonio dell'infermo in Trattamento sanitario obbligatorio.

A conclusione dei sette giorni, qualora non sia già stata presentata dallo psichiatra del servizio psichiatrico di diagnosi e cura una richiesta di prolungamento, il trattamento termina. Uno psichiatra del servizio - non necessariamente lo stesso che ha proposto o convalidato il trattamento sanitario obbligatorio - è tenuto a comunicare al sindaco la cessazione delle condizioni richieste per l'internamento. Quest'ultimo, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione dello psichiatra emette un'ordinanza di revoca e ne dà comunicazione al giudice tutelare. Tale ordinanza di revoca dovrà aversi ogni qual volta il paziente venga dimesso, a prescindere dal momento in cui ciò si verifica: prima del settimo giorno, il settimo giorno, o - laddove sia stato ordinato un prolungamento - dopo sette giorni.


È difficile che un Trattamento sanitario obbligatorio termini nei sette giorni previsti dalla legge. Talvolta si procede ad una dimissione entro 2-3 giorni dal ricovero ma perché questo risulta in un secondo momento improprio, superando il paziente in breve tempo la crisi, senza che risulti affetto da un vero e proprio disturbo psichico, quanto piuttosto da un disturbo comportamentale il più delle volte legato all'abuso di alcool o sostanze stupefacenti. In questo senso è importante rilevare come non di rado gli psichiatri, pur considerando in quel frangente il trattamento obbligatorio una misura eccessiva, accettino di inoltrare la proposta di ricovero sotto le pressioni dei familiari, non sentendosela di respingere richieste provenienti da un contesto familiare e sociale caratterizzato da forte angoscia ed esasperazione. Senza dubbio, dichiarano gli psichiatri, una maggior attenzione e prudenza nel valutare l'adeguatezza di una richiesta di internamento veniva prestata in manicomio, essendo in quel caso il ricovero destinato a protrarsi indefinitamente nel tempo. Al contrario il fatto che oggi la legge ponga un limite temporale al Trattamento sanitario obbligatorio, conduce i medici a dare forse più peso e risposte immediate ai bisogni ed alle richieste dei familiari conviventi, a prescindere dalla reale urgenza e necessità del ricovero.

Vi è un altro caso in cui il Trattamento sanitario obbligatorio può risolversi nel termine di pochi giorni, senza peraltro che a ciò segua una dimissione del soggetto, ovvero quando il paziente accetta le cure e dunque il ricovero viene trasformato da obbligatorio in volontario. Certo può verificarsi anche il contrario: un paziente giunto in reparto volontariamente non accetta in un secondo tempo le cure ritenute necessarie dai medici che decidono perciò di inoltrare una proposta di Trattamento sanitario obbligatorio.

Sennonché, fatta eccezione per le suddette ipotesi, difficilmente un Trattamento sanitario obbligatorio termina entro sette giorni. Più spesso infatti viene prolungato: a volte di una settimana soltanto, in casi estremi fino a tre-quattro settimane. Comunque sia, qualora a giudizio dello psichiatra si renda necessario un prolungamento del ricovero, prima della scadenza dei sette giorni deve essere inoltrata all'ufficio competente del Comune di residenza del paziente una richiesta motivata di prolungamento. Il suddetto ufficio emetterà a firma del sindaco o dell'assessore delegato un'ordinanza di prolungamento entro 48 ore dal ricevimento del certificato medico, provvedendo a notificarla tramite messo al giudice tutelare nelle successive 48 ore. Quest'ultimo "rilevato che continuano a sussistere le condizioni per il trattamento sanitario obbligatorio" convaliderà il provvedimento.

In pratica viene riattivata la procedura seguita per il ricovero. I termini sono gli stessi, l'ordinanza è notificata in doppia copia sia al servizio psichiatrico di diagnosi e cura che al giudice tutelare. Il decreto di convalida del giudice viene comunicato al sindaco del comune interessato con l'indicazione di provvedere alla notifica dell'ordinanza convalidata al paziente.

Come abbiamo appurato la prassi è rappresentata dal prolungamento oltre i sette giorni del Trattamento sanitario obbligatorio. Anche per questo gli psichiatri interpellati non hanno manifestato disappunto o espresso lamentele riguardo alle indicazioni e prescrizioni temporali dettate dalle legge, affermando al contrario la pretestuosità delle numerose critiche rivolte al termine dei sette giorni fissato dal legislatore. Invero si tratta di una scadenza prolungabile senza limiti, perciò largamente gestibile dallo psichiatra stesso.

La legge di riforma psichiatrica, come sappiamo, si è preoccupata di introdurre una serie di istituti a tutela dei diritti fondamentali e della libertà del malato, garantito in questo modo, secondo il legislatore, contro eventuali abusi. Per rendere l'idea di come e quanto tali istituti siano in concreto utilizzati, è sufficiente dire che talune delle figure coinvolte nella procedura di internamento non ne sono addirittura a conoscenza. L'art. 4 della legge 180 riconosce a colui che è sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio ed a chiunque il diritto di rivolgere direttamente al sindaco richiesta di revoca e di modifica del provvedimento.

Così come nessuna richiesta di revoca o di modifica viene rivolta al sindaco, allo stesso modo il sindaco non esercita mai ricorso avverso l'eventuale mancata convalida dell'ordinanza da parte del giudice tutelare (art. 5 comma secondo, legge 180).

Infine il giudice tutelare non ha notizia di ricorsi presentati al tribunale competente da "chiunque vi abbia interesse" contro il provvedimento convalidato da lui medesimo (art. 5 comma primo, legge 180). Addirittura nel sostenere l'importanza della conoscenza da parte dell'interessato del provvedimento di ricovero che lo riguarda, aggiunge: "L'ordinanza deve essere necessariamente portata a conoscenza del malato perché egli ha trentacinque giorni di tempo per presentare ricorso al tribunale", dimenticando che tale termine è richiesto sì dalla legge per la presentazione del ricorso al tribunale, ma soltanto qualora sia il sindaco ad esercitare il suo diritto di ricorrere avverso la mancata convalida dell'ordinanza da lui emessa. Infatti il legislatore si è guardato bene dal porre limiti temporali ad una tutela giurisdizionale esercitata direttamente dall'individuo sottoposto ad un Trattamento sanitario obbligatorio (art. 5 comma primo e secondo, legge 180. Art. 35 comma ottavo e nono, legge 833).



Non è facile fornire un'attendibile descrizione socio-anagrafica del paziente "tipo" in Trattamento sanitario obbligatorio. Ciò non solo per la totale assenza di dati statistici, ma anche per la discordanza delle descrizioni fornite in merito dagli psichiatri dei servizi di diagnosi e cura.

Il giudice tutelare e i funzionari responsabili degli uffici comunali addirittura non offrono alcuna indicazione, adducendo motivazioni varie e talvolta vaghe: obbligo di tutelare la riservatezza dell'interessato nel pieno rispetto della legge sulla privacy; necessaria implicazione, nell'esposizione di tali dati, di giudizi su certificati medici che loro non sono in grado e non vogliono esprimere; disorganizzazione e sovraccarico di lavoro degli uffici.

Dunque possiamo tentare una descrizione del paziente "tipo" in Trattamento sanitario - senza alcuna pretesa e rilevanza statistica - soltanto sulla base delle poche indicazioni provenienti quasi esclusivamente dagli psichiatri dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura.

Come già osservato il ricovero costituisce una misura disposta prevalentemente nei confronti di pazienti già conosciuti e curati dai servizi di salute mentale extraospedalieri. Per lo più soggetti giovani, con un'età che varia dai diciotto ai trenta-trentacinque anni. Situazioni di solitudine ed esclusione, angoscia e tristezza, disagio e sofferenza, sembrano rappresentare una costante nelle loro vite. In particolare la presenza di un isolamento familiare e sociale forte impedisce loro di seguire con continuità una terapia ambulatoriale. A detta degli psichiatri spesso il paziente in Trattamento sanitario obbligatorio non ha consapevolezza della propria malattia, non accetta e riconosce il proprio bisogno di cure, dunque difficilmente chiede aiuto in assenza di familiari ed amici in grado di sostenerlo e spingerlo verso i servizi territoriali.

La condizione di obiettiva solitudine in cui queste persone si trovano è spesso conseguenza di episodi di vita tragici o comunque traumatici - come divorzi, abbandoni e morti -, ma può esser dovuta anche  ad una lontananza dalla propria città o paese di origine per motivi di studio o di lavoro. Quale ne sia la causa, essa provoca l'impossibilità di comprendere e raccogliere in tempo una richiesta di aiuto che (sempre) viene manifestata a vari livelli, e dunque impedisce in definitiva un intervento terapeutico tempestivo. Tutto ciò fa sì che un disturbo psichico, comunque già presente anche se in modo più o meno latente, si acutizzi per poi manifestarsi in modo eclatante ed esplosivo.

I servizi di diagnosi e cura competenti su zone tradizionalmente popolari osservano come a queste situazioni di isolamento si aggiungano sovente condizioni economiche e sociali molto difficili; in particolare i pazienti in Trattamento obbligatorio che giungono in reparto sono spesso disoccupati o immigrati, con un livello di istruzione piuttosto basso. Talvolta la malattia mentale si associa anche a storie di alcolismo o tossicofilia che peraltro rappresentano non la causa unica o principale del disturbo, quanto piuttosto un fattore aggravante o favorente.

In definitiva dunque alla base di un provvedimento come il Trattamento sanitario obbligatorio troviamo spesso, oltre ad un disturbo psichico (non necessariamente grave, dicono gli psichiatri), condizioni di emarginazione, sradicamento dal contesto sociale-culturale-familiare di appartenenza, problemi di integrazione sociale.



Quando al contrario dietro a colui che soffre psichicamente vi è un quadro familiare e sociale apparentemente tranquillo e normale, sembrano assumere un valore preponderante nella decisione di internamento le pressioni esercitate dal e nel predetto contesto. Gli psichiatri del servizio riconoscono senza difficoltà che la famiglia ed il gruppo di appartenenza sono sicuramente e pesantemente implicati nella misura del ricovero: "Senza dubbio l'accentuarsi di una normale condizione patologica è favorita, in misura più o meno evidente, da una minore tolleranza manifestata dall'ambiente di provenienza." Proprio per questo lo psichiatra del servizio di diagnosi e cura, di fronte ad una richiesta di ricovero proveniente dai familiari, deve essere in grado di comprendere quando essa sia appropriata e dunque opportuna, e quando al contrario sia espressione, più o meno consapevole, di intolleranza o addirittura di un calcolo utilitaristico. Il più delle volte l'esercizio di forti pressioni da parte dei conviventi per l'attivazione della procedura di internamento si accompagna, in modo più o meno evidente, ad una forte insofferenza, ad un abbassamento del livello di tolleranza normalmente manifestato nei riguardi del familiare malato. In simili frangenti, qualora il ricovero abbia luogo, risulta particolarmente difficile impostare un rapporto sereno con il paziente e portare avanti costruttivamente un discorso terapeutico efficace. Sia perché, intervenendo contro la volontà del soggetto si crea fra questo ed il medico un rapporto di forza (peraltro ciò si verifica in occasione di qualsiasi Trattamento sanitario obbligatorio), sia a causa dello scarso sostegno e collaborazione manifestati in questi casi dai familiari che raramente si sentono coinvolti nel lavoro terapeutico e si rivelano disponibili ad accogliere suggerimenti volti a venire fuori dalla via estrema e meramente contenitiva del ricovero.

A sostegno e conferma della scarsa efficacia ed utilità di un provvedimento come il Trattamento sanitario obbligatorio e del suo esser diretto piuttosto al contenimento di un'emergenza psichiatrica, vi è un dato fondamentale: la "recidiva" del paziente obbligatorio. Gli psichiatri, ma in questo caso anche il giudice tutelare ed i funzionari degli uffici comunali, asseriscono che gli individui soggetti al ricovero coatto sono sempre gli stessi: persone che ripetutamente nel tempo ed a intervalli più o meno lunghi, vengono internate. Nel tentativo di arginare tale problema, gli psichiatri dei servizi psichiatrici, ospedalieri e non - avendo ben presente che l'ospedalizzazione rappresenta inevitabilmente un'interruzione traumatica del vivere quotidiano - si adoperano per realizzare quella continuità terapeutica voluta fortemente dal legislatore del 1978, di cui tanto si è parlato e si parla. Questa sembra concretizzarsi essenzialmente nel proseguimento, una volta terminato il ricovero, del rapporto paziente-psichiatra del servizio. Peraltro non sempre si riesce a ottenere risultati in questa direzione. In primo luogo a causa di una carenza di personale lamentata da quasi tutti gli psichiatri. Ma non solo: nei casi sopra descritti di totale solitudine o comunque di scarso coinvolgimento e partecipazione dei familiari, difficilmente il paziente una volta dimesso riesce a mantenere "l'impegno" terapeutico con il servizio non facendosi sovente dopo i primi incontri più vedere. Infine, accanto a quegli psichiatri che ritengono che la presenza dello psichiatra "curante" nel corso di un trattamento sanitario obbligatorio sia, oltreché utile su di un piano strettamente terapeutico, segno di onestà e lealtà da un punto di vista umano e perciò doverosa, vi sono anche quelli che, ritenendo che la propria presenza nel corso di un ricovero obbligatorio possa pregiudicare ed alterare il rapporto volontario instauratosi all'esterno, preferiscono non "apparire" durante i sette giorni.

La legge 180 mostra particolare attenzione all'aspetto di tutela e garanzia della libertà del paziente e dei suoi diritti fondamentali nel corso di un trattamento sanitario obbligatorio. In verità, dichiarano gli psichiatri, soltanto entro certi limiti le prescrizioni di libertà sancite dal legislatore si realizzano. Ad esempio: più o meno in tutti i servizi di diagnosi e cura i medici comunicano al paziente il provvedimento adottato nei suoi confronti, spiegandone i motivi; il paziente può, telefonicamente, comunicare a suo piacimento con l'esterno. Tuttavia, alcuni diritti considerati elementari in qualsiasi altro ambito, difficilmente risultano compatibili con le regole e le caratteristiche dell'ospedale: come può esercitarsi il proprio diritto alla riservatezza in un luogo di quattro stanze assieme a dodici persone? Altre facoltà riconosciute al paziente si sono dimostrate inoltre incompatibili con la natura, le modalità e le circostanze che accompagnano un Trattamento sanitario obbligatorio; in particolare il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Il ricovero infatti deve esser eseguito nell'ospedale della zona di residenza del paziente, e le cure vengono prestate dallo psichiatra di turno giorno per giorno.



A proposito degli interventi terapeutici praticati al paziente in trattamento sanitario obbligatorio, vi è da dire che non sussiste un protocollo terapeutico prestabilito. Più medici lavorano nel sevizio di diagnosi e cura, psichiatri di formazione diversa con caratteristiche differenti. Alcuni prediligono terapie basate essenzialmente sui farmaci, altri - avendo una formazione psicodinamica - danno maggior rilevanza e spazio alla psicoterapia, pur non rappresentando un ambiente ristretto e promiscuo come l'ospedale il luogo ideale per la sua pratica. D'altra parte la circostanza che il ricovero sia obbligatorio influisce pesantemente sulle scelte terapeutiche dei medici; la psicoterapia ad esempio richiede un minimo di disponibilità ed apertura da parte del paziente, un riconoscimento del terapeuta come di qualcuno che può aiutarti. Generalmente subito dopo l'internamento il soggetto appare agitato, scostante, ha comunque un atteggiamento negativistico e rifiuta qualsiasi intervento e dialogo con gli psichiatri. Per questo gli vengono somministrati sedativi e soltanto in un secondo momento, a volte dopo giorni, iniziano i colloqui. Questi ultimi si svolgono in un'apposita stanza, talvolta, se lo psichiatra lo ritiene utile ed opportuno, vi partecipano anche i familiari. Confermando le difficoltà di rapporto che spesso caratterizzano il Trattamento sanitario obbligatorio, gli psichiatri non nascondono le resistenze e gli ostacoli che incontrano nel procedere a tali colloqui con il paziente obbligatorio. Qualcuno tenta di instaurare immediatamente un dialogo con la persona, riconoscendo peraltro come anche questo primo contatto assuma inevitabilmente la forma di un'imposizione, e limitandosi dunque attraverso di esso a esporre le condizioni del ricovero.

Il convegno "Trattamento Sanitario Obbligatorio: è davvero necessario?"è stato organizzato dal Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani nell’ambito della mostra multimediale “Salute mentale: dignità e diritti umani” è scaturito da un fatto di cronaca: la condanna dei medici responsabili  per il caso del maestro Mastrogiovanni, morto di TSO dopo essere stato legato al letto di contenzione per quasi cinque giorni consecutivi.

L’avvocato Claudio Defilippi, del Foro di Milano, Presidente dell’associazione “Lawyers for Human Rights” ha illustrato gli aspetti legali del TSO, civili e penali, spiegando in che termini è possibile agire civilmente (anche se il TSO è già stato attuato, il ricorso permette di cancellarlo a posteriori, ed evitare lo stigma permanente di ‘malato mentale’, e le altre possibili conseguenze, quali l’interdizione, la nomina di un tutore o di un gestore del proprio patrimonio ecc.) e penalmente, contro i responsabili, nei casi (più frequenti di quanto si creda) in cui si configura il reato di sequestro di persona.

Giorgio Pompa è intervenuto sull’esposto presentato nel dicembre 2010 dal Telefono Viola di Milano alla Procura di Milano in cui si denunciano 17 gravissimi abusi avvenuti nei tre reparti psichiatrici di un ospedale milanese. Tali abusi hanno causato la morte di 12 pazienti, di cui almeno 4 mentre erano presumibilmente legati mani e piedi al letto di contenzione; hanno provocato gravissime lesioni (paralisi alle braccia e paralisi alle gambe) a due pazienti sottoposti a prolungate contenzioni; e altri altri due pazienti sono rimasti legati al letto di contenzione ininterrottamente per un tempo 24 e 36 volte superiore alla durata massima per le contenzioni previste dai protocollo (12 ore). Pompa, infine, si è soffermato sulle origini degli abusi della psichiatria: da quando, agli inizi dell’800, a quest’ultima è stato assegnato il compito di ridurre la follia ad una malattia, ovvero da quando una metafora, la ‘malattia mentale’, è stata presa alla lettera e ‘curata’ da particolari ‘medici’, in particolari ‘ospedali’ prima (i manicomi) e particolari reparti ospedalieri poi (SPDC), con particolari terapie ‘mediche’.



La dottoressa Nicoletta Calchi, Dirigente Medico di 1° Livello presso il reparto di psichiatria dell’Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda, ha raccontato alcuni esempi di come la legge Basaglia venga di routine aggirata per fare dei TSO assolutamente immotivati. Tra gli esempi citati, una paziente russa rimasta rinchiusa in reparto per 120 giorni senza MAI potere uscire, un paziente legato al letto perché ‘disturbante’ e lasciato lì per ore prima di ricordarsi di eseguire l’atto burocratico del TSO, l’indifferenza di fronte a un paziente che si era impiccato durante la degenza forzata. I racconti dalla dottoressa Calchi sembravano provenire da un film dell’orrore:

Ho visto eseguire contenzioni drammatiche, ove il sadismo degli operatori sanitari era sovrano, pazienti che perdevano sangue dalla bocca, occhi che roteavano, gambe di infermieri appoggiate con forza sulla gola ... scene inumane, ingiustificate e ingiustificabili.
Al convegno ha parlato anche Danilo, un ragazzo che ha subito un TSO a dir poco allucinante, con tanto di percosse e uso di spray al peperoncino. Danilo, lasciato legato per diverse ore in mezzo ai propri escrementi, ha raccontato la sua tremenda esperienza d fronte a un pubblico stupefatto nell’apprendere che queste cose non sono eccezioni, ma pratica quotidiana.

I dati ufficiale per il 2009 e 2010 (fonte ISTAT) riferiscono di circa mille TSO all’anno in Lombardia, ma l’Ufficio TSO del Comune di Milano, interpellato dal CCDU, ha riferito che i TSO sono oltre mille nel solo Comune di Milano (con punte di 1.200 TSO/anno) - nettamente superiori al dato ISTAT. L’indagine ISTAT prende in considerazione il rapporto tra TSO e ricoveri volontari, rapporto che, nella media italiana, si stabilizza attorno al 10%.

Alberto Brugnettini, del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani, riferendo delle tante persone che si sottopongono a ricovero “volontario” in seguito a minaccia di TSO (in perfetto stile da Padrino: viene loro fatta un’offerta che non possono rifiutare), ha chiesto alla dottoressa Calchi se questi dati fossero realistici. La verità, secondo la dottoressa Calchi è che s’includono questi ricoveri pseudovolontari, la percentuale di TSO ‘de facto’ supera di slancio il 50%, in palese violazione dello spirito della legge Basaglia.








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