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L’arrivo di nuovi farmaci efficaci e nuove stime farmacoeconomiche modificano le prospettive di una strategia che punti a un’ eradicazione dell’epatite C nel nostro Paese. Questo, in sintesi, il messaggio di un panel di esperti che ha discusso il tema il 3 settembre a Roma durante il convegno “La rivoluzione in Hcv” organizzato nella sede di Campoverde di Aprilia della casa farmaceutica Abbvie, che ha da poco lanciato un nuovo trattamento per la patologia (si veda oltre). «In Italia è una prospettiva realistica la riduzione a zero dei nuovi casi di epatite C - ha affermato Alfredo Alberti, professore di gastroenterologia dell’università di Padova - e la riduzione netta della sua prevalenza (numero dei casi di una malattia su un territorio in un dato intervallo di tempo ndr)».
Il problema principale, considerati i costi dei nuovi farmaci è la sostenibilità economica dell’auspicio. Secondo uno studio dell’università di Tor Vergata pubblicato su Global and Regional Health Technology Assessment però il sistema sanitario potrebbe in un certo senso “autofinanziarsi” . «Il nostro studio - ha spiegato Francesco Saverio Mennini, l’autore principale - dimostra che il costo che dovrà essere sopportato dal Ssn per l’utilizzo dei nuovi farmaci può essere sostenibile, perché già a partire dal 2018 ogni paziente trattato con i nuovi medicinali comporterà a risparmi diretti e indiretti intorno ai 10mila euro, che diventeranno 14mila nel 2024. Questo a fronte di un miliardo di euro l’anno che si spendono già oggi (fra costi diretti e indiretti) per la totalità dei malati in Italia».
In buona sostanza: la tesi dello studio è che ogni malato di epatite C costa alla “società” nel suo complesso una certa cifra per cure, mancata produttività eccetera, che tende ad aumentare con l’aggravarsi della patologia: con la sua guarigione, ottenibile con i nuovi farmaci in oltre il 90% dei casi, tali costi sarebbero “riassorbiti” , cosicché già nel 2020, secondo le stime si potrebbe rientrare dei soldi spesi attraverso i risparmi conseguiti. «Il modello di proiezione demografica» ha precisato Mennini, «ha consentito di stimare dimostrare una riduzione di oltre 156 mila eventi Hcv-correlati nel medio periodo 2014-2030, quali fibrosi, cirrosi, epatocarcinoma, trapianti e decessi, e una riduzione dei costi sanitari (diretti e indiretti) grazie al trattamento o con i nuovi farmaci anti-Hcv. Questi risultati saranno ancora piu’ consistenti grazie alle terapie più recenti che risultano piu’ efficaci rispetto a quelli considerati nel nostro studio».
Uno dei nodi che va però risolto è quello epidemiologico: quanti sono i malati di epatite C in Italia? E quanti i portatori del virus Hcv? Le diagnosi di epatite C sono circa 300mila, ma la stima, secondo quanto riferito dagli esperti al convegno, è che siano oltre 1,2 milioni le persone infettate dall’Hcv. «Il piano nazionale contro le epatiti, presentato poche settimane fa dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin e ora in visione alla Conferenza Stato-Regioni prevede uno screening a tappeto solo su poche categorie di potenziali pazienti. - ha sottolineato Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’istituto Spallanzani di Roma – I sistemi di sorveglianza epidemiologica nel nostro Paese sono stati abbandonati. Dobbiamo rimettere le malattie infettive e i sistemi di controllo al centro del sistema».
Dall’associazione di pazienti Epa C, ha annunciato il suo presidente Ivan Gardini, arriverà entro il primo censimento dei malati di epatite C, fatto a partire dalle richieste di esenzione. «Esistono realtà epidemiologiche diverse anche in Italia - ha spiegato Carmela Loguercio della Seconda Università di Napoli -, sappiamo che c’è una differenza tra Nord e Sud, e le regioni del Sud dovrebbero essere maggiormente attrezzate perché hanno più casi. Esiste poi un registro per le epatiti acute che ne registra circa il 10%, molte Asl non comunicano l’infezione».
Altro problema quello dell’accessibilità effettiva delle nuove cure. Infatti per adesso la rimborsabilità dei “superfarmaci” contro l’epatite C è riservata ai malati che corrispondono a precisi parametri, che, di fatto, danno la precedenza a chi è in fase più avanzata e quindi ha bisogno più urgente della cura . Ma non sempre il trattamento pare possa davvero essere garantito a chi ne ha diritto. «Entro fine anno con il ritmo attuale potremmo arrivare a 20-25mila pazienti trattati, che erano quelli preventivati – ha spiegato Ivan Gardini -. Ci preoccupa però il fatto che diverse Regioni sono già al limite del budget, potrebbero non avere risorse per i pazienti da qui a fine anno se non arriveranno i soldi del Fondo Nazionale di cui il ministro Lorenzin ha firmato da poco il riparto. Ci sono state in questo periodo molte segnalazioni, soprattutto da Umbria e Piemonte, ma siamo riusciti a risolvere l’80% dei problemi che ci sono stati segnalati». «Il Fondo per l’innovazione, che contiene le risorse per trattare i pazienti più gravi fino all’anno prossimo, va difeso», ha sottolineato Gardini. «In diverse occasioni le Regioni hanno cercato di dirottare le risorse invece va confermato e se possibile rimpinguato, per permettere di curare più persone, visto che già ora molti si stanno informando su come andare a comprare il farmaco in India o in Egitto».
«Il rilevante impatto della malattia in termini epidemiologici - dichiara Massimo Andreoni, ordinario di Malattie infettive, dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Roma Tor Vergata e presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) - comporterà per il Sistema sanitario nazionale italiano l’esigenza di affrontare nei prossimi 5-10 anni un gran numero di cure per un numero sempre crescente di pazienti, il cui trattamento può essere molto complesso a causa delle diverse tipologie, quali ad esempio i pazienti con cirrosi, coloro che hanno ricevuto il trapianto di fegato e i pazienti con co-infezione da virus dell’Hiv, e della rapidità del processo di mutazione e replicazione virale che caratterizza il virus dell’Hcv». Fra i farmaci innovativi recentemente approvati in Italia per il trattamento dell’epatite C, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha autorizzato lo scorso 25 maggio l’immissione in commercio del regime terapeutico anti-Hcv di AbbVie, combina tre agenti antivirali ad azione diretta che combattono il virus dell’epatite C in diverse fasi del suo ciclo vitale, è interamente orale, con o senza ribavirina e privo di interferone ed è indicato per il trattamento di pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C di genotipo 1 e 4. Le percentuali di guarigione sono finora oltre il 95-100%.
L'epatite C è una malattia infettiva, causata dall'Hepatitis C virus (HCV), che colpisce in primo luogo il fegato (epatite). L'infezione è spesso asintomatica, ma la sua cronicizzazione può condurre alla cicatrizzazione del fegato e, infine, alla cirrosi, che risulta generalmente evidente dopo molti anni. In alcuni casi, la cirrosi epatica potrà portare a sviluppare insufficienza epatica, cancro del fegato, varici esofagee e gastriche.
L'HCV è trasmesso principalmente per contatto diretto con il sangue infetto, spesso dovuto all'uso di droghe per via endovenosa, a presidi medici non sterilizzati e trasfusioni di sangue. Si stima che circa 130-170 milioni di persone al mondo siano infettate dal virus dell'epatite C. L'esistenza dell'epatite C, in origine definita "epatite non A non B", è stata ipotizzata nel 1970 e confermata nel 1989.
Il virus persiste nel fegato di circa l'85% delle persone infette. Questa infezione persistente può essere trattata con i farmaci interferone e ribavirina, che rappresentano la terapia di riferimento. Complessivamente il 50-80% dei pazienti trattati guarisce, mentre coloro che sviluppano cirrosi o cancro possono necessitare di un trapianto di fegato. Al 2015 nessun vaccino efficace contro l'epatite è ancora disponibile.
A metà degli anni settanta, Harvey J. Alter, capo della sezione Malattie Infettive del Dipartimento di Medicina Trasfusionale presso lo statunitense National Institutes of Health, insieme al suo team di ricerca, dimostrò come la maggior parte dei casi di epatite post-trasfusionale non fossero causati dal virus dell'epatite A o B. Nonostante questa scoperta, gli sforzi di ricerca internazionali per identificare il virus, inizialmente chiamato epatite non A non B (NANBH), non ebbero successo per più di un decennio. Nel 1987, Michael Houghton, Qui-Lim Choo e George Kuo, della Chiron Corporation, in collaborazione con il dottor D.W. Bradley del Centers for Disease Control and Prevention (CDC), utilizzarono un nuovo approccio di clonazione molecolare per identificare il microrganismo sconosciuto e sviluppare quindi un test diagnostico.
Nel 1988, l'esistenza del virus fu confermata da Alter verificandone la presenza in una serie di campioni NANBH e, nell'aprile 1989, la scoperta del virus HCV fu pubblicata in due articoli sulla rivista Science. La scoperta ha portato a significativi miglioramenti nella diagnosi e un migliore trattamento antivirale. Nel 2000, Alter e Houghton sono stati premiati con il Lasker Award for Clinical Medical Research per "lavoro pionieristico che ha portato alla scoperta del virus che causa l'epatite C e lo sviluppo di metodi di screening che hanno ridotto il rischio di trasfusione di sangue infetto da epatite negli Stati Uniti dal 30% nel 1970 quasi a zero nel 2000".
Si stima che vi siano circa 130-170 milioni di individui affetti da epatite C al mondo. Gli studi fanno ritenere, inoltre, che l'HCV sia responsabile, a livello mondiale, del 27% delle cirrosi epatiche e del 25% degli epatocarcinomi. In Italia vi sono circa 1 milione di persone infette con un'incidenza di 0,5 nuovi casi ogni 100.000 abitanti (nel 2004), in diminuzione, soprattutto nei giovani, grazie alla maggiore attenzione alle pratiche di sterilizzazione, all'impiego di materiali monouso in chirurgia e odontoiatria e al controllo delle trasfusioni. La coinfezione col virus HIV è comune e circa il 25% dei pazienti HIV positivi sono anche infettati da HCV.
Sono disponibili test sierologici per rilevare la presenza dell'infezione. Inoltre la reazione polimerasica a catena (PCR) può essere usata per individuare il genotipo virale responsabile. Esistono diversi genotipi, distribuiti prevalentemente per area geografica; il genotipo 1a è il più comune in Nord America, mentre in Europa e in Italia il più diffuso è il tipo 1b.
La prevalenza dell'epatite C è alta in alcuni Stati dell'Africa e dell'Asia. Nazioni con alto tasso di infezioni includono: Egitto (22%), Pakistan (4,8%) e Cina (3,2%). Si ritiene che l'alta prevalenza in Egitto sia dovuta alla campagna di massa per la diagnosi di schistosomiasi in cui sono state utilizzate siringhe di vetro sterilizzate impropriamente.
L'agente eziologico dell'epatite C è l'hepatitis C virus (HCV), un virus dal diametro di 55-65 nm dotato di un pericapside a composizione prevalentemente lipidica e di un capside icosaedrico contenente un singolo filamento di RNA con polarità positiva, lungo 9.100 nucleotidi. Si tratta di un appartenente al genere hepacivirus nella famiglia Flaviviridae. Sebbene sia noto che esistono diversi genotipi del virus, non esiste una classificazione universalmente accettata; quella più utilizzata, recepita dall'OMS, ne prevede 11, mentre altre ne identificano tra i 4 e i 7. Negli Stati Uniti, circa il 70% dei casi sono relativi al genotipo 1, il 20% dal genotipo 2 e circa l'1% in ciascuno degli altri genotipi. Il genotipo 1 è anche il più comune in Sud America e in Europa. In tutto sono stati identificati circa un centinaio di ceppi virali.
Nel mondo sviluppato, la via di trasmissione principale del virus è legata all'uso di droghe per via endovenosa, mentre nei paesi in via di sviluppo le cause maggiori sono le trasfusioni di sangue non sicure e le procedure mediche. Nel 20% dei casi, la causa di trasmissione rimane comunque sconosciuta; tuttavia si ritiene che la maggior parte di esse sia comunque legata alle iniezioni di sostanze stupefacenti.
L'utilizzo di droghe per via endovenosa è un importante fattore di rischio per l'epatite C in molte parti del mondo. Dei 77 paesi esaminati, 25 hanno evidenziato una prevalenza tra il 60% e l'80% di epatite C nella popolazione facente uso di questo tipo di droghe e in dodici si sono registrati tassi superiori all'80%. Si ritiene che dieci milioni di consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva siano infetti da epatite C: Cina (1,6 milioni), Stati Uniti (1,5 milioni) e Russia (1,3 milioni) hanno i tassi assoluti più alti. La presenza di epatite C tra i detenuti negli Stati Uniti è da dieci a venti volte superiore a quella riscontrabile nella popolazione generale, questo è stato attribuito a comportamenti ad alto rischio che avvengono nelle carceri come le iniezioni di droga e i tatuaggi con attrezzature non sterili.
Le trasfusioni di sangue e i trapianti d'organi, in assenza di un controllo preventivo sulla presenza di HCV, sono procedure che comportano un alto rischio di infezione. Gli Stati Uniti, nel 1992, hanno istituito uno screening universale sulle sacche di sangue trasfuse e il rischio è diminuito da 1 su 10.000 a 1 su 10.000.000 per unità di sangue. Il Canada aveva istituito lo screening universale già nel 1990. Questo rischio, per quanto basso, è sempre presente per via di un periodo di tempo di circa 11-70 giorni (a seconda del metodo con cui si esegue il controllo) tra il possibile contagio del potenziale donatore e la capacità di rilevare il virus nel suo sangue. Alcuni paesi del mondo ancora non effettuano i dovuti controlli, a causa del loro elevato costo.
Coloro che si pungono accidentalmente con un ago già venuto a contatto con un paziente HCV positivo, hanno una probabilità di circa l'1,8% di contrarre l'infezione. Il rischio è maggiore se la puntura avviene in profondità. Vi è anche un modesto rischio di trasmissione tra il sangue e le mucose, mentre è assente se l'esposizione del sangue avviene sulla cute integra.
È stato provato che anche i presidi sanitari possono essere una causa di trasmissione di epatite C, se non vengono utilizzate adeguate precauzioni. Le limitazioni all'applicazione di rigorose e uniformate precauzioni in strutture mediche e odontoiatriche pubbliche e private sono note per essere la causa principale della diffusione del virus in Egitto, il paese con più alto tasso di infezione nel mondo.
Il virus dell'epatite C, sebbene con frequenza di gran lunga inferiore a quella del virus dell'epatite B e/o dell’HIV, si trasmette per via sessuale. Tale trasmissione avviene solo se durante l'atto vi è scambio di sangue. Non sono infettanti né lo sperma, né la saliva, né le secrezioni vaginali. Il rischio è minore nei partner monogami sia eterosessuali, sia omosessuali, rispetto ai soggetti con numerosi partner sessuali. La coinfezione HIV–HCV aumenta il rischio di trasmissione sessuale di HCV. Altri fattori potenzialmente in grado di aumentare il rischio di infezione sono la presenza di altre malattie sessualmente trasmissibili, come Herpes simplex labiale e genitale, gonorrea e trichomoniasi vaginale. Il governo degli Stati Uniti raccomanda solo l'uso del preservativo per prevenire la trasmissione dell'epatite C negli individui con partner multipli.
Alla pratica della tatuazione è associato un rischio da due a tre volte maggiore di contrarre l'epatite C rispetto alla popolazione generale. Questo può essere dovuto a uso di apparecchiature impropriamente sterilizzate o alla contaminazione dei coloranti utilizzati. I tatuaggi e i piercing eseguiti prima metà degli anni 1980 o in strutture non professionali destano una maggior preoccupazione, poiché i requisiti di sterilità, in tali contesti, possono essere mancati. Il rischio sembra essere maggiore per i tatuaggi più grandi. Si stima che quasi la metà dei detenuti abbiano utilizzato attrezzature per tatuaggi non sterili. Nelle strutture autorizzate è comunque raro poter contrarre un'infezione da HCV.
Oggetti per la cura personale, come rasoi, spazzolini da denti e attrezzature per la manicure o pedicure, possono essere contaminati con il sangue. La loro condivisione può portare all'esposizione al virus HCV. Un'appropriata cautela deve essere assunta in qualsiasi situazione in cui vi sia una perdita di sangue. L'HCV non si diffonde attraverso il contatto casuale, come ad esempio abbracci, baci o con la condivisione di utensili da cucina.
La trasmissione verticale del virus dell'epatite C da una madre infetta al suo bambino avviene in meno del 10% delle gravidanze. Non vi sono misure preventive che modifichino tale rischio. Non è chiaro in quale momento della gravidanza possa avvenire la trasmissione, ma sembra che possa verificarsi sia durante la gestazione, sia al momento del parto. Non vi è alcuna prova che l'allattamento al seno possa essere causa di trasmissione del virus, tuttavia, a scopo cautelativo, si consiglia di evitarlo se i capezzoli sono sanguinanti, o se la carica virale risulti elevata.
L'infezione da epatite C provoca sintomi acuti nel 15% dei casi. Essi sono generalmente lievi e vaghi, tra cui una riduzione dell'appetito, stanchezza, nausea, dolori articolari o muscolari e perdita di peso. La maggior parte dei casi di infezione acuta è accompagnata da ittero. L'infezione si risolve spontaneamente nel 10-50% dei casi e più frequentemente in individui giovani e di sesso femminile.
Circa l'80% delle persone esposte al virus sviluppa un'infezione cronica. La maggior parte prova pochi o nessun sintomo durante i decenni iniziali dall'infezione, generalmente solo un po' di affaticamento. Dopo numerosi anni, l'epatite C cronica può portare allo sviluppo di cirrosi epatica e cancro al fegato. Circa il 10-30% delle persone manifesta cirrosi dopo oltre 30 anni di malattia, in particolar modo i pazienti coinfettati con epatite B o HIV, alcolisti e di sesso maschile. Coloro che sviluppano cirrosi hanno un rischio 20 volte maggiore di carcinoma epatocellulare, e se questi sono anche forti consumatori di alcool, il rischio diventa 100 volte maggiore. L'epatite C è causa, in tutto il mondo, del 27% dei casi di cirrosi epatica e del 25% dei casi di carcinoma epatocellulare.
L'epatite C è raramente associata alla sindrome di Sjögren, una malattia autoimmune, a trombocitopenia, a lichen planus, al diabete mellito e a malattie linfoproliferative. La presenza di trombocitopenia è stimata tra lo 0,16% e il 45,4% delle persone con epatite cronica da HCV. Sono state segnalate anche correlazioni con la prurigo nodularis e la glomerulonefrite membrano-proliferativa.
Vi sono una serie di test diagnostici per l'epatite C, tra cui: il test ELISA, il test Western blot e la verifica della presenza di RNA virale tramite reazione a catena della polimerasi (PCR). L'RNA del virus può essere rilevato tramite PCR tipicamente da una a due settimane dopo l'infezione, mentre la formazione degli anticorpi può richiedere più tempo e quindi inizialmente possono non essere rilevati.
L'epatite C cronica è definita come l'infezione da virus dell'epatite C, individuato in base alla presenza del suo RNA, persistente per più di sei mesi. Le infezioni croniche sono in genere asintomatiche durante i primi decenni e quindi vengono più frequentemente scoperte in seguito a indagini effettuate dopo una rilevazione di elevati livelli di enzimi epatici o nel corso di un'indagine di screening in individui ad alto rischio. Il test non è in grado di distinguere tra infezioni acute e croniche.
Il test per l'epatite C tipicamente comincia con l'analisi del sangue per rilevare la presenza di anticorpi contro l'HCV grazie a un test immunoenzimatico. Se questa verifica ha esito positivo, un test di conferma viene quindi eseguito per verificare l'immunodosaggio e per determinare la carica virale. L'immunodosaggio è valutato mediante un test immunoenzimatico ricombinante, mentre la carica virale viene invece determinata con una reazione a catena della polimerasi effettuata sull'RNA del virus HCV. Sono necessarie circa 6-8 settimane dall'infezione affinché l'immunodosaggio dia risultato positivo.
Gli enzimi epatici, in particolar modo l'alanina transaminasi (ALT), sono variabili durante il periodo iniziale dell'infezione e in media cominciano a salire a partire dalla 7ª settimane successiva all'infezione. Il dosaggio degli enzimi epatici è quindi scarsamente correlabile alla gravità della malattia.
Biopsie epatiche vengono utilizzate per determinare il grado di danno al fegato, tuttavia la procedura comporta dei rischi e nell'1-5% dei casi richiede l'ospedalizzazione. I cambiamenti tipici osservati sono un'infiltrazione linfocitaria all'interno del parenchima epatico, la presenza di follicoli linfoidi localizzati a livello della triade portale e l'alterazione dei dotti biliari. Vi sono anche un certo numero di esami del sangue disponibili per tentare di determinare il grado di fibrosi epatica e diminuire la necessità di effettuare biopsie.
Il virus dell'epatite C porta a un'infezione cronica nel 50-80% delle persone che lo contraggono, delle quali circa il 40-80% viene trattato. In rari casi, l'infezione può risolversi senza alcun trattamento. Ai pazienti affetti da epatite C cronica, si consiglia di evitare l'assunzione di alcool e di farmaci tossici per il fegato. È raccomandata inoltre la vaccinazione contro l'epatite A e l'epatite B. Ecografie di sorveglianza per il carcinoma epatocellulare sono raccomandate nei pazienti che sviluppano cirrosi.
In generale, il trattamento farmacologico è consigliato nei pazienti con alterazioni epatiche provocate dal virus. Il trattamento di riferimento è una combinazione di interferone alfa pegilato e ribavirina, da assumersi per un periodo di 24 o 48 settimane, a seconda del genotipo del virus HCV. Si è osservato che questa terapia porta a miglioramenti nel 50-60% dei casi.
Per il genotipo 1 e il genotipo 4, considerati meno sensibili all'interferone, un ruolo importante nella risposta alla terapia è giocato dalla carica virale nel sangue prima dell'inizio della cura.
Nel corso del 2011, sono stati approvati due nuovi farmaci antivirali, il boceprevir e il telaprevir, che andranno ad affiancare l'interferone e la ribavirina contro i genotipi più difficili da trattare, in particolar modo il genotipo 1, portando il tasso di guarigione dal 40% al 70%. Gli effetti collaterali del trattamento sono frequenti, con la metà dei pazienti che avverte sintomi di tipo influenzali e con un terzo che presenta problemi emotivi. Il trattamento che avviene durante i primi sei mesi risulta più efficace rispetto a quando l'epatite C diventa cronica. Nel 2013, la FDA ha approvato definitivamente il farmaco sofosbuvir per il trattamento dell'epatite C.
Nei pazienti affetti da talassemia, la ribavirina sembra essere utile, ma aumenta la necessità di trasfusioni.
Diverse terapie alternative sono rivendicate dai loro fautori per essere utili per l'epatite C, come l'utilizzo di cardo mariano, ginseng o argento colloidale. Tuttavia, nessuna terapia alternativa ha dimostrato di migliorare i risultati per il trattamento dell'epatite C e non esiste alcuna prova che queste terapie abbiano alcun effetto sul virus.
La risposta al trattamento varia in base al genotipo del virus ed è definita come la discesa dei livelli di RNA virale a valori non rilevabili dopo 24 settimane dalla sospensione del farmaco. Nel 40-50% delle persone con HCV di genotipo 1, la risposta avviene dopo 48 settimane di trattamento. In quelle con genotipo 2 e 3 la risposta si presenta invece dopo 24 settimane dall'inizio della cura per il 70-80% di esse, mentre per il genotipo 4 la risposta avviene nel 65% dei pazienti a 48 settimane. Per la risposta alla terapia nei pazienti affetti da virus con genotipo 6, non si hanno ancora dati certi, ma sembra che si avvicini alle tempistiche valide per i pazienti colpiti dal genotipo 1.
Al 2015, non è ancora disponibile un vaccino efficace nella prevenzione dall'infezione da parte del virus dell'epatite C, tuttavia alcuni sono in fase di sviluppo e i primi risultati sono incoraggianti.
Una combinazione di strategie per la riduzione del rischio, come l'utilizzo di aghi e siringhe monouso, hanno fatto diminuire del 75% il rischio di trasmissione di epatite C nei tossicodipendenti per via iniettiva. Nei paesi in cui c'è un insufficiente fornitura di siringhe sterili, i farmaci dovrebbero essere somministrati preferibilmente per os piuttosto che con iniezioni, al fine di ridurre il rischio di trasmissione interumana.
Si ritiene che solo il 5-50% delle persone infettate negli Stati Uniti e in Canada diventi consapevole della propria situazione. Il test di screening è raccomandato nei soggetti ad alto rischio, tra i quali quelli che hanno tatuaggi ed è consigliato anche negli individui che presentano un aumento ingiustificato degli enzimi epatici, dal momento che questa condizione è spesso l'unico segno di epatite cronica. Lo screening di routine, tuttavia, non è previsto negli Stati Uniti. Lo screening dei donatori di sangue, invece, è fondamentale e aderisce alle precauzioni universali suggerite alle strutture sanitarie.
Al 2015, vi sono circa 100 farmaci in sviluppo per l'epatite C. Questi includono, tra gli altri, vaccini, immunomodulatori e gli inibitori della ciclofilina. Questi potenziali nuovi trattamenti sono stati sviluppati in seguito a una migliore conoscenza del virus dell'epatite C.
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